§ L'inedito

Dieci anni in rivista




Maurizio Nocera, Antonio Verri



I 123 corrispondenti

mario agrimi, michela ambrogetti, martin andrade, susana degoy, lino angiuli, georges astalos, biagio balistreri, vittorio bàlsebre, ferenc baranyi, massimo barbaro,bianca di giovanni, giorgio bàrberi squarotti, giovanni bernardini, filippo bettini, piero bigongiari, rino bizzarro, ennio bonea, bruno brancher, e.a. buongiorno, caffè greco, antonio verri, domenico cara, nicola carducci, luciano caruso, hernán castellano girón, anna maria cenerini, rolando certa,fernando cezzi, gaetano chiappini, emilio coco, cosimo l. colazzo, salvatore colazzo,lucio conversano, maria corti, antonino cremona, vittorino curci, gianni custodero,rolando d'alonzo, sergio d'amaro, ercole ugo d'andrea, claude darbellay, aldo de jaco,francisco delgado, michele dell'aquila, pino dentico, luciano de rosa, cesare de santis, francesco saverio dodaro, antonio donno,rina durante, antonio errico, vittore fiore, luigi fontanella, antonio frugis, john fuller, v.s. gaudio, franco gelli, andrea genovese, daniele giancane, anselmo gonçalves,massimo grillandi, annarita guaitoli, antonio iaccarino, flavio ineschi, giovanni invitto, lucette e roger-louis junod, piero lacaita, franco lala, franco latino, aurelio leo, dino levante, horia liman, roberto linzaIone, mario lunetta, romano luperini, oreste macrì, leonardo mancino, lionello mandorino, massimo manera, piero manni, angelo manuali, domenico manzella, mario marti, antonio massari, vito maurogiovanni, benito mazzi, enzo miglietta, billy milIs, marie anne mollaret, raffaele nigro, knut odegard, anatolie panis, roberta pappadà, graziana pentich, michele perfetti, lamberto pignotti, felice piemontese, michele pierri, gino pisanò, fabio pusterla, earline m. reid, enzo rossi-ròiss, aurore sagot-ortega, gino santoro, gigi scorrano, cosma siani, francesco spada, francesco spera, sergio sperti, corrado stajano, lino paolo suppressa, fabio tolledi, antonio toma, salvatore toma, michele tondo, gianni toti, abele vadacca, kostas valetas, donato valli, aldo vallone, walter vergallo, carlo villa, colomba voronca.


MICHELE TONDO

Da Bari (lettera ms., carta intestata: Università degli Studi) 7 ottobre 1986

Carissimo Verri,
mi scuso se lo faccio con enorme ritardo; non per questo sono meno sentiti i miei ringraziamenti per avermi inviato il numero del "Pensionante" dedicato a Vittorio Pagano.
Me ne aveva parlato Oreste Macrí, questa estate a Saltino: e io stavo per scriverle per pregarla di mandarmi il volume, quando ho avuto la lieto sorpresa di riceverlo.
L'ho letto, sia pure velocemente, e vi ho trovato alcuni contributi di prim'ordine; oltre alle pagine commosse di amici che hanno rinverdito nella mia memoria tempi che ho vissuto e persone che ho frequentato, a cominciare da Vittorio Pagano.
Ma al di la dell'aspetto affettivo, il volume mi è assai utile per un progetto che da anni mi assilla, trattenuto come sono dal "mistero" che Vittorio ancora è, non solo per l'amico Chiappini.
Vedo che lei lascia il "Pensionante": e Macrí mi ha accennato a qualcosa; lei a sua volta parla di "cultura dell'arroganza", e molto giustamente. Ne so anche io qualcosa. Bisogna avere il coraggio di lavorare con serietà, anche apportati! Un cordialissimo saluto
Michele Tondo
[Non molte e non importanti le difficoltà dell'ultimo Pensionante: c'era addirittura un editore! Ma se il foglio aveva un senso, adesso antologizzavamo un po' troppo ... ]

GIANNI TOTI


Da Roma (lettera datt.) 16.2.1982 (t.p.)

