§ Democrazia e capitalismo

Stato forte per imprese pił libere




Carlo De Benedetti



Dal Mar della Cina alle rive dell'Elba, il fallimento dei sistemi comunisti si sta rivelando ogni giorno più evidente e clamoroso: in termini politici non meno che in termini economici. Nella loro attuazione concreta, quei sistemi si sono dimostrati incapaci di raggiungere proprio quegli obiettivi coi quali si ripromettevano di provare la loro superiorità. Non hanno realizzato la libertà dei cittadini, non hanno offerto loro il benessere, non hanno costruito neppure una effettiva società di eguali. Non nego che la rivoluzione russa abbia sepolto dietro di sé un inaccettabile sistema feudale, ma il superamento di quella anacronistica struttura è avvenuto imponendo il pagamento di costi tragici in termini di distruzione di uomini e di cose, di valori e di cultura.
Trovo nei processi di liberazione apertisi dentro il mondo comunista la definitiva conferma della non conciliabilità tra comunismo e democrazia, ma leggo anche in questa lezione della storia il riconoscimento che il governo democratico delle società moderne può fondarsi su un'economia di mercato, cioè su un sistema capitalistico. Sono stato fiero di definirmi apertamente capitalista in anni in cui era più facile tenerlo nascosto; oggi non ho certo motivo di disappunto nel constatare che grandi masse di uomini e governi di importanti Paesi, un tempo attestati sulla sponda opposta, invochino quei principi e quelle regole in cui ho sempre creduto e per le quali mi sono battuto.
L'orgoglio e il compiacimento del presente, però, non mi fanno velo nel guardare l'avvenire. Come ci ha avvertito la saggia parola di Norberto Bobbio, il fallimento definitivo del comunismo riapre e non chiude la grande questione della domanda di libertà, di benessere, di uguaglianza che quel sistema non ha saputo soddisfare per larga parte dell'umanità. Questa domanda insoddisfatta rimane una prova a contrario della superiorità dei sistemi politici fondati sull'economia di mercato, com'è dimostrato nei Paesi industrializzati dell'Occidente. Ma essa è anche una sfida aperta per il sistema capitalistico che dovrà riconfermare il proprio primato assicurando nuovi e più ampi spazi di libertà politica e di uguaglianza sociale, sia nei Paesi dove esso è pratica consolidata, sia in quelli dove il mercato sta appena nascendo o resta ancora un'astratta aspirazione.
E' questa la grande sfida che sta oggi dinanzi ai governi e ai cittadini delle democrazie occidentali e a tutti coloro che in questi Paesi svolgono con fierezza e con passione il mestiere del capitalista. Il capitalismo non è una ideologia che possa rivendicare il suo primato in forza di chissà quali valori precostituiti. Esso è, e deve rimanere, un modo di organizzare il sistema economico, di far funzionare la macchina produttiva. Dunque, le sue battaglie vanno combattute e i suoi successi conquistati sul campo, volta per volta, con infaticabile e tenace opera quotidiana. Come si addice, del resto, al mestiere dell'imprenditore.
Se è un fatto che non esiste democrazia senza capitalismo, purtroppo non è altrettanto vero il rovescio. Sono esistiti ed esistono Paesi nei quali la pratica del capitalismo non coincide con l'esercizio della democrazia politica. Ciò indebolisce la presenza del capitalismo nel mondo ed è oggi un primo terreno di sfida per i capitalisti lungimiranti: un terreno più prossimo di quanto non si possa immaginare a Wall Street o a Piazza Affari, vista la globalizzazione marciante del mercato planetario.
Esistono poi Paesi nei quali l'integrazione fra capitalismo e democrazia si è affermata in tempi più recenti, ma risulta insidiata da una maturazione ancora incompiuta sul piano dei rapporti istituzionali fra la sfera delle decisioni politiche e la vita dei mercati e dei mercanti. Ed è questo il tema di sfida che gli imprenditori italiani hanno oggi dinanzi alla porta di casa.
In Italia, la battaglia per l'affermazione del capitalismo è finita da tempo. Infatti, non c'è forza politica o sociale significativa che pensi seriamente di abbandonare l'economia di mercato come fondamento del sistema. Ma questo successo, ottenuto sul piano dei principii, fa fatica a tradursi in comportamenti reali e diffusi, a trasformarsi in una vera democrazia economica. Di ciò risente l'efficienza del nostro mercato e, in parallelo, quello del nostro sistema politico.
Non ho mai pensato che il potere economico debba prevalere su quello politico o sostituirsi ad esso. Anzi, sono convinto che le imprese, per svolgere bene il loro compito, abbiano bisogno di uno Stato forte, che è la condizione indispensabile per avere un mercato altrettanto forte. Noi oggi non abbiamo né l'uno né l'altro. In questo vuoto di poteri corrono rischi di corrompimento sia la democrazia politica sia la democrazia economica, perché i protagonisti, sull'uno o sull'altro versante, sono quotidianamente tentati dalla pratica arrogante delle invasioni di campo.
