§ A Sud del barocco

Come angelo di cattedrale




Antonio Figliola



Immigrazioni storicamente accertate di cretesi Invasero la penisola salentina sovrapponendosi agli aborigeni. Quando ciò sia avvenuto non è noto. E' stato però stabilito che la lingua messapica fu l'idioma dei primi abitanti di Lecce.
Dopo successe la colonizzazione ellenica. Fiorenti colonie greche qui insediatesi tra il decimo e il sesto sec. a. C. fecero assurgere Lecce a enorme importanza, auspice i suoi commerci e il suo emporio marittimo: ce lo dimostra il porto di Roca Vecchia, a 22 chilometri dal capoluogo.
A metà del secondo sec. dopo Cristo, la potenza universale di Roma librò le sue ali su questo estremo lembo d'Italia, centro e prestigio d'i legioni. Quinto Ennio, il grande poeta restauratore della lingua latina, nato a Rudiae, a 2 chilometri da Lecce, nel 239 a. C., è per i leccesi fonte inesauribile di orgoglio e testimonianza della nobiltà della stirpe. Una colonna marmorea offerta da Roma per il bimillenario della nascita del poeta è allogata -su base di travertino - nelle adiacenze di porta Rudiae.
Crollato l'impero romano, Lecce passò sotto il dominio dei Goti, dei Longobardi, dei Bizantini: tutti e più volte presero e saccheggiarono la città. Agli albori dell'XI° sec., i Normanni riaccesero la gioia della vita e le attività dei commerci marittimi. Tancredi fu conte di Lecce e Re delle Due Sicilie (1140-1194). Nel 1180 costruì la stupenda chiesa di San Niccolò e Cataldo, il più insigne monumento di Terra d'Otranto. In questa basilica si rimane estasiati, quasi perplessi, affascinati da una polifonia di stili: dal romanico-bizantino, aIl'arabo-moresco; la cupola è senz'altro su modello greco. Ha tre navate divise da pilastri, con addossate colonne corinzie le quali con gusto gotico svettano sino alla volta. Gli affreschi sulle pareti delle navate laterali e nell'abside sono tuttora in ottimo stato conservativo.
Questo monumento nei secoli ha subìto rovine e mutazioni. la costruzione è in pietra calcarea giallo-dorata dal tempo che scorre, tagliata e posta in sesto con nettezza e vaghezza ammirevoli. In quei conci il turista può cogliere a occhio nudo miriadi di valve di diatomee e radiolari, fossilizzati, risalenti all'era cenozoica. Per inciso, sia detto che al mesozoico appartengono lo Sperone del Gargano, tutta la provincia di Bari (Japigia), dall'Adriatico alle falde della Murgia, e parte della Penisola salentina, sul versante ionico, verso Porto Cesareo. All'era cenozoica si attribuisce la zona Otranto-Santa Cesarea Terme. Il Tavoliere di Capitanata (Daunia) nell'estensione Foggia-Barletta-Cerignola appartiene al neozoico o quaternario.
La chiesa di S. Niccolò e Cataldo ha due porte laterali con fregi intatti che sono il più superbo ornamento del tempio. Si direbbe che quelle decorazioni giallo-oro siano state lavorate come la cera, con leggiadria, con grazia, venustà, avvenenza, tanto da poter competere con lavori di pittura e di scultura. La porta centrale della facciata ha un arco cui fanno cornice due ghirlande intrecciate di foglie di acanto e di quercia di una bellezza sontuosa. Al centro dell'architrave si legge la prima delle epigrafi di re Tancredi.
Ai Normanni successe la famiglia dei Brjenne con Gualtiero VI: fondò Roca Vecchia e volle che fosse come era stata ai prischi tempi, emporio dei leccesi; la munì di castello e di mura di cinta ancora oggi in buono stato di conservazione; dotò Lecce di vastissimi possedimenti e di uomini. Dispose in bell'ordine le strade e assegnò all'amministrazione e alla direzione della città un Questore, che aveva cura del pubblico erario.
Roca, oggi, è un centro di villeggiatura; nel passato trentennio sono state costruite ville che hanno inglobato le vecchie case dei pescatori. E' bagnata dall'Adriatico limpidissimo; ha una scogliera a picco di oltre 20 metri, delizia dei subacquei e dei bagnanti che si tuffano da quelle altezze nell'acqua cristallina e leggera.
Roca - inoltre - ha una piccola baia, chiamata "La poesia", fra le più belle della Penisola salentina.
Roca rappresenta per i salentini la costa geograficamente più vicina alla Grecia. Nel 14° e nel 15° sec. fu dimora preferita dei fastosi principi dell'autonoma Contea di Lecce. Nel 1356 la Contea passò a Maria d'Enghien e, in seguito, le successe Antonio Giovanni Orsini, suo prediletto figlio. Roca, a lui fedelissima, era luogo di delizia e sollievo del suo spirito; fu assassinato il 13 novembre 1463 ad Altamura per odio dei baroni pugliesi.
Dopo questo tempo ebbe inizio la decadenza di Roca. Nel 1480, fu uno dei luoghi vicino a Otranto maggiormente straziato dalla ferocia del turco: i saraceni nel luglio dello stesso anno ne occuparono il castello.
Comincia così per Lecce l'era degli Aragonesi. Alfonso d'Aragona, duca di Calabria, scelse Roca come base di operazione e centro di raccolta dell'esercito nazionale che doveva stringere d'assedio Otranto (14 agosto 1480), già accupata dal turco invasore. Riconquistata Otranto, Roca rimase squarnita del presidio sufficiente a difenderla. in seguito, del tutto abbandonata, fu facile preda delle frequenti incursioni dei saraceni, che tenevano quel porto come asilo sicuro, infestando il territorio limitrofo.
Roca fu demolita nel 15,44 per ordine di Carlo V.