Cari Pensaracenanti,
eccovi un primo saluto dall'amicompagno leccentrico quanto voi (almeno spera alpiù): un "suonetto" da lontano (lontano dai convegni geograficulturali). Se vorrete altre cose, scrivetemi e obbedirò all'invito. Magari datemi qualche cenno di occorrenze e vaghezze più precise di quelle, velocissime, leccedenti... Fatemi sapere qualcosa di quanto fate e dite e scrivete e pensate e pensionate... Qui, a Roma, sto per far uscire, dopo "Carte Segrete", una nuova rivista: CARTE SCOPERTE, e potreste già farci un pensierino (collaborativo e abbonamentistico, si capisce - si capisce? si carpisce?).
Un abbraccio a tutti i neo-amicompagni, intanto, dal vostro
giannitoti


Da Roma (lettera datt., pubblicata sul foglio giallo del "Pensionante" luglio-settembre 1983, col titolo: "C'è da rimettere tutto in discussione")

Caro Verri,
un estravvento posso mandarti, io, anche se interventuale professionista dilettante e spesso utile solo a una pacificazione interiore e provvisoria. Avevo letto la lettera di Nino Palumbo, e il suo sfogo (con la sua foga-fuga e l's sottrattivo-intensivo) patetico (o poetico), esasperato e triste e tristo e trito, mi aveva amareggiato molto, per l'affetto che porto da decenni allo scontroso poeta di San Michele di Pagana, allo sperimentatore di "Prove" troppo inutilmente provate. Ma ora, devo confessare, a te e agli altri saraceni dejacolanti, che le due ultime lettere - anch'esse postumaci - mi hanno amareggiato ancora di più. Per la sufficienza e l'insufficienza insieme, per il fin de non recevoir il senso di quella esasperazione; lo spirito, non la lettera della "lettera". Da tutte le parti, sottosopralineo, (e temo ora anche dalla mia parte). Perché falsa può essere la pietà per i morti, e falsa anche la saggezza che avrebbe consigliato il riposo tombale dei cassetto a quello (s)fogo-(s)fuga. E falsa può essere ancora la mia reprimenda a De Jaco e a Verri insieme (ma peggiore l'implicita e complice autocritica, che perciò non vi infliggerà).
Bisognava e bisogna ancora tradurre quell'accidia metasindacale, quella rinuncia, quella uscita delusione di cari morti come Nino Palumbo e di cari vivi come Felice Piemontese, quella furia iconoclastica che testimonia tuttora di una passione più feroce di quella, senza ferus-ox e improbabile, quanti sembrano non patire la delusione, storica ormai, della sindacazione letteraria, o se la gestiscono con il "disincanto" di chi si lascia andare a un tenue burocratico attivismo. Insomma capire e capirci: non sarebbe meglio che scriverci lettere fra sordi - ciechi? Sì, ma come fare? "Che fare"? La questione è sempre la stessa: "due passi avanti e uno indietro"...
Certo, le parenèsi di De Jaco e l'invito alle democratiche assisi non bastano. Ma neppure le corrispondenti degiaculatorie di Verri sulle riunioni non tenute e da nessuno vietabili, sul sindacato d'attacco, sulla scomodità dei contestanti - denunciati - all'orecchio, sui "guizzi" e sulle "promesse di cultura" (come se si potesse promettere - o makarie! - la cultura). Ci vorrebbe (soltanto?) un po' di verità e di coraggio personale, come sempre. Chi non ce l'ha non se lo può dare, lo sappiamo da prima dei "post-donabbondierno". Ma io ne ho trovato poco, intorno a me, anche al Congresso di Napoli, quando denunciavo a tutti (e tutti responsabilizzavo per) il fatto che "vertenze editoriali", e battaglie sindacali in difesa dei diritti dei singoli scrittori nei confronti della controparte non se ne facevano, e non se ne fanno tuttora, se non verbal-epistolarmente, o magari soltanto avvocatescamente (come se il sindacato fosse un avvocato e non "l'associato collettivo all'esercizio della giustizia"). Era già passato un anno da quando avevo comunque "vocato" il Sindacato alla più semplice e normale e istituzionale azione di lotta in difesa dei miei diritti di scrittore violati dall'editore Guanda.
Se un Sindacato non riesce a far rispettare i contratti dei suoi scritti, che cosa "sindaca"? Mi si rispose in giro che erano migliori i miei interventi di quando mi sarei perso nei cieli delle ideologie e nelle più divertenti glossolalie... Ora è passato un altro anno, ormai, e solo qualche letterina è stata aggiunta al carteggio: il sindacato non si è mosso in quanto tale; solo qualche avvocato ha scritto e intimato... Passerà altro tempo, ma a quale scrittore - sindacato interesserò la vertenza di "quel matto di Toti"? Eppure un Sindacato dovrebbe vivere di "solidarietà attiva", non di lettere esasperate ed epistolari di "pensionanti" e "pensionati" della letteratura e della sindacazione: o di questi estravventuali poetotismi, si capisce.