Uno Stato forte non è quello che interviene, con vezzo tirannico, negli affari dei cittadini secondo mire di occasionalità politica contingente. Esso è forte quando è in grado di fissare codici di comportamento e di farli rispettare da tutti. Un mercato forte non è quello che consente agli agenti del potere economico di realizzare qualsiasi progetto, a qualunque condizione, dettando essi stessi le regole del gioco. Esso è forte quando opera sulla base di regole prestabilite, uguali per ciascuno e, soprattutto, dirette a tutelare una competizione leale e paritaria tra i diversi soggetti. Nell'assenza di questi pilastri, il terreno su cui poggia la nostra democrazia diventa fertile solo per gli abusi di potere e per la corruzione che alberga ogni qualvolta un affare diventa oggetto di comparaggio politico.
Capitalismo e democrazia soffrono in Italia, entrambi, della mancanza di un sistema compiuto di regole, che è causa di asfissia per quel bene, a tutti essenziale, che è il pluralismo economico e politico. In altri Paesi la libertà e la diversità di giudizio vengono considerate componenti essenziali e irrinunciabili della dialettica democratica; in Italia su questa strada si rischia talora l'accusa assurda di attentare alla democrazia, addirittura si può essere arruolati d'ufficio in una lista di amici o di nemici, secondo il caso. In questo clima può non stupire che anche a me sia capitato di trovarmi iscritto da altri fra i ruoli di un inesistente partito Dosd (De Benedetti-Occhetto-Scalfari-De Mita) solo per aver continuato ad esprimere quelle idee che anche sopra ho richiamato e che probabilmente ad altri recano disturbo. Smentire una simile panzana sarebbe come negare di aver rubato il Duomo di Milano. Trovo poi addirittura inconcepibile per me essere indicato come parte di un presunto schieramento che, per la sua composizione politica, sarebbe proprio l'opposto di un mio preciso convincimento: che cioè la dura competizione tra opposti schieramenti per il ricambio delle forze di governo è il sale di ogni moderna democrazia, dagli Stati Uniti all'Inghilterra, alla Francia.
Ritengo però utile chiedermi se queste trovate sui partiti trasversali come il fantomatico Dosd siano frutto di pigrizia mentale o di strumentalità politica. Nel primo caso, dovrei dedurre che la logica delle congiure e del sospetto si sta rivelando più forte della chiara capacità di intendere il fondo dei problemi del Paese. Nel secondo caso, dovrei concludere che nella nostra democrazia sta montando una intolleranza strisciante verso coloro che, per rispetto di se stessi e del proprio lavoro, non amano accodarsi a nessun carro, ma preferiscono viaggiare in proprio sulla strada comune. Nell'un caso e nell'altro, comunque, debbo constatare che simili escogitazioni non aiutano la crescita della democrazia politica ed economica. Personalmente mi sento più scandalizzato che minacciato da tutto questo. Ma non posso fare a meno di guardare con allarme alla sorte di quei principii e di quelle regole che dovrebbero rafforzare, nella reciproca ricchezza dei ruoli, l'integrazione tra capitalismo e democrazia. Quando la dialettica pubblica si concentra attorno a simili falsi problemi, la politica perde la sua qualità di strategia progettuale per ridursi a fare proprio quello che sospetta in altri: cioè, mera spartizione di potere.
Domandiamoci piuttosto: dov'è lo Stato forte? Dov'è il mercato forte? Sarebbe davvero paradossale una rinuncia al consolidamento definitivo di questi due pilastri, proprio nel momento in cui la crisi del mondo comunista ci dà ragione, ma ci lancia in faccia la sfida di un'economia di mercato su scala planetaria. Sarebbe drammaticamente doloso effettuare questa stessa rinuncia mentre, più da vicino, è in moto l'inarrestabile processo della piena integrazione europea. Questa del Mercato unico comunitario è una sfida al nostro sistema-Paese: da sole, né le imprese né la classe politica possono vincerla. Occorre uno sforzo comune - nella trasparente diversità dei ruoli, delle opinioni, delle responsabilità - per il rinnovamento dello Stato.
Spetta al potere politico - ovviamente sulla base del consenso elettorale - definire i grandi obiettivi del Paese e stabilire le regole del gioco che promuovano le potenzialità di sviluppo e di crescita della società. Ma tocca anche al mondo degli imprenditori alzare forte e chiara la propria voce, affinché questo salto di qualità nella gestione della cosa pubblica venga compiuto con l'urgenza che i tempi richiedono. Il capitalismo è il sistema più efficiente che si conosca per organizzare l'economia. La storia ha dimostrato che senza capitalismo non vi può essere democrazia politica. Ecco perché i rappresentanti del mondo imprenditoriale hanno il dovere di farsi sentire con vigore. Un capitalismo orientato al consolidamento della democrazia non ha nulla da spartire con la ricerca di protezioni politiche né con il perseguimento di, mire egemoniche: protezione ed egemonia sono termini antitetici con il concetto stesso di libero mercato.
Insomma, il capitalismo dimostra la sua forza nel porsi al servizio della libertà di tutti. Ciò che noi abbiamo sempre cercato di fare nel nostro mestiere di imprenditori e che riteniamo debba essere un obiettivo primario dell'organizzazione degli industriali italiani ed europei.


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