Gli scavi eseguiti sull'antico porticciolo hanno messo a nudo le mura colossali che recingono l'antica cittadella per un perimetro di circa 1500 metri, oltre l'area occupata dalla necropoli e la linea che costeggia il mare. Gli avanzi architettonici della muraglia consistono in massi paralielepipedi di pietra da taglio calcareo-magnesiaco compatto, ben squadrati. La necropoli è di grande interesse: si osservano gruppi di tombe a cassettoni, coperte di lastroni; qui si sono trovati vasi fittili a tinte uniformi baccellati e figurati. Sono state reperite fibule in bronzo e in oro, monete greche, romane e medioevali, intere o in frammenti. Il tutto custodito nel Museo provinciale "Sigismondo Castromediano", a Lecce. Il museo, una volta allogato nel Palazzo dei Celestini, trovasi in viale Gallipoli, nell'ex Collegio Argento, ristrutturato con concetti modernissimi sotto l'illuminata guida della dottoressa Delli Ponti. E' ricco di vasi attici, apuli, greco-italioti, per migliaia di pezzi, tutti esemplari rivenienti dalle necropoli di Ruvo di Puglia, di Canosa, di Ordona, di Gravina di Puglia, di Caballino (Cavallino) di Lecce e da altri centri della Grecìa salentina o da scavi della Regione Puglia.
Per la storia di Lecce, frugando nelle ceneri del passato, si può affermare che la città sotto il dominio dei Normanni, dei Brjenne, degli Enghien, trovò sempre un'alta espressione di potenza civile, tale che non molte altre, maggiormente favorite dalla sorte o dagli avvenimenti, potessero nelle stesse epoche irradiare. Tra i signori di Lecce il nome e l'epoca di Maria d'Enghien compendiano questa realtà di splendore e di grandezza, e purtroppo la chiudono. Maria d'Enghien, regina prudente, accorta e tenace condottiera, è figura di grande risalto nella Contea di Lecce. Superiore, forse, a quella dello stesso Tancredi. Lecce ebbe da Maria d'Enghien quel patrimonio di cultura, quell'afflato di distinzione intellettuale che tanto le servì in ogni tempo della sua vita politica. Gli Statuti emanati da questa donna contribuirono a dare a Lecce fama di capitale.
Attive ed espertissime colonie di veneziani, di genovesi, di fiorentini si stabilirono a Lecce costituendo un singolare emporio di traffici con l'Oriente. In piazza Sant'Oronzo, Venezia lasciò il ricordo della chiesetta di S. Marco; sull'architrave della porticina rinascimentale si evidenzia lo stemma della Serenissima: il leone alato e aureolato. Il tempietto, dedicato a S. Giorgio, nel 1543 fu concesso alla colonia veneziana, console Giovanni Cristino che ebbe a ristrutturarla e la dedicò a S. Marco.
Adiacente, e nello stesso stile, nel 1500 fu costruito il Sedile, dalla strana architettura, con ampi archi ogivali e trofei di armi antiche e loggiato sovrastante ad archi fondi. Il Sedile fu luogo delle prime municipalità e la medesima funzione di casa comunale ebbe sino al 1851.
Nel sec. XVI molti veneziani, allora trasferitisi a Lecce, occuparono la carica di Console o di ViceConsole, quali i Mocenigo, Francesco Malipiero, Bartolo delle bilance, Pietro Casotti. Anche genovesi, fiorentini, ragusei, albanesi ebbero a Lecce delle vere e proprie colonie, con i loro Consoli e i loro tribunali.
Dopo la Contea, Lecce cesserà di essere di nome e di fatto. Perderà la fisionomia di città autonoma. Con la dominazione di Carlo V fu cinta da mura, con un arco di trionfo nei pressi dell'attuale Porta Napoli, in onore dell'imperatore.
Tra le cinta della città si aprono Porta Rudiae e Porta S. Biagio.
Intorno all'antico Maschio normanno fu innalzato un massiccio castello quadrilatero con quattro bastioni, fossato in giro e ponte levatoio. Queste ultime strutture sono oggi scomparse. Attualmente i castello è sede di manifestazioni culturali e di esposizioni d'arte; vale la pena visitarlo. la Sovrintendenza delle Belle Arti e dei Beni cultura i di Puglia, che ha promosso e portato a termine il restauro degli interni, rispettando lo stile, ha ceduto il maniero in proprietà al Comune di Lecce.

Il barocco
Comprende l'oggetto primario di questa indagine. Occorre premettere che tutto quanto è caratteristico dell'architettura leccese risulta dall'armonica fusione di tre grandi fonti:
1) il nuovo spirito del Rinascimento penetrato largamente in questa vetusto città;
2) i ricordi del Medioevo, che aleggiavano attorno alle sue Porte;
3) la lunga dominazione aragonese.
Pertanto, l'evoluzione del barocco leccese sì compendia in tre grandi periodi:
- il periodo "classico" ha inizio nel 1549 e si protrae sino al 1640 (chiesa dei Teatini) e chiesa di S. Croce (1549-1695).
- Il II° periodo, compreso in tutto il sec. XVII, raggiunse la sua massima evoluzione nella chiesa di S. Chiara, nella chiesa del Rosario e nella Cattedrale.
- Il III° periodo - quello del "declino" - si svolse nel 1700 ed in questo ebbe termine (Palazzo Carafa, 1764-1771), edificato dal vescovo Carafa quale residenza prelatizia, oggi sede dei Municipio. Questo splendido monumento, con la facciata principale patinata dal tempo di un colore giallo-dorato, caratteristico della pietra leccese, manifesta sintomi dei "rococò". Si nota - pertanto - alla sommità di ogni finestra dei prospetto la conchiglia degli ultimi decenni del sec. XVIII.

Primo e secondo periodo
In quest'arco di tempo i nostri architetti o "magistri", pur adottando il nuovo stile importato dagli spagnoli dominanti nel Regno di Napoli, non tralasciarono d'ispirarsi ad alcune opere del Medioevo, o del Rinascimento che, allora, s'ammirarono a Lecce, a Nardò, a Galatina, a Soleto, a Otranto. E, da questi, trassero i motivi architettonici e decorativi che applicarono nelle loro costruzioni. C'è quindi uno sposalizio tra le decorazioni di stile barocco ed alcuni motivi dei secoli precedenti.