Non mi sto lamentando, bada bene. Sto rispondendo al tuo invito con un escempio (una c in più - un lapsus? - lasciamo?). Nonostante tutti i miei scetticismi, neppure più storicizzabili, resto nel sindacato che, personalmente - come si dice (e qualcuno mi perdoni, se deve e può) - presi l'iniziativa sessantottesca di rimettere in questione contro la gestione bigiarettiana del troppo lungo burocratico dopoguerra perché cambiasse pelle, e sindacato autentico diventasse. E' più forte, in me, lo scetticismo sullo scetticismo. Per questo voglio vedere come va a finire la questione della difesa del mio contratto violato da Guanda, e insisto e non mollo davanti a nessuna inezia (qui mi èsaltata una erre: la rimettiamo?). E così ho contribuito alla firma dell'ultimo accordo sindacale internazionale, questa volta fra il SNS e l'Unione degli Scrittori Ungheresi così come a suo tempo all'accordo con gli scrittori sovietici. Pe' tigna, come ghignava il caporale di Napoleone (ve ne racconterò la storiella un'altra volta); anche se l'iniziativa per trovare un'intesa operativa con gli scrittori ungheresi l'avevo presa io, personalmente, più di dieci anni fa, e solo adesso il "sindacato svilito e istituzionalizzato" di cui parli l'ha ripresa - e spero con risultati migliori di quelli ottenuti finora con gli altri accordi (turismo letterario - giornalistico, chiacchiericcio internazionale ecc).
In sostanza, "la questione del Sindacato degli scrittori italiani" non è così semplice, e riferibile solo a umori da intellettuali che persistono nella loro ine/utteratura, vivi o morti che siano, o nosferali. E' "la questione" comune a tutti i lavoratori specializzati nei linguaggi di tutte le arti (compresi i pittori, dunque, o "artisti visuali", scultori anche; e musicisti e critici di ogni disciplina etc.). Si fondano o no in federazioni o altri organismi "dell'informazione" (l'arte come "informazione", pensate un po'!, la stessa dei poligrafici, dei giornalisti e dei pubblicitari! non l'informazione "estetica" che potrebbe "ridondare" ... ), non riescono a cavare quel maledetto ragno dal suo profondissimo e sicurissimo buco.
Né di De Jaco si tratta, con la sua antica bonomia da bonacce - tempeste decorative d'altri tempi. Né di Antonio Verri o di Nino Palumbo, esasperati e generosi contestatori persino di sé stessi. Né di Gianni Toti "bestion contrario" di professione, e poeteorico irriducibile. Si trotta (altro lapsus) d'altro, come sempre, anche questa volta: di rimettere in discussione tutto, proprio tutto, come il vecchio zio Karlchen di Trier consigliava di fare di tanto in tanto alle svolte epocali. Di far tabula rasa teorico - pratica con metodo e follia, reinterrogarci sui modi di organizzare le "energie creative" ipostatizzate e anche sui "se" più trancianti: se un sindacato debbano avere gli scrittori, e se debba essere di questo tipo la loro associazione, se una sola associazione debbano avere, o molte; e non solo di difesa, ma di attacco produttivo, editoriale magari (ché poi quella è la questione di fondo, della libertà di pubblicazione) e se debbano associarsi tutti coloro che usano penna, pennello e computer e mixer, o quanti invece concordano su teoriche e poetiche per dar battaglia su altri campi, dislocandosi, spostando, depistando l'avversario di classe che tutte le classi e tutte le organizzazioni attraversa - sic et compliciter!
Rimettere in discussione tutto - discorso sul metodo e metodo sul discorso - e poi magari anche tornare alle vecchie forme organizzative, ma con altra consapevolezza, o altro e più maturo scetticismo, "màs alto desencanto y poesia"...
... Quant'ho scritto, mio Antonio! Smetto subito. Hai voluto il mio intervento, ed estravventato mi hai avuto; come prevedibile, del resto. Come sai, io gioco a "carte scoperte" ormai. le "carte segrete" non si scrivono più. Ma scopritele anche voi, le carte. Scoprite le tombe dei cassetti! E che gli zombies del nostro secolo siano costretti alle lucivaghezze delle tabule rase, degli azzeramenti polari di questa svolta epocale in cui non soltanto stanno uscendo dalle cornici - pagine - schermi -schemi - monitors - etc. i quadri - libri - film - forme - immagini - etc., ma anche i militanti dalle forme partito (pur restandovi, o fuorentrandovi o dentruscendone) o dalle sindacazioni spurie, dalle disassociazioni, logisterie - sindachie - organogenie, dalle mahias e dai clann e dal clande...
E noi, scribleri? Quando la scrivanitas scrivanitatum cederà, muraglia di legno (tarlato), e smetteremo (toti noi) di sperimentirci, forse - fors sit!
Intanto un abbraccio dal vostro pensaraceno
Gianni Toti

