§ Favolerie

Il copista




Antonio Errico



... tutti ripetevano quello che lui aveva raccontato, ognuno ci metteva la sua parte di memoria e le storie crescevano diventavano vive

Ma che distanza tra la vita e l'apparenza che le fa specchio si distende, Arionne? Orizzonte spento o baratro o forse somma di sommità vertiginose, magma di parole oscure, morte ad anni ragione, ad ogni tempo che verrà. Per altri. Per altri, sempre, Arionne.
E' vuota, sai?, guardaci dentro, è vuota. Per che ragione perdi il sonno ancora. Spegni il lume. Ormai la notte è alta.
Lascia questo scrittoio, guarda il cielo. Respira piano, piano.
E' un velo di seta il cielo questa notte.
Arrotola adesso; che sia a questo o a un altro rigo non fa differenza.
Lei non ha fiato, sai, non vede, è solo un'immagine, una lettera.
Che cosa cerchi, dunque, cosa insegui, quale anima o quale sentimento speri di trovare. E dietro quale desiderio muori, Arionne, o che malia improvvisa ti dissenna e ti fa mendico a questa età?
Guardalo il cielo, Arionne, è lì la vita, è solo dentro il cielo la scrittura. L'altra è niente, èfigura silenziosa, rovina sontuosa, ma rovina.
Copia, non leggere più adesso, copia.
Nessuno di questi segni ti appartiene. Non aspettarti nulla, non sognare sopra questa scrittura, non sognarla, sogna un sogno diverso, Arionne; fuggi dalle parole, non tornare nei luoghi attraversati, non sognarli, non è il tuo viaggio questo viaggio.
Volevo scrivere e invece fui copista. Ombra nascosta dietro l'ombra d'altri, custode di vite mai esistite.
Quanto hai vissuto, Arionne, e quando, e dove ritroveresti ora, se volessi, la cenere di un fuoco dentro il petto, una meraviglia, la tenerezza, l'ansia di un amore che sia davvero tuo?
Le storie degli altri, le loro voglie, i sogni, le stagioni, la voce, gli dei. Ogni cosa fu sempre cosa d'altri.
Copia, Arionne, copia, non pensarci. Una lettera dopo l'altra, una riga dopo l'altra. Così la vita sprofonda ad ogni riga.
Da bambino mi dissero farai l'acquaiolo, perché sapevo gridare, o il venditore di spezie o farai l'anforaio.
Mia madre tesseva inchiodata al telaio e intrecciava pensieri ai fili di lino, e ogni tanto un sospiro screziava il silenzio o un tonfo di secchio nel pozzo, una voce nel mattino deserto, un grido al cammello.
Di mio padre non ricordo più nulla, se non le sue spalle che si allontanavano con le carovane. Finirai con le carovane, diceva mia madre.
Un sospiro di nuovo le usciva dagli occhi, affannoso.
Su quel sospiro peso la mia vita, quella di cui ho memoria, finché resta. Perché il tempo smemora, raggela, secca i rami, vela i volti, i gesti, copre le tracce, sradica i pensieri, e i pendii si fanno sempre più scoscesi. E brucia, il tempo, crepitando, le albe, lascia ruggine e indugi, dubbi, croci, silenzi interminabili, le voci stanche, il delirio chiuso tra i muri che alzi intorno a te ogni giorno.
Ogni giorno si alzava il vento in certi mesi.
Ogni giorno la tenda si accasciava. Qualcosa restava sepolto nella sabbia, per sempre nella sabbia. Si perdeva.
Foglia di luna il vento viene, foglia di luna il vento viene, nascondi il tuo cuore perché non o veda o foglia di luna se lo porterò.
Il cuore si è perduto dopo, dentro altro vento.
Acquaiolo sarai perché sai gridare, mi dicevano.
Il vecchio era muto. Forse anche mio padre era muto.
Non ricordo di aver mai sentito una sola parola da lui.
Ma il vecchio tracciava dei segni sui muri, sulla sabbia, sulle foglie di palma.
Io copiavo quei segni. Scrivevo. E ogni segno mi sembrava che fosse cento parole. Per questo, pensavo, il vecchio non parla.
Non so se mio padre conoscesse quei segni.
Se sei carovaniere segui carovane. Se sai scrivere con una carovana che non ritorna devi andare. Vai.
Così disse mia madre. Tramontava. Quando mi baciò la fronte tramontava.
Sei solo adesso, Arionne. Badio, Tieso, Uberto, Andreas. dormono.
Qui il silenzio a quest'ora è più silenzio: è quasi morte.
Solo un brivido d'ansia mi consola.
Copia, non pensarci più, sciogli l'inchiostro. Fai correre la mano, non fermarti. Non confondere la tua vita con i nomi, non chiudere il tuo tempo dentro il loro, il tempo dei nomi è immobile. O è infinito il tempo che hanno i nomi, Arionne?
Quanti anni da quel tramonto son passati tra i fantasmi di queste pergamene? E io son stato re o servo o sono fantasma anch'io, un dio impazzito, randagio tra i sepolcri di parole, che cerca una parola, disperata che sia, ma una parola che non sia esangue, che non sia soltanto l'abbaglio di un istante, la magia di un suono, di un richiamo.
Io volevo scrivere.
Chi ha sentito mai la storia di Yedia che se ne andò una notte nella notte cercando un fiume nel deserto?
Quella storia io volevo scrivere, quella storia e poi cento storie ancora, di città che non ho visto, di misteri, di giorni vani di vanità e di gloria, del respiro dei morti che vola sulla luna, dei segni del vecchio sepolti dalla sabbia, di tutti i volti sepolti dalla sabbia, delle parole perdute nella sabbia.