Il barocco, a Lecce, nell'esuberanza delle sue forme e del suo stile, rappresenta una specie di reazione contro lo stile semplice e puro del tardo Medioevo. Il barocco leccese e quello degli altri monumenti ecclesiastici e dei palazzi patrizi dei Salento hanno dei caratteri che li distinguono dal barocco di Napoli, di Roma e di altre città italiane. A Roma e a Napoli il barocco è scolpito su marmi, molto spesso policromi, o su travertino. Il barocco "nostrano" ha una fisionomia tutta propria. Ha motivi di decorazioni che nessun architetto si vergognerebbe di studiare e di adottare. Si armonizza con la luminosità di questo cielo salentino terso, azzurrissimo, con i suoi ulivi dalle foglie verde-argenteo.
Lecce non ha strade. Il centro storico ha tante piazzette, quasi tanti e tanti salotti curvi, sinuosi o in quadri con tanti frontoni laterali, intarsiati da un barocco stupefacente che inchioda il turista con lo sguardo fisso su quei pizzi merlettati incisi sulla "pietra leccese".
Le chiese, i palazzi, le piazzette segnano una pagina unica della storia dell'arte di questa Lecce, chiamata la Firenze del barocco, l'Atene della Puglia.

Santa Croce
Lecce ha l'aspetto severo di una città medioevale, ma è tutta una profusione di monumenti eccelsi nella cui visione l'animo si riposa e gode.
L'intera città vecchia è una folla di sculture, abbellimenti s'intrecciano intorno ai balconi dei palazzi, pilastri e frontoni sorgono uno al cospetto dell'altro. Le chiese mostrano facciate fantasticamente ornate con figure e cariatidi. Le statue in pietra leccese le coronano e le fiancheggiano.
Riferiamoci, prima di tutto, a Santa Croce, dove la fantasia ornamentale diventa delirio: è una vera orgia, che in qualsiasi altro luogo sarebbe di cattivo gusto, ma qui si rileva in una furia di capriccio troppo gaio per potersi giudicare tale. In quel frontone splende una luce orientale; c'è nell'assieme della facciata armonia e freschezza delle Ombre; la genialità della luce si combina così felicemente intorno a questa architettura paradossale da farne una sinfonia melodiosa e cara. L'occhio rimane abbagliato, la mente si compiace quasi del fascino di questo manierismo in pietra, simile a un merletto in mezzo alla città. Nel 1906 Papa Pio X, motu proprio, conferì a Santa Croce l'onorificenza di "Basilica minore". Nella solennità della Pasqua, le epistole e il vangelo vengono annunciati nelle quattro lingue occidentali. Il rito ha inizio alle 11 antimeridiane ed è seguito anche da moltissimi turisti italiani e stranieri. la Basilica è detta dei Celestini infatti, sopra il frontone e sotto la cuspide della facciata, vi è una larga fascia arabescata, accartocciata, dispiegata da graziosi amorini con lettere di media grandezza. L'iscrizione ricorda l'Abate dei Celestini, don Matteo Napoletano, che costruì l'annesso monastero e completò il prospetto della chiesa. Attualmente il monastero adiacente è sede della Prefettura e degli uffici dell'Amministrazione Provinciale.
Sulla facciata - in alto - si vedono a destra la statua di San Benedetto da Norcia, a sinistra è allogata la statua di S. Celestino V, il pontefice che fece il "gran rifiuto": lasciò la Cattedra di Pietro e si ritirò, eremita, sui monti della Ciociaria.
Appena al di sopra delle due statue, a destra e a sinistra, se ne ammirano altre due: rappresentano la fede e la fortezza.
Abbiamo osservato da vicino il simulacro della Fortezza e, a nostro avviso, trattasi dell'immagine dell'Umiltà. E' un pezzo particolarmente interessante sia per l'accurata fattura, sia per il significato allegorico. S'intravede una donna di bello e gentile aspetto, dal viso dolcissimo, che guarda il piedistallo su cui è adagiata. Alla base sono scolpiti i simboli dei "potenti": la tiara dei pontefici, la mitra dei vescovi e di altri prelati e lo "scettro de' regnator", con a lato accovacciato un leone, mansueto, quasi sconfitto nella sua baldanza. Questi dettagli si osservano in sito, a distanza ravvicinata. Da via Umberto I è difficile vederli, a meno che non si acceda a una terrazza del palazzo di fronte la Basilica, provvisti di un binocolo. Si potrebbero gustare accurate miniature, come lamine fogliari di alloro, di querce; frastagliate foglie di acanto che tappezzano la superficie prospettica; visini di angioletti, ironici mascheroni, nature morte come fiorellini di rosacee, di ombrellifere, di liliacee, strobili di conifere, frutti, pomi, bacche, baccelli.
A complemento di tanti peculiari attributi del barocco leccese, ci piace riportare quanto scrisse nel 1980 Ernesto Alvino nel suo elzeviro "Lecce, città inconsueta" per il nostro Ente provinciale del Turismo allorquando tratta della Basilica di Santa Croce: "E' la pietra, insomma, che ha permesso e suggerito un'opera collettiva, senza firma, dovuta a una moltitudine che per un secolo e mezzo si è "passata la mano" di generazione in generazione, tutta infervorita in un lavoro di ricamo, a volte d'uncinetto. E tale succedersi di tempo, meglio si vede e si osserva che l'ordine inferiore della costruzione, partendo dal terzo decennio del '500, si snoda come in un esordio di pacatezza classica; pochissimo adorno, solo indulgendo alla finezza lineare degli intagli. Invece, mano mano che la costruzione sale e il tempo passa e la realtà estetica muta, è il '600 che prende il sopravvento accendendosi fino a sommergere di figurazioni ogni spazio libero. Cornici, trabeazioni, zoccoli, cimase, piedistalli, stemmi, statue, colonne, intercolunni, architravi, rosoni, sono come elementi in ebrezza, ma tuttavia in equilibrio come un cosmo del figurativo; mentre le cariatidi in sembianze umane o animali che reggono la sontuosa balaustra pare che stiano lì come a testimoniare la presenza dell'uomo, chiamato a reggere il peso della chiesa e quei piccoli angeli che ridono punteggiando il davanzale del grande balcone sono immaginati non solo ad illeggiadrirlo, ma ad alleggerirlo".