ABELE VADACCA


Da Calimera (lettera ms.) 25.6.1988

Caro Antonio,
credo proprio che i miei capelli stiano ricrescendo, nulla più mi può ordinare di arrestare la corsa, oggi inaspriti da salsedine, scottati dal sole di giugno ed inariditi dalla polvere dei gentile Calcerino; avevano l'aria di un esotico strumento musicale tra i ricci pietrificati, l'aria compressa che uso quando ho finito di lavorare, per scrollarmi dalla polvere, insidiosa, ruotava, si infiltrava, giocava a velocità vorticosa tra le volute del ricci, tra le ciocche dure, nel tessuto dei miei capelli duri, e così facendo sibili saltanti, simili a note di Colazzo, giungevano nei padiglioni auricolari. Se per un attimo, chiudendo gli occhi, un'armonia d'estasi eterea e cosmica, in un'infinità di creature sonore, immerso in uno scenario da ecatombe... vivere da soli non è un dramma, i principi dello zen son in netta contrapposizione con le paure del Medio Oriente.
"Amare" il proprio corpo (non è narcisismo), vivere credendo nello spazio molecolare, affascinati del nostro movimento nell'atmosfera, ci pone nella pace inquieta che è la condizione di chi per la forma nutre i propri istinti.
Per chi vede e sente la forma non vi è spazio finito, lo scultore ama il creato e il cosmo perché se ne serve demiurgicamente per crearne un altro a sua dimensione. E' il nostro corpo che si muove nell'aria tracciando linee, tangenti, ghirigori, insomma tensioni energetiche che s'investono, si respingono e si attraggono in una sorta di magnetica ricerca di visioni, facciate, e volumi determinati.
Ecco le mani dell'uomo, ammiro e pur odio le montagne, attratto dalla materia che distruggo... un incubo continua. Non c'è pace, se riesco a terminare una scultura, ad esorcizzare il demone che mi ha invaso perché l'ho materializzato con gli occhi di medusa, ecco che altra energia si convoglia, ruota vorticosamente di notte mentre dormo, nello stomaco o poco più su, come un feto nel grembo di una madre stanca, così si agita l'idea. Essa aspetta di essere partotita col sudore, col sangue, con i calli delle mani, col torpore dei muscoli, con i lancinii delle falangi, con il calore delle sùbbie di acciaio temprato, con tutta l'energia del metallo incandescente, con la pazienza del "raku". E la materia, vittima dell'ira, essa assume, assorbe e si muove, man mano che si determina riempie ed emana: i vettori delle forme di Giacometti, per esempio, degli spigoli del sottoscuadri, delle linee epidermiche. Forse un atto sadomasochista che mi porta all'estasi o forse un modo per distruggere e distruggermi in un ultimo amplesso con la materia, insomma un piacere proibito. Mi chiedo spesso la sera, mentre succhio il limone che brucia sulle labbra screpolate e tagliate dalle schegge, mi chiedo come mai ore e ore col martello pneumatico tra le mani non mi provino fisicamente quanto invece un qualsiasi altro movimento compiuto non per la scultura.
Il tempo è un nemico, sia io che il soggetto combattiamo una battaglia il cui arbitro tende ad interrompere; ma egli non è il solo a disturbarmi, odio chi irrompe alle mie spalle pretendendo che stacchi le mani dall'osso... eppure i denti mi lancinano fitte, forse perché mentre lavoro li stringo nervosamente.
Poi un altro piacere, quello d'impolverare, di distruggere diabolicamente, di coprire di polvere, trucioli, rottami, scaglie, schegge e tutto ciò che è residuo, scoria, frattaglia, troiaio di detriti: ci sguazzo come un maiale nella polvere, me ne ricopro il corpo come fanno alcune tribù di guerrieri che per essere un tutt'uno col dramma o con l'evento si dipingono il corpo, si rivestono di abiti naturali, maschere, feticci, foglie, fango, piume: così anch'io mi voglio sentire del colore della materia, e far scomparire il mio debole corpo di carne umana, mutare, una metamorfosi che mi dà forza, che riempie le mie paure, che accresce il carisma della corazza. Il fine è: essere come il riflesso della scultura che stai per fare, essere un suo nemico con la stessa pelle, e sfidarla in una guerra eterna, universale, che ebbe origine qualche tempo fa in una caverna e che forse terminerà nell'apocalisse, quando gli occhi dell'ultimo uomo inghiottito dalla lava vedranno pietrificarsi il cosmo. Ecco tutto, caro Antonio
Abele
[Ormai è Sudpuglia. Esattamente: A. Vadacca, i Colazzo, Sperti provocato ad hoc, qualche altro. Siamo nell'inchiesta. Agguerritissima questa generazione]


