§ Ri-percorsi / 1

Fabbriche senza letteratura




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Dai giorni delle discussioni su "letteratura e industria", che trovano i loro due punti di maggior tensione in un numero di Nuovi argomenti del 1958 e in due di Menabò del 1962, sono passati alcuni decenni. Ma chi oggi volesse riesplorare quelle discussioni con ogni probabilità non riuscirebbe a sfuggire a due diverse impressioni. La prima è che vi sia stata una sproporzione veramente drammatica, e non priva in qualche caso di connotazioni apocalittiche, tra l'ampiezza del discorso teorico e le occasioni pratiche, per eccessiva penuria della materia letteraria -sostanzialmente: la realtà delle opere -che ne avrebbero dovuto rappresentare il sostegno e la dimostrazione; la seconda è provocata dalla macroscopicità dell'abbaglio in cui, a guardare le cose da questa distanza, sembra sia allora caduta tanta vivida intelligenza e altrettanta ferrata filologia, e che rende quei discorsi quasi una lingua morta, depositata in una zona opaca della memoria, di cui solo per induzione e direttamente si riesca ad afferrare un'ombra di significato.
Si fa una grandissima fatica a ricordare quegli anni a cavallo della morte di Stalin (questo nome lo si deve pur pronunciare): quante passioni rimosse, quanti sprechi di menzogna, quante inconfessate nostalgie arcaiche (e arcadiche), mentre una parte del Paese cercava, confusamente se si vuole, spesso in un clima di ferro, e crudelmente anche, di darsi una struttura moderna, di diventare - pur tra mille errori - una società industriale! Scrive Zorzi: "Di che si parla, infine, se si mettono da parte i comunque non numerosi casi di sperimentalismo linguistico - lo stesso romanzo di Arpino, "Una nuvola d'ira", appartiene, anche se non senza intelligenza, al genere - o di narrazioni dove si tentava in qualche modo di rivestire scheletriti manichini narrativi (penso ai molti derivati vittoriani, ossa anonime rimaste senza una lapide, come militi ignoti dimenticati) di un sociologismo ridotto in briciole, ma perentorio, prime, aride avvisaglie, forse inconsapevoli, di un prodotto che avrebbe dato a Trento i suoi frutti più significativi?".
Tutto o moltissimo si limita, se guardiamo bene, al secondo libro di Ottiero Ottieri (Donnarumma all'assalto) e a quello di Volponi (Memoriale), al di là del misconosciuto e anticipatore Tre operai, di Bernari: fenomeni, quelli, nati entrambi nell'area olivettiana, cioè nell'unico, oggi possiamo ben dire, o nel più caratterizzato spazio di riformismo industriale, per quanto allora (e in qualche caso anche in seguito) irriso e, soprattutto dai letterati, astiosamente interpretato, nei cui confini tuttavia nasce e muore in pratica tutto ciò che in Italia viene chiamato "letteratura", o "romanzo", "di fabbrica".
Diremo che si tratta di libri privi di significato? Certamente no. Profondamente diversi fra loro, ma con una nota comune, crediamo che nella letteratura di quel periodo - e dei tempi seguiti - abbiano contato qualcosa, e che ancora ai nostri giorni costituiscano una lettura per tanti versi obbligata.
Altri prodotti letterari del momento, dei quali si potrebbe parlare, e che sono spesso entrati nel discorso, si direbbero invece altra cosa. Si veda, per esempio, La costanza della ragione, di Vasco Pratolini: ha, è vero, una fabbrica -la Galilei - sullo sfondo, ma a non pochi è sembrato improprio chiamarlo romanzo di fabbrica. Il sentimento del patetico da cui è premuto Pratolini è altro dalla coscienza della cosiddetta "condizione operaia", e il torbido a cui egli ha cominciato a concedere, dallo Scialo (ma forse anche da prima) in avanti, ha anche qui una presenza ben più viva della "proletarietà", più puntigliosamente affermata che effettivamente mostrata dei suoi personaggi.