I "magistri" architetti che progettarono la costruzione della Basilica (1549-1695) furono Giuseppe Zimbalo, il migliore, Gabriele Ricciardi e Cesare Penna senior.
A sinistra di chi guarda, accostato al gran rosone centrale, è scolpito il profilo di Giuseppe Zimbalo, dal naso aquilino-gibboso, caratteristica somatica degli antichi coloni della Grecìa salentina. A destra, verso la sommità, spicca la testina di Gabriele Ricciardi. Manca l'immagine di Cesare Penna, probabilmente... per mancanza d'un interstizio in sì vasta superficie prospettica.
Sull'ordine inferiore del frontespizio si vedono leoni, grifi, figure umane, vasi, spirali di fogliame, frutta, puttini che svolgono l'iscrizione dedicatoria della chiesa in largo nastro.
Il piano inferiore è diviso in cinque zone da colonne e capitelli corinzi figurati. Nel piano mediano si apre Il portale maggiore, rettangolare, munito di tabernacolo con colonne corinzie. Nei contigui interspazi, le due porte minori architravate hanno bombe e scudetti di capricciosa cartella che si solleva dall'inquadratura.
Sulle porte ci sono rosoncini con corona scolpita a profondo squarcio; una balaustra si estende orizzontalmente a dividere l'intera larghezza i due ordini prospettici; la balaustra è sorretta da cariatidi umane, grifi e altre bestie in vigorosa modellatura.
Nello scorso mese di marzo finalmente la facciata della Basilica è stata restituita al godimento dei leccesi e dei turisti.
Sin dagli inizi degli anni '80 il monumento è stato sofferente per restauro conservativo, auspice la direzione della Sovrintendenza al Beni Culturali e Artistici di Puglia. la facciata, interamente ricoperta da reticolo di nailon e da robuste impalcature in acciaio e tavolame, grazie a Dio, si presenta come nella primitiva bellezza.
Ma sembra che diversi leccesi - così gelosi di questo gioiello - non siano rimasti soddisfatti del lavoro svolto in tanti anni. I turisti italiani e stranieri, per il tempo in cui la Basilica è rimasta nascosta, sono tornati nei loro paesi con la bocca amara per non aver avuto la gioia di ammirare, fotografare, filmare tanto tesoro.
Il metodo migliore da seguire per il consolidamento delle strutture e altri problemi tecnici quasi impossibili da risolvere hanno comportato tempi lunghi. Gli esperti si sono trovati innanzi a difficoltà di un certo rilievo e per la strada migliore da imboccare e per la scelta dei materiali. Si sono svolte prove di laboratorio, a Bari e a Roma e ricerche in loco. A tanto difficile compito si è aggiunto quello dei finanziamenti da parte dello Stato.
Chi scrive queste note ha seguito passo passo le attese, le speranze e le vicende che hanno accompagnato il restauro della Basilica. Come di consueto, i soldi dal Ministero dei Beni Culturali sono arrivati con il contagocce: all'inizio sono stati stanziati 500 milioni; a fine luglio 1985, sono stati assegnati altri 500 milioni; nell'86, altri 700; nell'87 Roma si è fatta viva con la penultima tranche di 750 milioni, ed infine, nell'89, un miliardo.
Con questi soldini la pietra leccese è stata spazzolata nelle zone più deteriorate, lavoro che ha comportato anche delle perplessità, specialmente sulle superfici più rovinate. Poi, è seguito il lavaggio con soluzioni detergenti a Ph leggermente alcalino, allo scopo di non ledere la tessitura della roccia ed evitare lo sfaldamento del calcare.
Successivamente sono state consolidate tutte le superfici della parte alta del prospetto con fili di acciaio inox e con bastoncini di acciaio conficcati nella pietra e resi inamovibili da collanti ad alta tenacità e coesione. Questi tendini sono stati sincronicamente saldati da tubuli di due millimetri di diametro disposti trasversalmente onde formare una trama e un ordito a tessitura reticoliforme, possibilmente compatibile con gli spazi da salvare. Senza inficiare le superfici prospettiche, successivamente patinate con resine sintetiche incolori ed a consistenza lapidea. Dall'inizio e di seguito i lavori sono stati affidati a un'équipe di sette donne e tre uomini, specialisti dell'Ist. centrale del Restauro di Roma, che lavoravano a turni discontinui, nel senso che erano presenti a Lecce per una quindicina di giorni e si assentavano per mesi perché impegnati a Firenze, o a Pisa, o altrove. Soltanto nel 1987 hanno lavorato da maggio a fine giugno, ininterrottamente. Fermi del tutto nella stagione estiva per sole battente e per la temperatura che oscillava intorno ai 32°- 35°. Per questi motivi il restauro ha comportato tempi lunghi e snervanti attese da parte delle autorità locali e della cittadinanza.
Per compiti d'ordinaria manovalanza si è dato lavoro a diversi giovani leccesi a contratto trimestrale.
Con la direzione della Sig.ra Gisella Capponi, architetto d'eccezionale competenza, giù funzionario della Sovrintendenza alle Antichità e ai Beni Culturali di Bari, successivamente trasferita nel ruoli dell'Istituto Centrale del Restauro di Roma, i lavori sono andati avanti secondo quanto stabilito dal piano di studi.
Le sette donne e i tre uomini - come api operaie - hanno lavorato da mane a sera, a contatto di gomito, per ricomporre centimetro per centimetro l'armonia delle sculture e l'inconfondibile colore della pietra leccese.