Da Morbegno (lettera ms.) 21 ottobre 1988

Il PUNTO BIANCO COMPARE SULLA TELA NERA...
Ave a te scribba,
1250 km sono un bel po' di strada e di tonnellate di acciaio dei binari di un treno che corre verso il freddo, corre dove dominano monti di lavagne, rocce metamorfiche e variopinte, rupi che franano, pietra ollare, slavine, torrenti inquieti meravigliosamente turbinosi, strade selciate, vette alte e tuonanti come ciclopi, laghi mistici, boschi odorosi di funghi porcini, foreste di abeti simili a torri gotiche, dominati da cervi e folletti celtici.
Ancora una volta mi chiedo: dove mi trovo? Dov'è il vento?! Ero nel nuovo studio appena completato, nella calda Kalimera, tante idee, tanti progetti, tanto lavoro ed ancora attività, conferenze, ma ad un tratto alle 13,00 una telefonata da Morbegno (ero ricercato come insegnante e come "genio della lampada" risolutore dei nuovi problemi progettuali per istituire, attivare e consigliare i laboratori e la cattedra di un nuovo Liceo Artistico).
Dopo qualche ora senza sapere come e perché mi trovavo su di un treno carico di emigranti che con le valigie di cartone, legate con la corda, sudati, bassi, tozzi, bruni, seguiti da gruppi di figli svampiti si dirigevano in Svizzera.
Sono trascorsi 20 giorni e mi domando ancora cosa "veramente" mi abbia spinto "veramente" a lasciare il caldo nuvolone salentino e varcare il confine degli ulivi della sacra terra rossa, forse la noia, forse il mistero di terre nuove e diverse come la Valtellina, forse il legno scolpibile che vi è in abbondanza. Non lo so, mille ipotesi irrisolubili, forse il voler aggiungere sale al gesso e cristallo nel crogiuolo, per abbreviare le mie ansie e purificarmi dalle scorie di una vita condotta con troppa comodità, forse.
Ora il mio futuro frammisto come l'immaturo granito del luogo è ridiventato un fuggevole gitano vestito di drappi ricamati e festosi, e portandosi dietro l'orecchino di "Capo Horn" canta col suo vecchio strumento dolci e spiraliche melodie zigane, note che si intrecciano nell'animo, che salgono in alto sino a congiungersi ad esso in mille suoni acuti tessuti come nasse di vimini vivi che tendono la trappola ad un ignaro morbido pesce.
Ora dopo tanti sforzi ho trovato rifugio in un paesino (Talamona) di un mondo di confine di una cultura più svizzera che italiana. Dappertutto tetti di lastre, mucche, sorrisi di vecchie montanare che credevo estinti già da un secolo, rigagnolo d'acqua, ruscelli e corsi fragorosi d'acqua, ed ancora acqua nelle tante fontane di pietra, negli abbeveratoi, acqua e canti di massaie nei lavatoi di contrada, acqua che dà rumore, energia, e riempie valli, colli, rupi impervie dove nidificano i falchi, boschi di bocche e di castagni. Anche i culti sono diversi, un gusto sinistro mescolato ad antiche credenze di locanda viennese, di racconti popolari macabri... E questa strana tendenza ad impiccarsi che lascia seminato il paesino di angoli oscuri e tristi episodi di qualcuno che ha deciso...
Una valle pervaso da un alone di mistero, una compagine raccapricciante che avvolge tutto e tutti, dentro e fuori, come il freddo che annuncia l'inverno.
Io sono ai confini del paesino, il mio collega che all'inizio aveva deciso di condividere la casa, ha deciso di andarsene via e ha trovato a Morbegno, al centro, forse per paura. La caso infatti arredata di mobili cigolanti e vecchi, di strani oggetti religiosi e tetri, è impregnata anch'essa di una storia di alcuni anni fa, una brutta storia, e da allora, a parte i parenti della vittima, io sono il primo inquilino. Intanto con occhi di quarzo tagliente mi aggiro tra gli uomini e le cose scrutando per le strade strette che si inerpicano lungo sentieri e faggi, casette da fiaba olandese... Verrà tanta neve, e tutto sarà silenzio e luce bianca e nel silenzio scolpirà il ghiaccio.
Intanto sogno e sto realizzando una scultura alta e... che sorgerà... in una grande... mansarda messami a disposizione, ma te ne parlerà a voce e ti dirà... dei nuovi contatti, qui Milano è vicina e sgorbie e bulini sono impazienti di immergersi nel caldo cuore di una quercia.
Ma verrà tanta neve e nel silenzio ovattato, nella bianca luce, scolpirà il ghiaccio sino a dargli vita o a distruggerlo.
E a primavera, forse lassù nel maggengo, tra abeti e castagni, sull'erba soffice e fresca, lì dove amoreggiano i daini, avrò la mia baita e il mio ciocco di acero...
Abele Vadacca

