§ Scenari 2000

L'Italia anomalia europea




Aldo Bello



Fine anni '70: dopo un decennio di contestazioni sociali, di terrorismo, di crisi economico-finanziarie e di generale ingovernabilità, ciascuna delle democrazie occidentali sente il bisogno di rimettere ordine in casa propria. Cominciano appunto alla fine del decennio gli anni del "ritorno all'ordine", dove la parola "ordine" significa anzitutto leggi del mercato contro malformazioni dello Stato assistenziale e maggiore fermezza contro tutte le anomie sociali del periodo precedente. Ma la transizione dal Welfare State al neo-liberismo richiede anzitutto un più forte potere politico. Non è possibile "deregolamentare", smantellare carrozzoni economici, ridurre spese sociali e resistere alle controffensive sindacali se l'esecutivo è costantemente frenato dall'ostruzionismo del Parlamento o dall'intrinseca debolezza dei governi di coalizione. Appare in quegli anni un libro di Maurice Duverger, in cui l'autore sostiene che "le democrazie moderne hanno bisogno, per funzionare, di un monarca repubblicano". E tali sono quasi tutti gli uomini di Stato che dalla fine degli anni '70 alla fine degli anni '80 hanno presieduto alla trasformazione socio-economica delle maggiori democrazie occidentali. Il fatto che alcuni di essi - Schmidt a Bonn, Mitterrand a Parigi, Gonzales a Madrid - siano usciti dalle file dei partiti socialisti non può che confermare il carattere generale del fenomeno. Al di là della loro provenienza ideologica, ciascuno di essi - persino Mitterrand, dopo il disastroso esperimento socialcomunista della prima fase - ha perseguito gli stessi obiettivi, direttamente o indirettamente, come un monarca repubblicano.
Quasi tutti sono stati favoriti dalla Costituzione e dalla prassi politica dei loro Stati. Ma hanno goduto al tempo stesso di una più ampia delega d'autorità. E' il caso della Gran Bretagna, dove la lady di ferro, Margaret Thatcher, ha beneficiato negli anni del suo "regno" di una versione democratica del Führerprinzip con cui i teorici del nazional-socialismo avevano legittimato la dittatura di Hitler. Solo così può comprendersi come una classe politica di tanta maturità e intelligenza -la stessa che nel ventennio precedente aveva espresso Macmillan, Home, Heath - abbia accettato di lasciarsi tiranneggiare e svillaneggiare per tanti anni dalla signora Thatcher.
E' probabile che il pendolo dell'esecutivo forte e del neo-liberismo conservatore sia arrivato al limite della corsa e si appresti a oscillare in direzione opposta. La fine del reaganismo, vari segnali provenienti da ambienti al di qua e al di là dell'Atlantico, una maggiore sensibilità per le piaghe sociali della società post-industriale, sembrano dimostrare che l'opinione pubblica occidentale è pronta a voltar pagina e che i partiti non intendono più concedere quel supplemento di delega con cui i "monarchi repubblicani" hanno governato negli ultimi dieci anni. Il bastione del "ritorno all'ordine" entra nella memoria storica. Vi è la generale sensazione che l'essenziale è fatto e che per ora non è il caso di andare oltre. Ma la situazione italiana, come sempre, è anomala. Anche noi, all'inizio degli anni '80, abbiamo intuito la necessità di rafforzare l'esecutivo, di contenere l'espansione dello Stato assistenziale, di restituire l'economia alle leggi del mercato. Ma nel decennio che si è concluso la vita politica italiana ha partorito soltanto la marcia dei 40 mila, il referendum sulla scala mobile, la commissione Bozzi, la riforma della presidenza del Consiglio, la legge sul voto palese, la privatizzazione di qualche impresa pubblica e interminabili discussioni su temi ormai accademici come la riforma della legge elettorale, la trasformazione delle Poste in servizio autonomo e delle Ferrovie dello Stato in società per azioni. Nulla è più sintomatico di ciò che sta accadendo da qualche mese a questa parte in Italia. I maggiori problemi vengono affrontati con quegli stessi logoranti negoziati interpartitici che ormai da anni sono l'unica "via italiana" all'esercizio del potere. Mentre il pendolo dell'Occidente accenna a tornare indietro perché gli obiettivi di dieci anni fa possono considerarsi raggiunti, il nostro è ancora fermo, bloccato a metà strada.