E lo stesso, in altra direzione, si può dire di Cassola, anche del Cassola degli anni migliori, diverso, ma da questo punto di vista ugualmente estraneo ad ogni comprensione della realtà industriale: l'identità dei suoi personaggi ed eroi è più popolana, ottocentesca, che proletaria; non c'è nella loro vita l'urto, non esiste lo scontro con la società dell'industria, che semmai è una presenza sentita per ciò che sottrae: per la fine da essa indotta delle loro possibilità di lavoro nei piccoli laboratori artigiani dell'alabastro, che sono il loro vero orizzonte. Né c'è da parlare di Pavese, qualche volta pure tirato nel discorso, ma tanto più scrittore intenso e non libresco, quanto più i suoi lancinanti vagabondi si sono gettati la vita alle spalle, sradicati, assenti: presenze attonite, grumi di fatalità; e linguaggio affabulante.
E in quanto a Una nuvola di smog, di Calvino, titolo sinistramente attuale, si tratta di un bellissimo racconto, secco e veloce, ma dove più vale ed ha senso il dramma individuale di un mutamento di identità, che una vera sociologia dell'urbanesimo industriale. Anche in questo caso, dunque, Calvino può considerarsi - come è stato definito - "il più grande dei minori".
Casi forse ancora più marginali ed anarchici rappresentano Bianciardi, che non riuscì mai a guarire la sua arruffata nostalgia maremmana, e Mastronardi, al quale pure è ignoto il mondo industriale moderno, per quanto interessante, e in qualche pagina irresistibile, sia l'impasto lessicale dei suoi estrosi padroncini vigevanesi.
Lasciamo da parte le minori frivolezze olivettiane de Il senatore e de L'amore mio italiano, di Giancarlo Buzzi, cantore di testa, ma espressamente intirizzito; il controverso exploit del Padrone, di Goffredo Parise, un grottesco non privo di momenti scroscianti, cui spettò comunque di aprire le ostilità sulla questione dell'industria culturale; l'illegibile Silvio Micheli di un romanzo di qualche anno prima, Tutta la verità; e un altrimenti raffinato, olivettiano anche lui, ma non utilizzabile, a nostro avviso, ai fini di questo discorso, il Libero Bigiaretti de Il congresso, dove si tenta l'applicazione alla sfera delle relazioni sentimentali della categoria economica delle "ragioni di mercato".
Con questo, si potrebbe praticamente chiudere l'elenco. Ricordando, tuttavia, che della dozzina di nomi fatti, quattro lavoravano nell'industria di Ivrea e trassero direttamente la loro materia da esperienze olivettiane, e almeno altri tre vi vennero a contatto tutt'altro che superficiale. Sarà esagerato dire che la cosiddetta "letteratura di fabbrica" fu soprattutto un epifenomeno dell'"olivettismo"? Né c'è da meravigliarsene, poiché esso fu la vera nota discordante, l'oggetto di scandalo, il caso di coscienza di un fenomeno che forse è ingeneroso archiviare solo come "gli anni del miracolo economico", o in maggior sintesi, "gli anni del boom".
Ma se questo è il quadro, alla base di tutto, di una mancata letteratura industriale nel nostro Paese, come dei due unici libri (Ottieri e Volponi) che per quel che possiamo vedere ne costituiscono una parziale eccezione, nel senso che, sia pure nel loro dibattersi e non trovare via d'uscita, affrontano tuttavia tematiche in qualche modo reali e rivelano una conoscenza diretta della materia (è Ottieri a dire che della fabbrica chi sa non parla, e chi parla non sa) non starà forse una visione letteraria dell'industria, il sogno deluso di una perfezione mancata, o un caso di transfert, l'illusione romantica, non certo intellettualmente virile, del lavoro come momento risolutore totale dei problemi dell'esistenza?
