§ L'arte della moneta

E con una lira compravano una schiava




Franco Scotti



I privilegiati sudditi di Carlo Magno, secondo documenti dell'epoca, con una lira d'argento (Pesava 410 grammi del prezioso metallo a una lega di 950 millesimi), in tempo di gran carestia compravano trentasei moggia di miglio, o una schiavetta bella e robusta, ovvero due meno avvenenti, o una proprietà comprendente quattro campicelli e due boschi, e con otto lire potevano acquistare cinque belle proprietà con case, terre e boschi.
Appunto sotto Carlo Magno era nata in Italia la lira. I greci avevano introdotto in Italia meridionale e in Sicilia un tipo di bilancia che chiamavano "litra". I romani l'avevano adottata, e in latino il suo nome era diventato "libra", un termine che poi era passato a indicare non solo lo strumento, ma anche la quantità di merce che esso poteva pesare (circa 350 grammi). I barbari giunti in Italia l'avevano accettata come unità di peso. E, mentre i Longobardi usavano come unità monetaria il "soldo" d'oro con le sue frazioni, dette "tremissi", i Franchi invece avevano messo in uso come moneta metallica il "denaro" d'argento, che le Zecche fornivano nella misura di 240 pezzi per ogni libbra d'argento puro ricevuta.
Con la vittoria di Carlo Magno sui Longobardi, questo sistema monetario fu esteso all'Italia. E la "libra" perdette la "b", e divenne l'antenata della nostra moneta. Si trattava allora di una "lira-fantasma": essa non esisteva materialmente, ma serviva a indicare il numero di "denari" d'argento al quale corrispondeva il suo peso, che Carlo Magno aveva portato a 410 grammi. Così come una "lira-fantasma" sarebbe diventata, dodici secoli dopo. la sua lontana erede, che anch'essa ormai non esiste più se non come teorico sottomultiplo della più piccola moneta ancora materialmente in uso (e non sappiamo ancora per quanto) nel nostro Paese: quella di 50 lire.
La lira carolingia si mantenne stabile per oltre cento anni, fino all'inizio del x secolo. Poi vi fu la prima inflazione della nostra storia. Regnava il primo Berengario, quando il "denaro" d'argento, sottomultiplo della teorica lira, fu ridotto da 1,7 a 1,4 grammi. Sessant'anni dopo, con il primo e il secondo Ottone, il peso si ridusse a 1,2 grammi. In due secoli, si era passati da 4 10 a 330 grammi, e da 950 a 830 millesimi di lega. La capacità d'acquisto era caduta di conseguenza.
Quante inflazioni si sono succedute da allora ad oggi nella "lira" e nelle varie monete degli Stati italiani? Non poche, fino a che il "denaro" che era il suo sottomultiplo non contenne quasi più argento, ma lega di rame, e fu chiamato sprezzantemente, a causa del suo colore, "bruno" o "brunetto". I "denari" imperiali del Barbarossa valevano il doppio di quelli di Milano e di Pavia, ma le floride Repubbliche di Venezia e Genova coniavano "grossi" e "ducati" che valevano 2.40 "denari" d'argento della stessa epoca. In Francia, alla vigilia della
Rivoluzione, la lira corolingia da 4 10 grammi d'argento si era ridotta a contenerne solo quattro grammi. Poi Napoleone, regnando sia in Francia sia in Italia, stabilì per il franco francese e per la lira italiana un uguale contenuto di cinque grammi d'argento a 900 millesimi, e divise ciascuna delle due monete in centesimi. Con la Restaurazione, ogni Stato italiano riebbe, con i vecchi sovrani, anche l'antica moneta. Solo i Savoia ritennero utile conservare la "lira", e fu questa che, unificata l'Italia, divenne la moneta del Regno, e in seguito della Repubblica.