La svolta è in atto. Gli anni del "enrichissez-vous" reaganiano sono alle spalle di chi ha approfittato e di chi ne è rimasto escluso. Fra i Paesi sviluppati, il nostro sembra quello destinato a subire i contraccolpi più pesanti, si tratti di recessione o di rallentamento della crescita. L'inflazione ha ripreso a crescere; il sistema delle imprese (compresi i cosiddetti "gioielli del Nord", dalla Fiat alla Olivetti, dalla Marzotto al gruppo Gft, dalla Zanussi alle acciaierie bresciane) è alle prese con dilaganti richieste di licenziamenti di manodopera e con l'eterno ricorso alla protezione statale per mezzo di pesanti aiuti pubblici; quel termometro sensibilissimo che è la Borsa ha già fatto giustizia sommaria delle previsioni di una nuova età dell'oro incautamente dispensate da tetragoni ottimisti. Era prevedibile tutto questo? Lo era. Intanto, perché anche il più intonso responsabile del mondo politico o della politica economica avrebbe dovuto intuire che, dopo anni di espansione a tassi robusti, qualche cosa avrebbe inceppato prima o poi il meccanismo dello sviluppo; e poi perché era sufficiente una modesta intelligenza per prevedere che l'Italia avrebbe pagato il conto più salato ai primi segni di rallentamento.
Ma quante volte - e quanto invano - durante gli anni ruggenti del decennio trascorso si èinvitato, e implorato, lo Stato a metter le mani su un serio risanamento della finanza pubblica? Ilari e soddisfatti per i risultati dell'attimo fuggente, governi, ministri, economisti, sindacati, imprenditori hanno demonizzato, con fastidio o con sprezzo, quanti ritenevano soltanto degli untori che disturbavano la pubblica quiete. Ora, dall'alto della sua autrità, il Fondo monetario internazionale redarguisce il nostro Paese: "Guardando indietro, è un peccato che l'Italia non abbia tratto sufficiente vantaggio dalle condizioni economicamente favorevoli fornite dalla lunga espansione degli anni '80 e dal declino dei costi dell'energia [ ... ]. D'ora in poi il problema sarà più difficile [...]. L'anno prossimo sarà cruciale [ ... ]". Dov'erano i sussiegosi controllori del Fondo monetario durante gli anni '80? E chi ha dato ragione, pubblicamente, a Paul Volcker, quando disse che i nostri governanti sono "un pessimo esempio per il mondo"?
La nostra società, un tempo effervescente, rampante, dinamica, sta cambiando pelle. E atteggiamento. Siamo alla vigilia di un nuovo ciclo (il 2000 è nel nostro subconscio?) e la società esprime oggi incertezza, preoccupazione, indecisione. L'Italia sembra aver perso quella "capacità di adattamento" che l'ha caratterizzata negli ultimi vent'anni e si accontenta ora - come afferma il Censis - di avere e di sfruttare una sorta di intelligenza cristallizzata delle cose. Il Paese ha perso, per ragioni proprie e per il contesto internazionale di cui è parte, velocità e incisività. Mancando di strategia, sta a guardare. E ha due stati d'animo diffusi. Il primo, è "la cultura del no": in un'Italia in cui dominano sempre più le corporazioni, ogni gruppo si oppone all'altro, ritenendolo concorrente e rivale; la scelta di una categoria è contrastata da quella di un'altra: manca la sintesi per andare avanti, e l'inazione governativa moltiplica solo ed esclusivamente i divieti: "no" anche a leggi e proposte valide, "no" alla soluzione di problemi urgenti (dagli ospedali alla previdenza), "no" all'ambiente, "no" alla glasnost, "no" a un'efficace lotta al crimine. Il secondo è l'indifferenza, che tracima molto spesso nella diffidenza, e dunque si ricollega al primo, in un circolo vizioso dal quale non sembra agevole venir fuori.
C'è un impoverimento dei soggetti. Negli anni '70, quelli del "cespuglio", i soggetti della società si moltiplicarono: piccoli e medi imprenditori, famiglie SpA, cooperative. Negli anni '80 emersero i processi: il sistema a rete, le concentrazioni, le holdings finanziarie. Ora, i soggetti, che pure dovrebbero tornare alla ribalta in un mondo che ha affermato certi valori, restano bloccati dagli imbuti che caratterizzano il sistema italiano: vincoli sociali, politici, comportamentali. Ciascuno si chiude in se stesso: l'azienda protegge il "care business" (dalla Fiat alla Pirelli, alla Ferruzzi); la famiglia pensa alla rendita. Nessuno scommette più sul domani in crescita.
