§ Piccole e medie imprese

Con questo Sud '93 a rischio




Antonio Urciuoli
Consigliere Confindustria incaricato per i problemi del Mezzogiorno



Il riconoscimento, da parte del Consiglio delle Comunità europee, del ruolo delle piccole e medie aziende come elemento essenziale per il rafforzamento dell'economia della Cee e ai fini di un concreto sviluppo industriale delle zone depresse e della creazione di posti di lavoro induce ad alcune considerazioni su quanto sta avvenendo per il Mezzogiorno.
La prima considerazione sorge dalla constatazione del perdurare della fase di stallo che, ormai da almeno otto anni, subisce l'Intervento straordinario; una seconda, dal senso di impotenza a spezzare l'assedio, anche psicologico, che rischia di immobilizzare le imprese del Meridione, impedendone la crescita; una terza, dalla impossibilità di allargare la base produttiva mediante nuovi insediamenti; una quarta, dalla domanda di come il Mezzogiorno potrà entrare a pieno titolo nell'Europa del '93; una quinta, dalla domanda di come tutta l'economia italiana potrà competere con il resto d'Europa se dovrà trascinarsi il peso di un Mezzogiorno che consuma più di quanto produce. E potremmo continuare all'infinito.
Lo stallo dell'Intervento straordinario ebbe inizio nella metà degli anni '70 e ha consentito il permanere di un insufficiente capitale produttivo a fronte delle forze di lavoro esistenti nelle aree meridionali. Ciò ha determinato quel tasso di disoccupazione che oggi sfiora il 20% della forza di lavoro, rappresentando il 50% di tutta la disoccupazione nazionale, Sarebbe stato necessario, difatti, dotare il territorio di strutture fisiche, di Istituti di ricerca, di scuole di formazione, volti a realizzare quella parità di opportunità fra Centro-Nord e Sud, che rendesse indifferente la localizzazione di unità produttive nell'una o nell'altra delle aree del Paese. Ma non si è fatto nulla, o quasi. Occorreva anche rimuovere gli ostacoli rappresentati dalla incapacità delle istituzioni pubbliche ad affrontare la straordinarietà dell'Intervento. Ma non si è fatto nulla. Sarebbe stato indispensabile, poi, guardare alle nuove frontiere, che propongono la completa attuazione dell'unificazione europea, impegnarsi ed affrettarsi a rendere agevole e generalizzata l'auspicata crescita delle piccole e medie imprese che costituiscono l'unico vero tessuto produttivo del Sud. Occorreva intervenire su tutti gli aspetti gestionali della formazione, del credito, della finanza, fiscali, contributivi, sindacali, della prestazione di servizi alle imprese. E non si è fatto che poco o nulla. Si è giunti, semmai, a sottrarre all'Intervento straordinario migliaia di miliardi, giustificando questo scippo con l'incapacità dei meridionali a spenderli. Si sarebbe dovuto, invece, magari con leggi speciali, costringere le amministrazioni pubbliche all'obbligo di investire, per realizzare con ogni fretta sufficienti presupposti allo sviluppo.
Si dice che il sistema industriale italiano è preparato alla sfida degli anni successivi al '93. Ma nessuno ha indicato come si potrà affrontare questa sfida tirandosi dietro il Sud, un terzo cioè del territorio nazionale, con oltre un terzo della popolazione italiana, economicamente e socialmente disarticolato, tutt'ora Sottosviluppato e con un pauroso e costante tasso di disoccupazione. E questo nonostante, come ha sostenuto tempo fa Gianni De Michelis, siano stati spesi - tra il '72 e l'87 - ben 102 mila miliardi: cioè, preciso io, 6.800 miliardi in media all'anno. Ma De Michelis non ha detto, forse per non ridurre l'effetto della sua precisazione anti-meridionalistica, quanti di questi miliardi abbia bruciato l'industria di Stato e di quanto all'anno, per tale via, si sia ridotta nello stesso arco di tempo la spesa ordinaria.
Il nostro Paese non può quindi esimersi - come invece sta avvenendo - dal realizzare quelle condizioni ottimali, volte alla loro complessiva modernizzazione del sistema economico. Né può sottrarsi all'imperativo di creare oggi, e non nel '92, l'ambiente necessario per favorire il processo spontaneo di creazione di nuove imprese. C'è da augurarsi, nelle condizioni attuali, che i pubblici amministratori e gli imprenditori tutti compiano un atto di fede nella politica di sostegno allo sviluppo voluta dalla Comunità europea e che sappiano guardare con lungimiranza alle possibilità loro offerte, come fino ad oggi non hanno fatto.