Questo volevo scrivere.
Tu volevi incantare, Arionne, incantarti, dare il tuo nome ad un istante eterno, passare con la tua vita dentro mille vite, essere senza età. Questo volevi. Ma non a chi scrive è concesso, Arionne, il potere di un dio.
Scrivere, tu lo sai, è appena un gioco, un chiarore improvviso che si accende all'oscuro di ogni sapienza. E' luce dipinta la scrittura, è impudica mimesi, sagoma, carcassa di estasi, di anni, di respiri; è il rovescio della vita.
Io volevo scrivere. Non così, però, non così, come demone stanco, ragno imprigionato da ragnatele che non ha tessuto di leggende e di rotte, di sirene, e mai una voce che riconoscessi tra tante voci, mai.
Darei qualsiasi cosa questa notte, per ritrovare mia madre in un frammento.
Sei solo Arionne. Uberto, Andreas, Tieso, dormono ancora.
Adesso è ora. Nulla di diverso da quello che farai potresti fare in questa vigilia d'alba.
Se vuoi scrivere non devi essere fedele a niente ed a nessuno: devi tradire, ingannare chiunque, fino ai limiti di tutti i possibili inganni, oltre ogni vergogna, senza alcun rispetto, ingannare te stesso fino all'ebbrezza, fino allo spavento, al disprezzo di te, devi essere ladro, frugare. devastare, rivoltare le frasi, tornare a frugare come gatto o sonnambulo.
Perfido devi essere, Arionne, vorace, rapace, blasfemo e divino, maschera orrenda, stupenda farfalla, serpe e gabbiano.
E' ora. Quando si accorgeranno tu non ci sarai. Vi chiedo perdono. Chiedo perdono a voi che leggerete, a te che hai scritto, se hai mai scritto, a te che dentro il nome cieco nascondi mille nomi. Saremo ciechi tutti; saremo tutti un nome misterioso.
Adesso Arionne sei filo d'inchiostro. Spezza le parole, scrivi tra le righe, annoda le memorie e i destini, cancella i nomi o mutali e confondi la tua esistenza all'esistenza di tutte le sembianze che ti si affollano negli occhi.
E se non hai esistenza chiedine un soffio a loro e vivi fino a quando può durare questo sortilegio.
Tu sai come si fa, tu sai raggirare anche i ritmi più scaltri.
Nessuno quanto te sa attraversare i labirinti delle scritture. Sei tarma Arionne. Corrodi come tarma.
Devi scrivere. Devo scrivere. Come potrebbero fermarti i segni morti di queste pergamene, ora che sei giunto a questo buio o a questa luce che sfiamma, che sfiora l'olimpo, che sfonda ogni tempo, ogni spazio e scintilla come stella mai vista e accende visioni?
Devi scrivere.
Gli uomini non hanno memoria: ricordati questo: non hanno memoria. Puoi stordirli con nulla. basta solo che canti canzoni di gesta, non si chiederanno se quello che canti è davvero accaduto.
E allora tu canto, Arionne, che cosa t'importa, però mentre canti fai scivolare un pensiero perché loro sappiano che tra le parole c'è un pensiero ch'è tuo, tuo soltanto.
Racconta. Che non ti sfugga niente, non cedere al sonno, non ora, non ora. Inventa quel che vuoi, soffia nell'eco delle parole che t'arrivano da un'eco, scompiglia quelle altre che ti sembrano legate ad una verità che non conosci.
La verità è solo la tua vita. Nient'altro Arionne, in questa notte.
Racconta Arionne, e tutti penseranno che un dio concesse a te il dono del racconto. Tu sai che non è vero.
Ché un delirio mi spinge a raccontare, un sogno ad occhi aperti, uno stupore che non ho saputo vincere.
Ecco tua madre, eccola, ritorna, e tu ritorni a lei. Non Anticlea si chiamava, ma i nomi che senso hanno mai se sono lontananze. lo voglio che essi siano apparizioni.
Adesso scrivo, madre, adesso vivo. Per questo ti ho potuta ritrovare. Per questo vivo e tu rivivi. E il tempo scorre tutto dentro la scrittura che rubo perché sia per sempre mia.
Ma la tua vita non l'ho cancellata, Odisseo. Ho scritto la mia accanto alla tua vita.
Cos'altro hai da raccontarmi ancora, che cosa ti posso raccontare ora che siamo, io e te, una sola fantasia che turbina?
Slegami da questi nodi; io dai tuoi ti ho liberato.
Un fiume di memoria ci travolge, a una memoria forse approderemo, e saremo un'altra volta immagine scolpita, eroi dei nulla persi nelle storie che i secoli aggrovigliano.
Non hanno memoria gli uomini, Odisseo.
Hanno solo destini da salvare scavando tra i destini sconosciuti che le pergamene svelano.
Così scrivono, e il gioco ricomincia e il racconto si prende un'altra vita, ne fa una frase, un cumulo di segni, quel canto di sirene che conosci, che mi avvinse a un rotolo.
Vi lascio il sacrilegio che ho compiuto.
Il mattino sta crescendo. C'è una carovana che parte a quest'ora.
C'è una carovana che parte nell'alba, una carovana nell'alba, tu scrivi, segui carovane se scrivi, nell'alba, carovane che partono, Arionne, se scrivi, dimentica Pergamo, le storie, il racconto, i suoi giri intorno alla vita, il racconto che non hai cominciato ma che adesso finisci nell'alba di Pergamo.
(Per Badio Tieso Uberto Andreas: c'è l'ora dei lunghi racconti e c'è l'ora del sonno, ma se vuoi che ancora racconti io non posso negartelo, Alcinoo. Riprendete da qui.)


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