E' su questo parterre che si innalzano gli scenari politici italiani, all'interno dei quali l'azione dirompente del leghismo ha forse definitivamente fatto tramontare le coordinate della questione meridionale e - per contrappasso - lievitare lo spirito di disgregazione delle due o tre o più Italie. Ciò significa, intanto, che si è eclissata la proposizione etico-politica di Rosario Romeo, secondo cui la questione meridionale era "uno dei grandi problemi attorno al quale gli italiani si riconoscono". A far colare a picco questa proposizione hanno concorso i fallimenti della politica meridionalistica, le strategie della grande stampa del Nord, il qualunquismo elettorale delle regioni ricche, le Vandee meridionali, i partiti di massa, la fine dei conflitti sociali.
I tre partiti che rappresentano ancora i tre quarti dei voti validi hanno la percezione del fenomeno, ma faticano a trarre le conclusioni delle interconnessioni con le quali esso si presenta. Il leghismo nordista, infatti, identifica in misura crescente la politica con la meridionalizzazione, e questa con il cartello del crimine. Non è un fenomeno nuovo. Lo sviluppo industriale del Nord, anche a spese di quello mancato del Sud, ha contribuito alla formazione di due classi dirigenti parallele, quasi mai integrate: gli imprenditori settentrionali nelle aziende, gli avvocati meridionali in Parlamento. Le maggioranze parlamentari anche di leader dichiaratamente nordisti, quali Depretis e Giolitti, si reggevano grazie agli "ascari" del Sud, spesso eletti con metodi che Salvemini definì "di malavita", riferendosi all'azione politica di Giolitti. L'Italia entrò nella prima guerra mondiale col governo del pugliese Salandra e ne uscì con quello del siciliano Orlando, scegliendo l'interventismo per le formidabili pressioni dell'industria del Nord che non sapeva vivere al di fuori dell'ombrello statale. Lo stesso fascismo fu espressione di formazione di una classe politica di ceti emergenti del Nord, come in parte intuì Piero Gobetti nel suo celebre e sarcastico Elogio di Farinacci e come Renzo De Felice ha confermato nelle sue riflessioni su Mussolini. Le squadre a cavallo di Caradonna in Puglia e il populismo di Padovani a Napoli, come ha scritto Giorgio Galli, erano marginali in un movimento che portò al potere uomini formatisi nelle lotte sociali del Nord, dallo stesso Mussolini a Grandi, a Balbo, a Bianchi.
E il qualunquismo disgregatore dell'unità nazionale parte dal Nord anche oggi. Cattolici e socialisti hanno ormai al Sud i maggiori serbatoi di voti. Il Pci (o Pds) non è più partito di massa nel Mezzogiorno, ma sempre più partito delle "regioni rosse". Una sorta di nuova Linea Gotica trancia la penisola e allarga il processo di divaricazione. Un processo, si badi bene, iniziato immediatamente con l'Unità. Dice Domenico De Masi, docente di Sociologia del lavoro all'Università di Roma: "Il Sud del 1992 sarà in condizioni peggiori del Sud del 1860". E precisa: quando arrivarono i piemontesi, il 56 per cento degli operai dell'industria era al Sud, la più grande acciaieria italiana era al Sud, gli unici cantieri navali erano a Castellammare di Stabia, i quattro quinti della flotta commerciale erano al Sud; in Sicilia c'erano le miniere, la pesca, le industrie vinicole dei Florio; non lontano da Napoli erano sorte cinque filande assolutamente "inglesi". Non per niente Marx mandò Bakunin al Sud, e non al Centro o al Nord. Questo Sud sparì nell'Italia, cominciò ad essere "Affrica", fu colonizzato nonostante la resistenza del brigantaggio, fu un immenso mercato da sfruttare: dal Nord giunse tutto, compresele balie e le cassette postali. Il Sud fu dapprima trasformato in un bianco sertao, in un deserto; poi divenne terreno di studi e di inchieste, infine terra di leggi speciali. Giolitti, nel 1904, varò quella per Napoli, che diede origine ai due grossi blocchi di Portici e di Pozzuoli: tutto quello che fu fatto esiste ancora oggi: ed è la storia della distruzione per sempre di una delle più incantevoli baie del mondo.