In tutto ciò che è accaduto nel periodo più duro del quindicennio successivo non saranno da scorgere le conseguenze di un ritardo eccessivamente protratto nei modi, nella stessa tematica della "protesta operaia" interpretata dagli intellettuali, per i costi che l'industrializzazione aveva effettivamente fatto pagare nei Paesi in cui essa era avvenuta lungo i decenni terribili dell'Ottocento, ma che in Italia erano già stati in buona parte ammortizzati dallo stesso sviluppo tecnologico che ha assorbito i ritardi dell'industrializzazione? Non si sono saltate, da noi, quasi interamente, le fasi drammatiche del "paleo", e del "vetero" capitalismo?
Se dagli anni Cinquanta si passa agli anni Settanta, a leggere criticamente certe pagine degli ideologi degli anni di piombo sembra in realtà si descrivessero fabbriche non contemporanee, ma di un secolo prima, residui certo esistenti, ma insignificanti; opifici astrusi che in grandissima parte esistevano in astratti furori da tavolino ("putant quod cupiunt", diceva Cicerone); e c'è inoltre, in essi, negli ideologi intendiamo dire, un bisogno di abbeverarsi di infelicità, una fame di dolore, di sofferenza umana, di volontà di denuncia, un rancore saturnino, un esplodere di rabbie ("Certo ci vorrebbe una gran rabbia, diceva Brecht: ma dove trovarla?," che sono il ritratto, in buona parte postumo, ritardato, non della loro esperienza, ma delle loro letture, specchio di una situazione pregressa che si è tentato di recuperare, perché di essa mancava il passaggio, l'anello necessario, nella nostra letteratura che l'aveva quasi del tutto messa da parte e ignorata.
In Italia, in buona misura, si è passati dalle campagne della pellagra e del lavoro a intera forza di braccia, dall'alba al tramonto, a fabbriche relativamente mature, dove la macchina fa già tutto, e la sofferenza maggiore è quella dell'adattamento umano, non solo delle mani, ma psicologico e morale, che è forse l'adattamento più lento, e che richiede comunque drammi, rinunce, e un duro esercizio: in questo scenario, fra l'altro, sono calati i "lazzaroni" di Saverio Strati, trasmigranti per le frontiere meridionali e italiane. Ma occorre dire che il cosiddetto "operaio sociale" ipotizzato da qualcuno (Toni Negri) negli anni Settanta, nonostante le arretratezze del sistema, per poter esistere presupponeva un tipo di fabbrica che non c'era più: errore grave e mortale per dei teorizzatori delle condizioni "oggettive".
In fondo, l'abbaglio più grande di quegli anni fu di vedere la fabbrica come qualcosa di inerte, di incombente, di statico, che non poteva essere modificato ma soltanto abbattuto, proprio quando era già in atto un processo di trasformazione che l'avrebbe portata in pochi anni a vuotarsi. Gli ateliers stavano già espellendo le tute blu, e nessuno aveva occhi per vedere; quelle tute sarebbero rimaste solo a Mezzogiorno, anche con trapianti forzati: ma avrebbero vissuto anche qui una breve stagione. Se oggi tutto è cambiato nell'interno dell'opificio, e una letteratura (un romanzo) di fabbrica è pressoché inconcepibile, ciò è perché la fabbrica automatizzata, robotizzata, di questi anni ha praticamente annullato la presenza umana, svolge da sola l'intero ciclo produttivo, dall'ingresso della materia prima al collaudo e all'imballo del prodotto finito; se proprio si vuole, controllata e comandata a distanza. E tutti gli studi ormai concordano nel prevedere che quella che fu la "classe operaia" propriamente detta costituirà, alla fine del millennio che non galleggia nelle nebbie dell'avvenire, ma a cui mancano solo dieci anni, il tre-quattro per cento della popolazione lavorativa. E' la stessa eclissi che ha coinvolto, anche in Italia, oltre che nell'Europa industrializzata, il lumpenproletariat. Questa è la vera questione. Ma all'orizzonte, come è giusto, non si vedono ancora scrittori capaci di affrontarla.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000