La parte superiore, sovrastante la balconata - a metà prospetto - avrebbe dovuto essere scoperta al godimento del pubblico giù dal 1988, ma per ragioni tecniche sono stati tolti i teloni e le Impalcature soltanto a marzo di quest'anno.
Sono continuati gli altri restauri alla parte sottostante della Basilica a fasce ridotte (con impalcature d'ampiezza più piccola), ma più degradata dalla corrosione.
A tal proprosito la Gazzetta del Mezzogiorno del 9 novembre 1985 informava i leccesi di una denuncia dei Presidente della Sezione Pugliese della Soc. di Storia patria, Prof. Francesco De Robertis, che incaricava il Sostituto Procuratore della Repubblica, dott. Elio Romano, di accertare se il materiale chimico usato per il restauro della facciata fosse dannoso per la conservazione dell'antica pietra leccese. Ciononostante, i lavori proseguirono perché come ebbe a confermare il dott. Mola, Sovrintendente ai monumenti di Puglia, "i restauri non potevano essere messi in discussione".
E' fuori dubbio - ribadiva il dott. Mola - che il processo di consolidamento della pietra leccese ha la garanzia dell'Istituto centrale del Restauro di Roma e, quindi, la garanzia è assolutamente fuori discussione.
Trattasi di una garanzia inattaccabile!
E' altresì interessante segnalare da queste pagine i risultati sperimentali, costati ben 11 miliardi, ottenuti dall'Istituto Nazionale delle Ricerche. A fine settembre 1986, sono state rese pubbliche le conclusioni e le applicazioni pratiche su ampi restauri di edifici in degrado fatte dal presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Prof. Luigi Rossi-Bernardi. Si ètrattato di una ricerca, anzi di una sperimentazione di rilevante spessore scientifico e di notevole utilità.
Per cui, allo stato, le superfici dei monumenti storici e artistici - dopo attenti, seri e necessari restauri - saranno rivestiti da una lamina di vetro di pochi micron, aderente, sì ai piani restaurati, ma provviste di ridottissima intercapedine atta a salvaguardare i pregi artistici da possibili sviluppi di micofite, di saprofiti e dall'azione patogena di bacteryum e bacillus; questi ultimi protozoi dannosissimi, In quanto per il loro metabolismo biochimico secernono ed espellono composti organici a base di carbonio metalloidico, bivalente, che - sostanzialmente - è il principale artefice, il vero imputato della rovina dei monumenti.
L'intercapedine tra la pietra parietale e il sottilissimo strato vitreo assicura in modo adeguato la ventilazione e inibisce il ristagno di vapor d'acqua; ostacola, altresì, la formazione del substrato, quasi sempre di natura organica, di cui I suindicati microorganismi si avvalgono per riprodursi, per svilupparsi e per secernere il carbonio, responsabile di tanti guai. il tutto, grazie alla molteplice azione catalizzatrice di numerosi enzimi.
Proprio conoscendo abbastanza l'azione perniciosa dei carbonio che si sprigiona nell'atmosfera, sottoprodotto inutile di molte industrie, lo scrivente, insieme con altri studiosi e amanti dell'Arte, ha ripetutamente lanciato un allarme alla nostra classe politica onde, con la più urgente determinazione, si evitasse la grave iattura al nostro barocco, alla nostra agricoltura, alla nostra salute, bocciando la costruzione della mega-centrale elettrica alimentata a carbon fossile di Cerano, che procurerà all'ecosistema del Salento danni rilevantissimi e irreparabili per le enormi produzioni di composti organici e inorganici gassosi che inquineranno l'atmosfera.
L'anidride solforosa e l'anidride nitrosa, che gli ambientalisti, impropriamente, chiamano biossido di zolfo e perossido d'azoto, saranno il cancro dei nostri vigneti, dei nostri oliveti, dei nostri fertili campi coltivati. Questi composti, reagendo con il vapor d'acqua dell'aria, in seguito anche alle precipitazioni, daranno luogo a piogge acide con effetto di sfaldamento, di sbriciolamento, di polverizzazione del carbonato di calcio, componente primario della pietra leccese.
Così come stanno le cose, non ci saranno ripari. Si veda quello che è successo al marmi del prospetto della Cattedrale gotica di Colonia, in Germania.

Particolari storici e artistici di Santa Croce
L'interno è a croce latina, a tre navate. Quella centrale è circoscritta da 12 colonne, oltre alle dieci che delimitano il presbiterio. Di tutte le 22, una sola è monolitica, precisamente quella allogata al secondo posto, a destra entrando.
Le colonne sono di calcare conglomerato brecciato, riveniente dalle cave del vicino Comune di Campi Salentina.
I capitelli corinzi, scolpiti in pietra leccese, sono a foggia, uno diverso dall'altro. In ciascun capitello corinzio è in bella mostra incastonata una delle testine dei dodici Apostoli, mentre su quattro delle colonne del presbiterio sono raffigurati i quattro Evangelisti. Sui capitelli aleggiano putti e angioletti tra fogliame di acanto.
Colonne e capitelli a superficie leggermente levigata presentano color latteo, tendente al roseo. Alcuni mostrano Incisa a sbalzo la sigla dell'artefice, dello scalpellino, a volta poco visibile dal basso.
Ornano la navata centrale, fra una colonna e l'altra, 14 candelieri in ferro battuto, a 12 lampade, laccati da uno strato azzurro-malachite. Furono acquistati dal Maestro Antonio d'Andrea, capo-scuola del ferro battuto e del rame a sbalzo. Nella sua bottega impararono l'arte numerosi allievi Che, ancora oggi, operano in tutto il mondo. Uno di questi, Giuseppe Zilli di S. Cesario di Lecce, operò a Lizzanello dal 1954 al 1960, sino a quando nel gennaio del 1961 emigrò In Inghilterra ove - con il suo estro e con il suo intelligente lavoro - onora il suo maestro e il suo Salento.