Nel secondo dopoguerra venne la riforma agraria, che spezzo il latifondo in maniera insensata dal punto di vista economico. Tant'è che si dovette correre ai ripari con quel gigantesco carro attrezzi che fu la Cassa per il Mezzogiorno. Che nacque con l'idea di incentivare le piccole imprese, di formare manager, di diffondere la cultura nelle grandi aree depresse. Ma la grande industria settentrionale iniziò una guerra senza quartiere per ottenere finanziamenti e incentivi. Piccoli e grandi trucchi; stravolgimenti della legge. Grosse aziende vennero surrettiziamente frantumate: ogni capannone, una società diversa. La Sir di Porto Torres nacque in questo modo. E subito dopo l'industria pubblica percorse lo stesso cammino. Sorsero le "cattedrali": raddoppiò Bagnoli, nacquero Taranto, Priolo, l'Anic di Gela, aziende che a Nord nessuno voleva erano buone al Sud o nel Terzo Mondo, e col principio secondo il quale alla manutenzione era preferibile l'inaugurazione. Così, nel Mezzogiorno, dove c'erano molte braccia disoccupate e pochi capitali, si misero in piedi attività che richiedevano molti capitali e poche braccia. Perché? Perché gli uomini che imposero e influenzarono queste scelte erano organici ai potentati pubblici e privati: esperti che non avevano capito (o non vollero capire) che la società postindustriale era dietro l'angolo commisero errori epocali. Dice De Masi: "Politici e programmatori miopi, intellettuali da strapazzo che all'università fingevano di essere grandi manager e nelle aziende si spacciavano per grandi accademici ci hanno illuso con poli petrolchimici e con acciaierie, quando la società industriale stava morendo". Risultato? Abbiamo inquinato e distrutto un'area che per sua stessa natura avrebbe potuto essere il paradiso del postindustriale; nella quale c'erano, potenziali, le radici dell'estro, della creatività; con la vocazione geografica dei luoghi, confine naturale fra il Sud e il Nord e fra l'Est e l'Ovest del mondo. E invece sono stati fatti crescere i frutti dei clientelismi, dell'illegalità, della rapina economica condotta a man bassa dai baroni dell'industria protetta dalla Stato e da quella esercitata dalle lobbies politico-amministrative meridionali.
Quelli che siamo soliti definire intrecci e collusioni tra mafia e politica, tra economia legale e illegale, nella realtà concreta si risolvono in una nuova formazione sociale e istituzionale, non compatta, ma abbastanza omogenea e attestata su buoni equilibri. L'economia illegale è sempre meno distinguibile da quella legale. E questo non solo perché i gruppi criminali taglieggiano, trafficano e investono, ma anche perché l'intera logica degli investimenti, degli appalti, dei commerci, è posseduta da regole che non sono più né quelle formali dello Stato né quelle tutte violente delle mafie, bensì un impasto al quale tutti o troppi, e soprattutto una quota di borghesia delle professioni e degli affari, si conformano. Si può obiettare che questo accade anche altrove: ed è vero. Ma i danni prodotti in una società debole, con economia debole, sono di gran lunga più devastanti. Soprattutto se sono prodotti in nome di leggi dello Stato, che ci sono e che consentono di esercitare impunemente il mestiere dei trickmasters, dei maestri dell'imbroglio. Un mestiere che rende molto. E non a caso coinvolge politici, amministratori pubblici, imprenditori, mediatori e affaristi.
Negli anni scorsi, analizzando le vicende dei trasferimenti di capitali, beni e servizi al Sud, impeccabili studiosi confermarono che il maggiore effetto era stato la sostituzione di una classe ad un altra: ai vecchi latifondisti si erano sostituiti i gestori delle risorse pubbliche. Era nato il nuovo latifondo, vale a dire lo stesso incontrastato possesso di enormi ricchezze, lo stesso parassitismo che spiega il mancato sviluppo, la stessa avidità, lo stesso cinismo, lo stesso vivere lontano dei baroni (a Roma o a Milano, sparita Napoli come capitale del Sud). E' stato un processo senza soste, che ha solo visto mutare gli attori sullo sfondo dell'identico scenario: alle vecchie grandi famiglie si è sostituita la classe emergente degli arrivisti, dei mediatori, dei galoppini, dei portaborse, degli arrampicatori, dei prestanome persino: tutte fameliche tenie annidate nelle latebre del settore pubblico, delle amministrazioni centrali, regionali, provinciali, comunali. Su questo sfondo canceroso ha preso corpo una società tenuta insieme non dalla legalità formale o dalla solidarietà civile, ma da una specie di contratto sociale del malaffare legalizzato, consumato a norma di legge e di voto, che nella prassi quotidiana si traduce in una violenza sottile tossica, e nel monopolio della tracotanza esercitata ai danni della collettività. Si può forse recuperare il nostro Stato a un'autentica democrazia solo costringendo tutti gli amministratori a presentare annualmente il proprio stato patrimoniale, impegnando la Guardia di Finanza a verifiche incrociate, attivando i magistrati onesti e non organici ai partiti.