Ci furono, col passare degli anni, cambiamenti sensibili. Innanzitutto, l'argento andò perdendo valore rispetto all'oro, sicché, abolito il bimetallismo monetario, fu usato solo per le monete divisionarie. Le banconote, che i cinesi usavano da molti secoli, erano penetrate in Italia quando, il 26 settembre 1745, il Re di Sardegna, con un editto, aveva ordinato l'emissione di "biglietti di credito verso le Regie Finanze per gli Stati di Sua Maestà al di qua dei monti", stabilendo che essi dovessero "avere lo stesso corso come se fossero effettivo denaro". Nacquero così insieme, possiamo dire, le prime banconote e i primi "Buoni del Tesoro" italiani.
Durante l'invasione dei rivoluzionari francesi vennero emesse "cedole di carestia" a Trento e "cedole mantovane" in Lombardia, mentre in Piemonte fu ridotto il valore dei "biglietti di credito" a un terzo, (ma riacquistarono il valore iniziale dopo il ritorno del re sabaudo).
Tutto il nostro Risorgimento, compresa la prima guerra mondiale, fu finanziato, può dirsi, con prestiti patriottici. La prima a ricorrervi fu la Sicilia durante la rivoluzione del 1848, capeggiata da Ruggero VII. Il parlamento decise di "contrarre" un "Imprestito pubblico" e furono emesse cartelle "per un valore sino ad once quattro per una, portanti interessi al quattro per cento in ragione di anno".
La Repubblica Romana di Mazzini emise una serie di "buoni" a "corso coattivo", e autorizzò province e comuni a fare altrettanto con la dicitura "da cambiarsi in Boni del Tesoro o della Banca Romana e d'aver corso coattivo nel solo comune ... ". A Venezia, cacciati gli austriaci, il governo provvisorio emise la "Moneta patriottica"; la "Città-fortezza" di Palmanova, come aveva già fatto nel 1814, durante l'assedio napoleonico, emise una corta moneta ossidionale "assicurata sopra gli stabili nn. 392, 393, 396 della Fortezza".
E il Forte di Osoppo emise buoni addirittura manoscritti. Mazzini, tornato in esilio a Londra, costituì un "Comitato nazionale italiano" che emise un "prestito nazionale" per dieci milioni di lire italiane e un "Comitato Centrale Democratico Europeo", con un proclama firmato da Ledru-Rollin, Mazzini stesso, il polacco Alberto Darasz; e Arnoldo Ruge, ex membro della Costituente di Francoforte, dichiarava: "La democrazia europea è mallevadrice per l'Imprestito Nazionale italiano". Fu per essere stati trovati in possesso di cartelle di questo prestito che il sacerdote Enrico Tazzoli e i suoi compagni vennero messi a morte a Belfiore. Durante la prima guerra mondiale vi furono, come abbiamo detto, prestiti "patriottici", che consentirono al Paese di sostenere le enormi spese del conflitto. Poi, altri buoni del Tesoro furono emessi in quel primo dopoguerra; fino a quando, nel 1926, Mussolini procedette al loro consolidamento, convertendoli forzosamente in buoni del nuovo "prestito del Littorio" che fruttavano un interesse per allora elevato (il 5 per cento), erano esenti da ogni imposta presente o futura e non erano soggetti a eventuale conversione prima del 1936, cioè dieci anni dopo.
Prima di questa operazione di conversione, nel Regno d'Italia ce n'erano state altre due: una del 21 dicembre del 1903, che aveva operato la riduzione degli interessi dei buoni in circolazione dal 4,50 al 3,50 per cento; l'altra, più importante, del 1906, che riguardava un debito pubblico, enorme per quel tempo, di oltre otto miliardi di lire. Esso non era stato forzoso, ma era riuscito perfettamente: le domande di rimborso furono pochissime. Il Tesoro ne trasse un beneficio annuo di 20 milioni 839.462 lire fino al 1912, e un beneficio doppio a partire da quella data. Ma allora lo Stato italiano non era spendaccione. E la gente aveva fiducia.

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