Nell'accennare l'argomento del ferro battuto, artigianato tipico di questo estremo lembo d'Italia, ci piace ricordare il prof. d'Andrea, scomparso nel pieno della sua attività il 10 ottobre del 1955, con Il profilo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel decennale della sua morte: "Con la sua esile e nervosa figura, la faccia scavato cui davano un piglio vivace gli occhi pungenti e il romantico pizzetto, ci lasciava un'eredità che, ancor oggi, non ha finito di dar lustro a Lecce.
I ferri battuti di d'Andrea stanno a significare il senso di un artigianato elevato a dignità d'arte con un gusto e una finezza nativi ed insieme sorretti e corroborati da una cultura solida e aperta, non limitata al solo ambito figurativo. Egli ebbe l'intuito di cogliere il segreto del barocco leccese, trasferendolo dalla tenera e fragile pietra delle nostre cave al metallo: nella grazia stilizzata del suoi ferri-malachite, delle lampade, delle grate, delle specchiere, degli sbalzi, traduceva con una fantasia trasfiguratrice la ricchissima e incredibile vegetazione della facciata di Santa Croce, del palazzo del Seminario e di tanti mille angoli della Lecce barocca, che non finiscono di sbalordire con le sue meraviglie il turista che ancora oggi visita questa città piena di grazia e di colore. Sotto le sue mani il metallo perdeva la marziale durezza, sembrava naturalmente trasformarsi in aerei steli e rami e volute, sui quali leggiadri si posavano uccellini pronti a spiccare il volo.
Riviveva con Antonio d'Andrea l'incanto raffinato e prezioso del rococò, che aveva disegnato le sue orme fascinose sulle dorate pietre della nostra città. Sicuramente, l'Artista - o meglio - l'Artefice è l'aspetto più cospicuo della personalità di Antonio d'Andrea, ma non l'unico.
Per molti anni la sua fumosa e rumorosa officina fu il ritrovo naturale della parte più viva e aperta della cultura leccese. Durante gli anni del dopoguerra, dal 1945, nell'angusto studio annesso, ingombro di "pezzi" già terminati, di rotoli di disegni, di libri, di quadri, di fiori, si davano convegno fanti' amici ed estimatori della cultura leccese, della cultura nazionale e internazionale".
Nelle navate laterali della Basilica di S. Croce sono sistemati altari barocchi impreziositi lateralmente da colonne tortili con intarsi floreali e lamine fogliari. Di questi altari minori, alcuni sono rivenienti da chiese sconsacrate o distrutte, altri da edicole che nel nostro Sud s'incontrano lungo le strade.
Ogni altare è provvisto di quadri - olio su tela di pittori salentini, quali Oronzo Tiso, Gianbattista lama, Gianserio Strafella.
A sinistra dell'abside c'è l'altare di S. Francesco da Paola, costruito nel 1614-1615 dalla munificenza del patrizio leccese barone Cicala. Si tratta di un capolavoro merlettato d'eccezionale bellezza. Le 12 formelle, sei per ogni lato dell'altare, ricordano la vita e i miracoli del Santo. Sono scolpite da Francesco Antonio Zimbalo. Ogni formella in un sol masso esaedro è incastonata nella parete. E' in pietra bianchissima.
I dodici candelieri - in bronzo dorato - che arricchiscono l'altare di S. Francesco da Paola sono d'ignoto del '700 napoletano.
A destra dell'abside si trova l'altare che custodisce il S.S. Sacramento. Anche qui s'ammira barocco raffinato nelle colonne tortili.
Il colore della pietra tende al marrone, appena appena dorato; è - certamente - diverso da quello bianchissimo di S. Francesco da Paola. Probabilmente quest'altare ha una costituzione chimica più ricca di sali ferrosi - monovalenti. L'altare è provvisto di una tela del XVI sec. Rappresenta la Trinità. Olio su legno, è certamente un pezzo di notevole pregio di Gianserio Strafella da Copertino.
A entrambi gli altari, a destra e a sinistra dell'abside di S. Croce, nei pressi del primo gradino, sono collocate lampade di ferro battuto di allievi della scuola del Maestro Antonio d'Andrea. Le lampade dell'altare del Santissimo Sacramento sono dipinte di colore caratteristico azzurrite-malachite. I lavori in ferro battuto, con il trascorrere del tempo, se trascurati, si ossidano e si ricoprono d'una leggera crosta di ruggine.
Ritorniamo a dare uno sguardo all'interno della Basilica di S. Croce. L'abside, amplissima, a molti lobi, con volta a costole, ha sullo sfondo sei manofore, delle quali tre in basso e le altre tre alla sommità, con grate in ferro battuto a merletto. Al pari delle basiliche paleocristiane, l'abside è a Oriente.
L'altare policromo (della stessa fattura dei numerosissimi altari settecenteschi delle chiese e dei tempietti patrizi di Napoli) è riveniente dalla chiesa di S. Nicolò e Cataldo, descritta all'inizio d'i questa ricerca. L'altare, quello che adornava l'abside sin dalla consacrazione di Santa Croce, fu traslato e allogato a sinistra del presbiterio della Cattedrale di Lecce e dedicato alla Immacolata Concezione, auspice il vescovo Pappacoda, illustre mecenate della Diocesi. Si ricordano tra queste righe il corredo in argento filigranato delle palme e dei candelieri che adornano il maggiore altare nel periodo delle feste patronali (15 agosto - 30 agosto) e la superba balaustra in marmi policromi che delimita un segmento che parte dall'altare dell'immacolata, lambisce il presbiterio e s'inoltra sino all'altare del S. Patrono Oronzo, martire e primo vescovo della città. L'altare della Madonna Immacolata, di inestimabile valore storico e artistico, policromo per inclusioni di agate, lapislazzuli, malachite, èincrostato da bronzi dorati certamente degli albori del '600. La statua della Vergine, di legno policromo della fine del sec. XVII, è dello scultore partenopeo Nicola Fumo. E' molto bella.
