§ Sistema monetario ed equilibri internazionali

In prospettiva stagflazione




Carlo Azeglio Ciampi
Governatore della Banca d'Italia



Nel 1990, il commercio internazionale si stima abbia raggiunto l'importo di 3.500 miliardi di dollari, pari al 14 per cento del Pil mondiale; le transazioni di attività finanziarie sono un multiplo elevato di questa cifra.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Occidente e il Giappone hanno costruito il loro benessere sull'applicazione crescente del principio di libertà degli scambi. Oggi si confrontano coloro che auspicano l'estensione di quel principio ad aree finora protette, in particolare quelle dei prodotti agricoli e dei servizi, e coloro che difendono interessi settoriali e regionali. Le difficoltà della trattativa in ambito Gatt hanno riflesso questo contrasto. Esso si è manifestato sia, all'interno del mondo sviluppato sia nei rapporti fra questo e i Paesi in via di sviluppo.
Questi ultimi chiedono che venga loro esteso il modello di libertà degli scambi da cui è scaturito il benessere nel mondo occidentale; da parte dei Paesi più indebitati, una più ampia partecipazione al commercio mondiale è ritenuta essenziale per attenuare il peso del loro debito estero. La richiesta assume la forma di domanda di libertà di accesso ai ricchi mercati del mondo sviluppato; assume altresì la forma, non nuova nell'esperienza di Paesi quali il nostro, di imponenti fenomeni migratori, con i connessi problemi umani, sociali, economici, politici. Sull'assetto futuro del commercio mondiale si gioca una partita che non è solo economica, ma anche sociale, politica, di confronto di civiltà. Il corso dei mutamenti sarà influenzato dalle tendenze demografiche in atto, lente ma inesorabili. Esse accrescono la quota della popolazione mondiale residente nei Paesi in via di sviluppo, e rafforzano l'aspirazione a un maggiore benessere da parte dei popoli economicamente meno avanzati. Di fronte a queste tendenze demografiche si configura una radicale alternativa fra una immigrazione massiccia, difficilmente controllabile, nei Paesi industriali, e, all'opposto, flussi di investimenti nei Paesi in via di sviluppo e ampliamento degli sbocchi alle loro esportazioni. Un modello di relazioni mondiali improntato alla libertà degli scambi, di merci e di capitali, è quello che meglio può conciliare, nel lungo periodo, la diffusione del benessere con il 'consolidamento dei rapporti pacifici fra aree, con un'ordinata migrazione di persone, con la stessa preservazione dei connotati tipici delle civiltà delle varie regioni della terra.
Operano nel mondo forze che tendono a creare grandi blocchi economici. Questi si caratterizzano per la contiguità geografica e per la presenza di una potenza economica predominante che agisce da polo di attrazione. E' il caso della Cee nei confronti dell'Europa, inclusa quella centro-orientale, e dell'Africa mediterranea. Che si creino intese più strette, basate sulla vicinanza geografica, sulla complementarietà economica, su maggiori punti di contatto delle rispettive civiltà, non deve sorprendere, né è fenomeno negativo. Al contrario, simili intese possono offrire una valida opportunità di allargamento degli scambi, di intensificazione degli investimenti dai Paesi relativamente ricchi di capitale in quelli con abbondanza di lavoro.
Ciò che va respinto è la chiusura di ciascuno di questi blocchi in se stesso, la tentazione di essere autosufficiente. Ne seguirebbe, inevitabilmente, la contrapposizione tra loro. Occorre disegnare un modello di relazioni economiche internazionali nel quale trovino coerente sistemazione sia i progetti di intese regionali (quello relativo all'Unione economica e monetaria europea essendo oggi il più avanzato e ardito per finalità) sia la più intensa partecipazione al commercio mondiale di aree finora periferiche, sia, infine, i flussi finanziari, di aiuto e a condizioni di mercato, che si dirigono dai Paesi sviluppati e dagli organismi internazionali verso i Paesi in via di sviluppo e di trasformazione.
Il continente europeo sta vivendo due grandi esperienze: l'Uem e la trasformazione dell'Est. Entrambi i processi saranno più proficui, per i Paesi interessati e per il mondo intero, se si svolgeranno in un clima di stabilità monetaria.
Quello della stabilità è tema su cui ritengo sia necessario soffermarsi. Dirò subito, da banchiere centrale, che i cambiamenti di portata storica che hanno interessato il continente europeo negli ultimi diciotto mesi rafforzano l'esigenza di un forte impegno per la stabilità dei prezzi, dei cambi, dei mercati dei capitali.
Questa esigenza è resa più stringente dall'attuale momento storico. L'economia mondiale si trova in una fase di decelerazione della crescita, mentre la guerra del Golfo ha deteriorato le aspettative e ha impartito un impulso inflazionistico a tutti i Paesi importatori di petrolio. Incombe di nuovo, ma èevitabile, il rischio della stagflazione.
Al tempo stesso, il sistema monetario e finanziario internazionale patisce le incertezze che derivano da irrisolti squilibri nelle finanze pubbliche e nei pagamenti internazionali all'interno del mondo industrializzato, dalla fragilità dei sistemi finanziari in alcuni degli stessi maggiori Paesi, dalla perdurante crisi delle economie più indebitate del Terzo Mondo. Tutto ciò si traduce in instabilità dei cambi e tassi d'interesse reali storicamente elevati.
Gli alti tassi dell'interesse gravano sui bilanci dei Paesi in cui si è accumulato il debito pubblico e limitano le già scarse risorse disponibili in molte delle economie meno sviluppate con elevato indebitamento estero; soprattutto ostacolano gli investimenti nelle economie, segnatamente dell'Est, che necessitano di una profonda trasformazione. Una maggiore stabilità dei prezzi ridurrebbe l'incertezza che l'inflazione trasmette all'economia reale e, unita a politiche economiche tese a sollevare il governo della moneta dai troppi compiti ad esso attribuiti, porterebbe alla riduzione dei tassi d'interesse reali, oltre che di quelli nominali.
La risposta non illusoria alle sfide a cui chiamano le modificazioni strutturali e le vicende congiunturali dell'economia internazionale sta nel favorire la formazione di risparmio. Ciò significa politiche economiche volte alla stabilità dei prezzi, e quindi tali da sollecitare la formazione del risparmio privato e il suo avvio verso l'investimento, e in particolare di politiche fiscali miranti al contenimento dei disavanzi pubblici. Questa prescrizione da tempo ci viene implicitamente proposta dalla tendenza declinante della propensione al risparmio. Nel complesso dei Paesi industriali, il rapporto risparmio netto-Pil è disceso dal 17 per cento del 1973 al 10 per cento di questi ultimi anni. Nella presente situazione economica, la prescrizione appare appropriata per la quasi totalità dei Paesi. Lo è anche per la Germania, dove le risorse necessarie alla riunificazione debbono essere reperite senza gravare eccessivamente sul disavanzo del bilancio pubblico. Le conseguenze economiche della riunificazione non possono essere interamente gestite dalla politica monetaria.
Come ho detto, nella generalità delle economie non vi sono alternative a politiche che contengano i disavanzi pubblici, cessino di distruggere risparmio, contribuiscano a generarlo, rimuovano i fattori di squilibrio e di instabilità. E' ingente il fabbisogno di risorse finanziarie dei Paesi dell'Europa centro-orientale e dell'Unione Sovietica in particolare, che si aggiunge a quello cronico dei Paesi in via di sviluppo. Salvo qualche eccezione, le banche internazionali esitano a far fronte a tale domanda in assenza di precise garanzie da parte dei governi e delle loro agenzie di assicurazione dei crediti. Questo atteggiamento non stupisce: è ancora viva l'esperienza dei crediti immobilizzati con la crisi debitoria internazionale del 1982. Ad essa si aggiungono le incertezze per la presente congiuntura economica.
Nell'attività del Gruppo dei Sette il coordinamento si è incentrato sulla politica del cambio e della moneta. Non si è voluto, o non si è potuto, includere tra le politiche da armonizzare quella di bilancio.
Per il futuro è auspicabile che il Gruppo dei Sette, oltre a rafforzare la gestione coordinata della moneta e del cambio, affronti il problema del coordinamento internazionale delle politiche di bilancio, coniugando gli obiettivi di riequilibrio macro-economico con quelli di incentivazione del risparmio, pubblico e privato.
Il progetto di Unione economica e monetaria si inserisce nelle più vaste esigenze che si manifestano per il continente europeo nel complesso. Nelle conclusioni raggiunte a livello politico nelle ultime riunioni del Consiglio europeo, come nei lavori tecnici svolti dal Comitato dei Governatori, è emerso un ampio consenso in favore di un insieme di regole e di istituzioni mirate al conseguimento della stabilità dei prezzi e all'eliminazione degli squilibri di bilancio, in un contesto di piena libertà per gli operatori e di forte integrazione dei mercati.
La realizzazione del progetto comunitario accresce la possibilità di sostenere lo sforzo di trasformazione delle economie dell'Est d'Europa.