Questo stato di cose ha istituzionalizzato le vecchie due Italie, Dopo il fallimento dei faraonici programmi di industrializzazione, inoltre, la spesa pubblica ha smesso di perseguire obiettivi di sviluppo produttivo ed è stata piegata dal sistema politico locale a fini elettorali e alla conquista del consenso. Ciò ha determinato l'avvento di un mostruoso modello politico-economico definito dai più buoni, o dai meno cattivi, "di dipendenza assistita". L'economia meridionale ha infatti i conti sempre in rosso: poiché consuma più di quanto produce, importa più di quanto esporta, può finanziare il suo disavanzo solo con i trasferimenti della finanza pubblica. Il che spiega anche le differenze nelle classifiche della contabilità nazionale, a seconda che siano stilate tenendo conto del reddito o dei consumi; e chiarisce anche perché il vero nodo dei problemi politici sia quello della spesa pubblica.
La questione meridionale, oggi, non è più quella di una volta.
Non è incentrata sulla miseria economica. Grazie alla dipendenza assistita, il Sud è passato da una minore povertà ad una maggiore disgregazione, ed è in grado di contrattare - e condizionare - attraverso il suo personale politico locale e "romano" i processi di integrazione nel mercato nazionale, col modello di scambio tra flussi di spesa pubblica e consenso elettorale. Intorno a questo terrificante modello è fiorito l'intreccio tra potere politico e controllo mafioso. E adesso stiamo vivendo un momento di snodo: o l'altra Italia accentua le tendenze secessioniste, o quanto meno di larga autonomia che le scrolli di dosso questo Sud; oppure il Sud conquista quell'Italia con ciò che di più vitale ha saputo creare (o non ha potuto che creare) in questi anni di democrazia limitata, i tentacoli delle sue piovre, che godono ogni possibile franchigia. A rendersi conto del problema, e a cercarne la soluzione, dovrebbe essere innanzitutto lo Stato. Ma in Italia, asserisce Saverio Vertone, lo Stato non c'è: "Da noi lo Stato è la burocrazia, è la routine indifferente e corriva dell'amministrazione, è la greppia delle partecipazioni. Non è una cultura; non è una coscienza diffusa e soprattutto sensibile alla realtà e ai simboli della sopravvivenza di una compagine istituzionale". La classe politica che nel dopoguerra ha ereditato la gestione della cosa pubblica ha assecondato la nostra uscita dalla miseria; ma ha simultaneamente demolito ogni trascendenza delle istituzioni, e dunque anche i resti del sentimento nazionale, già messo a dura prova da due guerre mondiali. Così, mentre la Germania si unifica, l'Italia va in frantumi, convinta di poter incontrare nell'Europa del 2000 solo regioni e non Stati: quasi che la Lombardia potrà sbrigare i suoi affari col Württemberg, il Veneto con la Baviera, il Piemonte col Delfinato e la Sicilia, chissà, col Sussex.
E' estremamente difficile che un'Italia a pezzi trovi al di là delle Alpi un'Europa a pezzi. E' invece certo che i grandi Stati nazionali continueranno ad orientare e a condizionare, anche in un'Europa unita, e chissà per quanto tempo, sviluppo economico, assestamenti sociali, peregrinazioni culturali. In una parola: la vita dei popoli europei. Ed è altrettanto certo che un'Italia a pezzi somiglierà più alla Jugoslavia che all'Europa. Balcanizzata. E poiché la ricchezza delle nazioni sta diventando nomade, come i cavalieri di Gensis Khan, chi può ragionevolmente pensare che si insedierà in una periferia europea che è ridotta a mucillagine della storia europea?

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