Alla sommità, non si può fare a meno di godere in un ovale il quadro - olio su tela - del sacerdote Oronzo Tiso, che, canonico della Cattedrale, onorò con i suoi capolavori il Salento, affidando i suoi dipinti d'arte sacro a molte chiese della provincia di Terra d'Otranto.
La Basilica, per 70 anni, regnanti Ferdinando IV, Francesco I e Ferdinando Il di Borbone, rimase chiusa al culto e destinata a magazzino di derrate dell'esercito delle Due Sicilie. Dopo quel periodo buio, fu riaperta.
Nel 1953 fu nuovamente chiusa per sottoporla a straordinari audaci restauri, ultimati nel 1956 in vista dell'apertura dei 15° Congresso Eucaristico Nazionale, indetto dalla S. Sede e organizzato dall'indomito Vescovo Mons. Francesco Minerva.
In quella occasione, Francesco Minerva sempre attento e instancabile protagonista dello sviluppo della sua Diocesi - fece costruire un ostensorio in oro e argento cesellato, di straordinaria fattura, da argentieri napoletani. L'ostensorio si conserva nel tesoro della Cattedrale, ove sono custoditi pezzi d'incommensurabile valore storico e artistico che poche Diocesi possiedono.

Palazzo dei Celestini
Si tratta di una costruzione a due piani che si allinea al prospetto della Basilica di S. Croce. I disegni dell'intero complesso sono di Giuseppe Zimbalo. La fascia inferiore, probabilmente, lavorata sotto la direzione dello stesso architetto-disegnatore. La seconda ècertamente dell'allievo Giuseppe Cino.
La ricca decorazione delle finestre e delle piccole logge e l'intera facciata, dorata dal tempo, sono di una bellezza senza misura!
Il disegno è fastoso, solenne, bello come una tovaglia tessuta al tombolo; è tanto bella da frastornare! L'occhio del turista ne rimane estasiato.
Il monastero dei Celestini, quasi dello stesso stile del palazzo del Seminario (sito nel "cortile" della Cattedrale, oggi piazza Duomo o meglio "Città mariana"), fu sede principesca dei frati che ne fecero un agone di studi storici, teologici e filosofici. Dotato di vasti ambienti affrescati (molti capolavori a fresco sono oggi scomparsi), ha un chiostro (progettista il Riccardi), circoscritto da 64 archi sostenuti da colonne con capitelli figurati, alcuni dei quali siglati da monogrammi da ciascuno degli scalpellini che lavorarono in questo complesso settecentesco.
I monaci furono anche i proprietari - coltivatori di un ampio giardino, a levante del monastero. Attualmente il giardino - di proprietà dei Comune - è Villa comunale e luogo di delizia e di riposo dei leccesi. Ha un'estensione di 34.200 metri quadrati. Ben curato nel suo aspetto naturalistico potrebbe come tale considerarsi un "Orto botanico" in miniatura), è ricco di specie interessanti, come le Gimnosperme e Angiosperme, che segnaliamo -seguendo una "sistematica" dallo scrivente rilevata da sicure caratteristiche botaniche - per la comodità degli iscritti alla nostra facoltà di Scienze biologiche. Si tratta di piante utili, interessanti per approfondimenti teorici e pratici di fitologia, fitobiologia, fitopatologia ed entomologia. Sono in rigoglio vegetativo i generi e le specie delle seguenti Cormofite: Pinus silvestris, Pinus cembra, Pinus strobus, Pinus maritima, Pinus nigra, Pinus halepensis, Araucaria brasiliensis, Cupressus sempervirens, Juniperus virginiana, Thuya occidentalis, Abies pectinata, Abies argentea, Cedrus Libani, Cedrus Deodara, Cedrus Atlantica, Ampelopsis quinquefolia, Ampelocissus repens, Platanus orientalis, Magnolia grandiflora, Ilex agrifolium, Alnus glutinosa, Acer pseudo-platanus, Acer campestre, Quercus ilex (Leccio), Quercus cerris, Quercus pedunculata, Prunus Laurocerasus, Buxus sempervirens, Evonimus japonicus, Ligustrum ovalifolium, Ligustrum vulgare, Ligustrum japonicus, Eucaljptus globosus, Eucaljptus glabra, Laurus nobilis, Acacia Farnesiana, Acacia sphaerocephala, Albrizzia odoratissima, Quassia amara, Salix repens, Salix babilonica, Populus nigra, Ilex acquifolium, Populus canadensis, Thilja platyphjlla; Thilia argentea, Cityus Laburnum, Ulmus campestris, Morus alba, Cercis siliquastrum, Robinia pseudo-acacia, Paulownia imperiali, Siringa vulgaris, Fraxinus excelsior, Fraxinus ornus, Agave americana, Iris germanica, Iris fiorentina, Iris alba, Citrus Bigaradia, Begonia discolor, Begonia Rex, Begonia vitifolia, Crataegus oxyacantha, Passiflora coerulea, Capperis spinosa, Yucca aloefolia, Yucca minor, Ficus elastica, Ficus nana, Nerium oleander, Phoenix dactyliphera, Chamaerops humilis, Waschingtonia filifera, Tackycarpus excelsus, Rosmarinus officinalis, Lonicera implexa (Caprifoglio), Nynphaea alba, Salvinia matans, Cyperus papirus, Schinus molle (pepe selvatico), Sophora japonica, Taxus baccata, Azalea indica, Musa paradisiaca (banano), Bambusa gracilis (bambù), Aloe.
Oltre a molte specie di Rosacee, Composite, Asteracee, ed alcune varietà di Bougainvillee, di Ibiscus e siepi di Phyttosporus, di Buxus e di Thuje.

Terre di mare

La "penisola", con circa 215 chilometri di spiagge, comprende le province di Lecce, Brindisi e Taranto, ma i posti più incantevoli, le marine più affascinanti, incontaminate, si trovano nella provincia di Lecce: da Torre Chianca, S. Foca Torre Dell'Orso, Torre S. Andrea, Alimini, Otranto, Santo Moria di Leuca sino a Porto Cesareo, sullo Ionio.