L'esigenza politica di cooperare con quei Paesi in forme nuove è ineludibile per la Cee e per l'intero mondo occidentale. Il problema è già stato posto, correttamente, nelle sedi della cooperazione politica, quale la Conferenza di Helsinki, e nei trattati bilaterali che molti Paesi europei hanno già concluso con quelli dell'ex Patto di Varsavia.
L'esigenza economica, del pari, travalica il contesto comunitario. La Comunità economica europea sta svolgendo un ruolo di propulsore sia con l'affrontare programmi di assistenza immediata, sia con il creare nuove istituzioni, quali la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Tuttavia, il problema economico a est della Comunità è tale da coinvolgere tutti i Paesi industrializzati e tutte le istituzioni economiche internazionali, dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale, all'Ocse.
Esso ha una dimensione finanziaria che dovrà essere soddisfatta con apporto di risorse sia dalle fonti ufficiali, bilaterali e multilaterali, sia dalle fonti private. Esso ha anche una dimensione istituzionale, rappresentata dall'esigenza di dar vita alle strutture-cardine dell'economia di mercato, nella produzione e nel commercio, come nel settore monetario, del credito e della valuta: occorre restituire al sistema dei prezzi e dei tassi d'interesse la funzione di strumento fondamentale della politica economica, di meccanismo di allocazione delle risorse.