Economie assistite

Ma il Nord si fa più ricco

L'andamento sempre più in rosso dei conti pubblici nel nostro Paese e l'incapacità fino ad ora dimostrata dai governi di porre sotto controllo l'andamento dei disavanzo inducono tutti ad interrogarsi sui mali della nostra finanza pubblica e a ricercarne le cause. Una di queste viene individuata nella politica che lo Stato persegue per il Mezzogiorno, con un consistente drenaggio di risorse finanziarie a favore dei territori meridionali attraverso l'intervento straordinario. Va ricordato, ammesso che ce ne fosse ancora bisogno, che questa politica pubblica straordinaria e aggiuntiva avrebbe dovuto perseguire l'obiettivo di colmare, o per lo meno di attenuare, il divario di sviluppo tra il Sud e il resto dei Paese, misurato attraverso un indicatore tuttora ritenuto valido, e che è il reddito per abitante. Ma è fin troppo noto che questo divario non solo non è diminuito, ma da alcuni anni ha ripreso ad aumentare, con buona pace per la politica pubblica a favore dei Mezzogiorno.
Di fronte a questi non positivi risultati sono in molti che cominciano a chiedersi se, al di là delle disposizioni legislative e programmatiche, ci sia stata effettivamente una quota relativamente più elevata di spesa pubblica per il Sud ed eventualmente dove questa spesa sia andata a finire.
Un fatto certo è che questa spesa pubblica non è andata a vantaggio delle popolazioni meridionali, almeno in termini di quantità e qualità dei servizi pubblici erogati. Poiché mancano dati sulle erogazioni effettive dei settore pubblico per regioni e poiché la legislazione di spesa ha sempre mirato a favorire il Mezzogiorno, almeno nelle intenzioni, è opinione diffusa che al Sud ci sia stato uno spreco enorme di risorse pubbliche, che la spesa nel Mezzogiorno sia stata solo di tipo assistenziale, che essa abbia alimentato fenomeni malavitosi, e così via. Indipendentemente da questa e altre affrettate conclusioni, poiché lo Stato si "dibatte" tuttora nel ricercare le vere cause della voragine dei conti pubblici, è opportuno fare chiarezza e cercare di capire come effettivamente il settore pubblico ha operato per le regioni meridionali. Va premesso che si tratta di un compito non facile. I conti pubblici nel nostro Paese sono un labirinto e il filo di Arianna per poterne uscire non è stato ancora trovato.
Una serie di ricerche condotte in questi anni da Formez, in collaborazione con l'Istat e col ministero dei Tesoro, finalizzate a promuovere una conoscenza sistematica dei conti pubblici su base regionale e un miglioramento dei flussi informativi di finanza pubblica relativi al Meridione, consente di fare sufficiente luce su questi aspetti e per certi versi di fare giustizia di troppi luoghi comuni spesso adoperati in maniera inadeguata. Esse infatti, oltre a mettere a punto una base conoscitiva inedita sulla quantità e qualità della spesa erogata dallo Stato nelle venti regioni italiane, forniscono dettagliate indicazioni sugli effetti economici e sociali prodotti dalla spesa pubblica in ogni regione. Risulta uno scenario dei ruolo svolto dalla politica di bilancio dello Stato per il Sud diverso da quello che per anni si è stati portati a credere. Queste informazioni possono servire di base per un ripensamento dell'intervento pubblico realmente finalizzato al recupero dei divario economico dei Sud.
Prima questione. Come spende lo Stato nelle varie regioni italiane e se spende mediamente di più in quelle meridionali.
Si può affermare con tranquillità che si è ribaltata una situazione che vedeva nettamente sfavorite le regioni meridionali nei decenni immediatamente successivi all'Unità. Fatta pari a 100 la spesa pro capite media nazionale, dalla fine dei secolo scorso al 1986 il Nord è passato da 131,5 a 72,4, mentre il Sud è passato da 95,4 a 96,9. Tuttavia, il beneficiario più forte delle trasformazioni avvenute è stato il Centro, sostanzialmente Roma. Ma questo spostamento di risorse a favore dei Sud non è stato così rilevante come si era portati a credere. Non si notano, infatti, differenze regionali significative nella spesa per abitante. Le uniche differenze si riscontrano per le regioni di piccole dimensioni, dove giocano in maniera anche pesante fattori di indivisibilità degli interventi che spostano verso l'alto i livelli di spesa (Umbria, Marche, Basilicata e Molise) e per le regioni a statuto speciale.
Per queste ultime, siano localizzate al Sud o al Nord, i livelli di spesa pro capite sono notevolmente più elevati di quelli delle altre regioni. Nel dipanare la matassa dei dati a disposizione, si è a lungo cercata l'esistenza di una politica discriminatoria attuata dallo Stato nella gestione della spesa. Non è invece risultata una netta discriminazione tra Nord e Sud. L'unica discriminazione netta e decisa è tra regioni ordinarie e speciali, quindi di natura essenzialmente istituzionale. Lo Stato tratta, quindi, Nord e Sud alla stessa stregua, avendo la sola dimensione demografica come elemento di differenziazione fra le regioni.
Seconda questione. Come contribuiscono le singole regioni italiane al finanziamento della spesa pubblica.
In altri termini, qual è l'ammontare di imposte che lo Stato incassa in ciascuna regione. La distribuzione dei carico fiscale per regioni non si presta ad equivoci di interpretazione: il peso delle entrate tributarie e contributive è proporzionale al reddito, né ci si poteva aspettare diversamente, considerato che il nostro sistema tributario è progressivo e fondamentalmente agganciato al reddito. Le regioni più ricche pagano quindi un importo per abitante di imposte più elevato delle regioni povere. Le entrate tributarie e contributive pro capite delle regioni meridionali sono pertanto più basse di quelle delle altre regioni italiane. Ma sono proporzionali anche le evasioni e le elusioni fiscali.
Terza questione. Quali sono le regioni che beneficiano della politica di bilancio dello Stato attraverso le operazioni di prelievo e di spesa pubblica.
La differenza tra entrate prelevate e spese erogate fornisce una misura di questo beneficio netto regionale. I valori di questo indice per regione testimoniano che nel complesso il bilancio pubblico opera in Italia un processo di redistribuzione a livello territoriale abbastanza elevato, ma non molto incisivo. E' elevato perché la distribuzione netta dei trasferimento di ricchezza tra le regioni che danno e quelle che ricevono è rilevante. Diventa non molto incisivo quando si esaminano invece le direzioni dei trasferimenti. Infatti, sono solo quattro regioni a finanziare la redistribuzione: la Lombardia, con un residuo positivo di oltre due milioni di lire per abitante; il Veneto, con 665 mila lire; l'Emilia-Romagna, con 569 mila lire; e il Piemonte, con 375 mila lire. Di questo trasferimento di ricchezza beneficiano però tutte le altre regioni, comprese quelle meridionali con un più basso livello di reddito, ma comprese anche regioni come la Valle d'Aosta, il Trentino e il Friuli-Venezia Giulia, che si collocano ai vertici della graduatoria dei reddito pro capite.
Quarta questione. Quali sono i benefici economici prodotti dalla spesa pubblica su base regionale.
Questi benefici, calcolati in termini di valore aggiunto e di occupazione, sono quelli che riservano le più grosse sorprese. Tutte le regioni meridionali presentano una struttura economica con un elevato grado di dipendenza dall'esterno; il livello delle importazioni assume addirittura valori fortemente preoccupanti per la Calabria e per la Basilicata. La fragilità dell'apparato produttivo locale delle regioni meridionali finisce in parte per neutralizzare gli effetti, moltiplicativi prodotti dalla spesa pubblica erogata a livello, appunto, locale. Questa fragilità è fra l'altro confermata dalla maggiore dipendenza dei sistemi economici regionali meridionali dal settore pubblico, tanto che il valore aggiunto della Pubblica amministrazione supera anche le soglie del 50 per cento contro il 30 per cento del Centro-Nord t il 37 per cento della media nazionale. Il risultato di tutto ciò è che le regioni più sviluppate dei Nord traggono maggiori vantaggi dall'attivazione della spesa pubblica, in quanto finiscono per importare parte degli effetti da essa prodotti nelle regioni meridionali.


