§ Il punto

I nemici dei CcT




Giovanni Magnifico



La spesa per interessi rappresenta circa tre quarti del fabbisogno finanziario complessivo del Tesoro. Il deficit di bilancio è largamente un problema di gestione del debito. Al di fuori di soluzioni traumatiche più o meno improponibili, essa richiede una strategia di mercato realistica. Incertezza e disorientamento si traducono infatti in tassi rapidamente crescenti, ma poveri di risultati, come sta accadendo ora. Il disorientamento degli investitori si può far risalire alla crisi della seconda metà dell'87, che sfociò nella rottura del meccanismo di indicizzazione dei CcT. Questi avevano consentito di arrestare e poi rovesciare la tendenza alla liquefazione del debito pubblico, in atto all'inizio di questo decennio.
Ma il fatto che il loro rendimento sia agganciato ai tassi d'interesse a breve ha generato una corrente di pensiero e una successione di misure, il cui risultato è stato quello di una parziale perdita della natura di titolo a tasso variabile. Un'autorevole rivista bancaria nel 1984 pubblicò un'analisi che, enfatizzando a scopo di controllo monetario l'intero spettro eli attività liquide dell'economia, giungeva alla conclusione che i CcT, nonostante la scadenza medio-lunga, non fossero significativamente diversi dai titoli a breve, data la stabilità delle quotazioni derivante dal meccanismo di indicizzazione.
Peraltro, considerato che un titolo di Stato in scadenza può essere trasformato in base monetaria su iniziativa del detentore, vi è una differenza tutt'altro che trascurabile fra BoT e CcT. Un CcT, per esempio a sette anni, per quanto facilmente negoziabile in condizioni di mercato "normali", può dar luogo a creazione di base monetaria solo a sette anni dall'emissione. La sottovalutazione del beneficio macroeconomico dato dalla circostanza che i CcT possono dar luogo a creazione di base monetaria solo a distanza di anni dall'emissione ha condotto alla conclusione che lo Stato sopportasse l'onere dello spread senza contropartita, insomma che esso emettesse "banconote con cedole".
L'esperienza dell'estate dell'87 e quella degli ultimi tempi mostrano che nemmeno sotto il profilo micro-economico, del singolo investitore, il CcT si può considerare un titolo liquido e che, quindi, come ho sostenuto fin dall'81, allo scopo di promuovere il decollo del CcT a più lungo termine, "maggiorazioni più ampie premierebbero i risparmiatori disposti a rinunciare alla liquidità per periodi più lunghi".
Ciò che ha menomato il CcT è stata la tendenza a modificare gli spreads e lo sconto di prezzo all'emissione, cioè le componenti non indicizzate del rendimento. Tali componenti tendono a far comportare il CcT come un titolo a tasso fisso; perciò, per le emissioni dove esse toccano valori più bassi di quelli di equilibrio nel periodo medio-lungo, è elevato il rischio di trovarsi spiazzati, cioè di dover registrare perdite come su titoli a reddito fisso. Inoltre, l'annualizzazione della cedola, a partire dal 1985, ha avuto l'effetto di ridurre il grado di indicizzazione della stessa componente variabile del tasso di rendimento. A tale riguardo, conforta la circostanza che il Comitato Spaventa abbia raccomandato "serie uniformi", spread "costante per ciascuna scadenza su tutte le emissioni", cedola "comunque (sic!) semestrale".
Queste raccomandazioni vanno nel senso di riaccrescere il grado di indicizzazione del CcT, di ridurre la frammentazione del mercato e, quindi, di contenere il rischio di minusvalenze. Il contenimento di questo rischio è di particolare importanza per gli intermediari creditizi: i titoli indicizzati furono introdotti sul mercato internazionale, ancora prima che in Italia, anche allo scopo di facilitare il loro collocamento nei portafogli di detti intermediari. In particolare per le banche essi presentano il vantaggio che il rendimento risponde fondamentalmente a parametri omogenei con quelli che determinano il costo della loro raccolta. La crisi del 1987 ha peraltro dimostrato che il rischio di minusvalenze è tutt'altro che teorico. I principi contabili di riferimento, meno flessibili dello stesso codice civile, considerano una "deviazione" la non contabilizzazione in bilancio delle minusvalenze; essi tendono perciò ad accentuare la variabilità, da un anno all'altro, del risultato economico della gestione, variabilità che tradizionalmente e fondatamente è considerata pregiudizievole dalle aziende di credito. Ne è derivata una azione di rigetto dei CcT da parte del sistema bancario che verosimilmente non si è esaurita. Nello sforzo di "ricomposizione degli attivi" le banche si sono indotte a sostituire gli investimenti in titoli con impieghi verso la clientela, sicché l'abnorme espansione di questi ultimi è da considerare in parte un sottoprodotto della crisi dei CcT.
Personalmente ritengo che nelle condizioni ora prevalenti e nell'immediato futuro la transizione verso i titoli a tasso fisso non sia praticabile su larga scala. Se, nell'ottica del mercato unico e dell'unione monetaria europea, la manovra del tasso di cambio sarà sempre meno utilizzabile come strumento di aggiustamento delle economie, il ricorso a quelle sui tassi d'interesse sarà necessariamente più intenso. La variabilità di questi ultimi potrebbe diventare così elevata da esercitare anche sugli investitori individuali un effetto deterrente nei confronti dei titoli a tasso fisso. Quanto ai titoli con indicizzazione reale, il loro potenziale di mercato è verosimilmente modesto.
In conclusione, ancora per parecchi anni si dovrà far ricorso ai titoli con indicizzazione finanziaria per allungare la vita media del debito pubblico. E' vero che vi è l'esigenza, recepita nella relazione Spaventa, "di ottenere un qualche decoupling fra politica monetaria e politica di gestione del debito", ma è questa una nozione che vale la pena rivisitare. Se è esatto che, con un indebitamento a tasso variabile, un rialzo dei tassi d'interesse si estende allo stock dei titoli in essere, va tenuto conto che lo stesso accade quando i tassi scendono: sotto questo aspetto vi è piena simmetria di effetti. Questo meccanismo di per sé dovrebbe spingere a fare le "riforme forti" necessarie per il risanamento della finanza pubblica. E' significativo, a questo riguardo, che il ministro del Tesoro abbia sottolineato, in occasione dell'aumento del tasso ufficiale di sconto, l'urgenza che i provvedimenti di incremento delle entrate e di limatura delle spese vadano definitivamente in porto, ciò che permetterebbe di riabbassare il livello dei tassi d'interesse.
Nelle condizioni di grande incertezza delle aspettative, che circondano il bilancio statale e il debito pubblico, il collocamento dei titoli a tasso fisso richiederebbe verosimilmente tassi d'interesse maggiori di quelli correnti, già essi molto elevati. Ciò costituisce un motivo sufficiente per ritenere che difficilmente i titoli a tasso fisso possano rappresentare oggi un'alternativa, di ampiezza adeguata, a quelli a tasso variabile. Lo strumento alternativo per il finanziamento dello Stato e il rifinanziamento del debito finiscono per essere i BoT, come la realtà che abbiamo sotto gli occhi conferma. Ma i rischi discendenti da una liquefazione del debito sono ben maggiori di quelli che in effetti implica l'impossibilità di realizzare, quando predominino nello stock titoli quali quelli a tasso variabile come i CcT, il decoupling fra politica monetaria e gestione del debito pubblico.

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