In questo processo di trasformazione, straordinario per dimensione e complessità, che investe, con le strutture e istituzioni, i modelli culturali dei singoli e delle collettività, la funzione della Cee, quale naturale polo di riferimento, è fondamentale. Non gioverebbe agli stessi Paesi dell'Europa centro-orientale il rallentamento della realizzazione dell'Uem, quasi fosse possibile, ritardandola, coinvolgervi fin d'ora quelle economie. Limitando l'esame agli aspetti valutari e monetari, le condizioni di quei Paesi sono ben lontane anche dalla possibilità di aderire allo Sme nella sua originaria configurazione. Le loro valute non sono convertibili, non hanno un mercato che ne determini il valore esterno. Anche allorché saranno riusciti a creare un'economia di mercato, quei Paesi non potranno in tempi brevi credibilmente rinunciare alle variabilità del cambio come strumento di correzione degli squilibri di competitività. Ciò non significa che non debbano studiarsi e attuarsi sin d'ora forme di cooperazione tra l'arca monetaria della Cee e i Paesi dell'Est europeo.
Nel concludere, vorrei richiamare il trinomio posto alla base di questo intervento: libertà di scambi di merci e di capitali, stabilità monetaria, risparmio. Da esso trae origine la convinzione che la Cee debba restar fedele, anche nei rapporti con le aree esterne, al modello aperto e libero-scambista che ha avuto tanta parte nello sviluppo dei suoi Paesi membri. La costruzione dell'Uem apporterà coesione e dinamismo al coordinamento internazionale delle politiche economiche; fungerà da àncora della stabilità monetaria nei confronti dei Paesi europei extracomunitari. Per queste ragioni, è necessario che la Cee riprenda ogni iniziativa di trattative. Al tempo stesso è essenziale che i tempi dell'Uem non siano allungati, e che la sostanza del progetto non sia alterata. Le decisioni prese dal Consiglio europeo di Roma nell'ottobre dell'anno scorso vanno nella giusta direzione per quanto riguarda i contenuti e le scadenze. La bozza di statuto della Banca centrale europea, predisposta dal Comitato dei Governatori, e quella del Trattato dell'Uem approntata dalla Commissione, sono al vaglio della Conferenza intergovernativa. Si tratta di documenti che rappresentano assai più di una base tecnica di lavoro. La bozza di statuto del Sistema europeo di Banche Centrali è il frutto di un forte impegno, espresso dai Governatori già nell'ambito del Comitato Delors, continuato poi all'interno del loro Comitato, fino ad analizzare nei dettagli gli obiettivi, i compiti, le modalità operative e organizzative della nuova istituzione. L'accordo raggiunto sulla costruzione finale dell'Uem permette di applicarsi alle analisi necessarie, di completare il disegno della transizione, di dare concretezza di modalità operative per la conduzione di una politica monetaria oggi coordinata, domani comune.
La parola è ora ai governi e ai Parlamenti. Nel marzo 1979, quando si decise di dar vita allo Sme, le istituzioni politiche dettero prova di coraggio e di senso della storia. Dopo pochi mesi scoppiò il secondo shock petrolifero, e si disse che forse lo Sme non sarebbe mai nato se lo shock fosse avvenuto qualche mese prima. Fu invece un bene che lo Sme fosse già operativo, consentendo di orientare, nella convergenza e nella cooperazione, le reazioni dei Paesi comunitari alla crisi che seguì.
L'augurio di oggi, proprio alla luce di quell'esperienza, è che anche nel caso deprecabile di una crisi di qualsivoglia natura, non si rinvii, per timore di essa, la realizzazione di iniziative da tempo concepite e di progetti già ben definiti. Sul piano istituzionale e su quello operativo, quelle iniziative consentiranno di meglio governare i problemi di fondo dell'economia europea, entro e fuori la Comunità, e di contribuire più efficacemente all'ordinato progresso delle relazioni economiche mondiali.


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