La costa si prolunga per chilometri in morbide, luminose falcature, in un tripudio di colori che costituiscono la particolare caratteristica di questo lembo di Puglia. Qui il regno dell'ulivo, che signoreggia maestoso e gigantesco, con tronchi possenti, con chiome folte dal fogliame d'argento. Dove terminano gli ulivi, trionfano fitte spalliere di fico d'India o capricciosi ciuffi di agave, che levano alti nel sole iperbolici grappoli fiorali. E dappertutto la splendida manifestazione delle spontanee fiorite di taraxum, di ginestre, di eriche, di ruta graveolens. Tra terra e mare, morbide spiagge solitarie e scogli antichi. Le pareti di roccia rompono qua e la guglie e pinnacoli, assumendo una colorazione varia e intensa che dal bianco abbagliante sfuma nell'ocra. Nella roccia spiccano mazzettini spontanei di graminacee, di crocifere, di composite e astoracee.
Al tramonto gli scogli fiammeggiano: è il ripetersi del noto fenomeno dolomitico che - qui - diviene apoteosi, perché il mare vi partecipa tingendosi di morbidi riflessi guizzanti sul blu delle acque, che diviene sempre più denso e profondo con il calar del sole.
Le gazze ladre, i caratteristici uccelli neri, moculati di bianco, abitatori di queste rupi, svolazzano intorno agli anfratti... si scambiano gli ultimi richiami in attesa delle ombre della sera.
Qui lo sguardo spazio incantato e coglie - in fantastica carrellata - gli innumerevoli aspetti e le infinite sfumature di un panorama da sogno!
Il lento ondulato degradare delle "serre" - ultime propaggini delle Murge - verso il mare, il verde intenso della vegetazione spontanea, le vaste spiagge di sabbia cinerea o appena bianco, le scogliere lavorate e corrose dalla forza del mare, venate da mille e mille sfumature di grigi, di bruni, di rosa e di viola danno vita ad una perenne fantasmagoria di ombre, di luci e di colori.
Spesso s'incontrano giganteschi baluardi di roccia che si protendono nel vuoto come enormi cetacei. li mare d'un azzurro-zaffiro intensissimo, il fondale è profondo. L'acqua incontaminata lascia intravvedere il fondo ricco di flora bizzarra e multicolore, mormora perennemente, penetrando negli anfratti, e riflette sugli scogli e sulle pareti di roccia un interrotto e meraviglioso gioco di luci.
L'aria stessa, con quel gusto salmastro portato dalla brezza, richiama un naturale gemellaggio con l'acqua del mare.

Scolpito nella pietra

Le sculture barocche che a profusione si ammirano a Lecce sono incise su due tipi di rocce calcaree. Ottima è quella che si estrae dalle cave di Cursi, un paesetto nel Basso Salento, dove sono alloggiati giacimenti dai quali si estrae da secoli la "pietra leccese"; appena tagliata si presenta tenera, umida, tale da potersi modellare con poca fatica. Scolpita e posta in opera, con il trascorrere del tempo si consolida.
Il carbonato di calcio e i sali magnesiaci e potassici che ne costituiscono la struttura chimica fitologica, a contatto con l'anidride carbonica dell'atmosfera, si trasformano in masso tenace compatto, impossibile a sfaldarsi. Non le piogge scroscianti rapide-temporalesche, ma quelle sottili, persistenti, rappresentano il nemico implacabile della pietra leccese, specialmente se la pietra presento un alto tasso di soli di magnesio.
Gli edifici e i monumenti, a secondo del loro orientamento rispetto al sole e ai venti - nel corso dei secoli - si coprono d'un sottile strato, quasi un'epidermide giallo-oro; questa patina, simile all'epicarpo di una prugno, rende più belli palazzi, chiese, monumenti.
La pietra leccese, priva di coesione e, quindi, ricca di sali di magnesio, è vittima di un processo di corrosione da parte del venti salsedinosi che la insidiano e dallo Ionio e dall'Adriatico. Per tal motivo, di frequente si vedono strutture barocche, specie all'altezza del piano inferiore degli edifici, deteriorate, sfigurate. Contro questo malanno non esiste rimedio. L'altro tipo di pietra impiegato per le sculture barocche è il "mazzaro", roccia, calcarea migliore della "pietra leccese" perché compatto, resistentissima all'azione eolica.
Oggi, purtroppo, questi capolavori non si costruiscono per mancanza di maestranze. In tutto il Salento scalpellini di alto rango che hanno bottega d'arte si contano sulle dita di una mano, per cui i restauri si rendono difficili e, una volta commissionati, richiedono lunghissimi tempi per portarli a termine. Basti pensare che nel '600, per modellare, scolpire e rifinire un capitello corinzio della mole di uno di quelli dell'apice delle colonne della Basilica di S. Croce occorrevano 100-150 giornate lavorative di uno solo operaio alle dipendenze di un architetto. Ogni scalpellino aveva l'incarico di lavorare un pezzo. Si può dedurre che per tanto barocco - oggi patrimonio di tutti - a quei tempi esistevano migliaia di addetti ai lavori, remunerati con salari irrisori, talvolta pagati con uno scodella di legumi o con un sacchetto di farina di frumento.
Le antiche botteghe oggi sono scomparse, per mancanza di maestri e di discepoli-apprendisti, nonostante gli incentivi propinati -a piene mani - dalla legge sull'occupazione giovanile e gli aiuti disposti per le piccole imprese artigiane.
Con una stretta al cuore si ricorda quando nel 1979 il Comune di Lecce si accinse ci restaurare il leone di S. Marco adagiato sulla lunetta del portale del tempietto rinascimentale, in Piazza S. Oronzo. Lo stemma della Serenissima presentava il leone con il muso stroncato e l'aureola mancante, a causa della corrosione degli agenti atmosferici o - forse - per otto di teppismo. A restauro ultimato ne venne fuori un pasticcio di cattivo gusto, per incompetenza di chi ebbe sì delicato incarico e... per disinteresse degli Amministratori comunali di quegli anni.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000