Tanto per citare alcuni esempi, in Basilicata e in Calabria il valore aggiunto attivato dalla spesa pubblica in esse erogata è solo il 68 per cento di quello che la medesima spesa attiva nell'intero Paese; quindi, il 32 per cento va a beneficio delle altre regioni e presumibilmente di quelle più sviluppate dei Nord. Dati più allarmanti si registrano per quanto riguarda l'occupazione.
Un miliardo di lire di spesa pubblica genera un numero di occupati ad esempio pari a 33 unità in Calabria e a 29 in Basilicata, ma solo 20 e 17 sono le unità occupazionali attivate all'interno delle regioni stesse. Lo scarto tra occupazione interna e totale è pertanto di 13 unità, contro valori che nelle regioni del Nord non superano mai le 7 unità.
E' opinione di autorevoli economisti che l'economia meridionale sarà ancora, nel decennio che si è aperto, un'economia assistita dal settore pubblico e coloro che vorranno eliminare o diminuire il flusso delle risorse pubbliche che sostengono i consumi dei meridionali difficilmente riusciranno nel loro intento.
Il ruolo del settore pubblico per lo sviluppo del Mezzogiorno sardi pertanto ancora determinante e insostituibile. Ma le conclusioni che si traggono dai dati forniti dovrebbero servire a far sì che l'autorità pubblica si attrezzi per predisporre gli strumenti che sono necessari per meglio orientare i propri interventi sul territorio e favorire una più stretta relazione tra spesa pubblica e sviluppo economico locale.


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