KOSTAS VALETAS


Da Atene (lettera ms.) 1987

Fratello Antonio,
Ho già ricevuto il tuo interessantissimo diario di Yverdon les Bains, ti ringrazio tanto. Congratulazione. Che ne pensi per la disparazione di Rolando Certa? 55 anni, un pò più anziano de noi!
Caro amico ti ringrazio tanto per tutto il materiale, lettere etc. che tu mi hai mandato. Penso di presentare qualche cosa di te in Grecia. Facci le stesse cose. Scrivimi le tue idee. lo ti manderà alcuni dei miei racconti tradoti in italiano. Ed aspetto i tuoi testi.
Adesso tu pubblico due libri, che sono alle tipografia. Un libro di teatro, con una opera e cinque atti unici, ed un secondo libro con racconti. Ecco le mie notizie.
Il tuo amico
Kostas Valetas


Da Atene (lettera ms.) s.d.

Caro Antonio "Das Mortes",
Ricevuto la tua cartolina e ti ringrazio tanto. Vengo in Italia il 14 di novembre. Però molto lontano da te. Roma! lo sarà di 14-23 a l'hotel Quirinale (...).
Ti vederò forse! Chi sa?
Caro Antonio resto con gli impressioni delle nostre indimenticabili serate che abbiamo passato a Yverdon-les-Bains.
Quando ti verrai ad Atene? E quando io verrà a Caprarica di Lecce?
Ti mando un testo mio - racconto - per pubblicarlo. Aspetto anche tuoi testi. Caro Antonio ti saluto. Scrivimi Caro Saracene,
Kostas
[Autore teatrale, romanziere, direttore TV in Grecia: è anche lui uno di quegli scrittori dal passo felpato che portano in giro la propria poesia e la propria angoscia]

DONATO VALLI


Da Lecce (lettera ms., su carta intestata Università degli Studi - Lecce: il Rettore) 20 settembre 1988

Caro Antonio,
Grazie del ricordo di Salvatore Toma. Abbiamo tutti un po' di rimorso per averlo dimenticato, non tu che più di tutti noi gli somigli per fede e generosità di sogni. Ti ringrazio di aver offerto un alibi alla nostra distrazione. L'amore dell'amico ti ha fatto essere buono con noi che gli eravamo amici. E nel prosieguo di questa catena d'affetti vive, forse, il miracolo di Salvatore, anche per tua mediazione.
Un abbraccio
Donato Valli

ALDO VALLONE


Da Roma (cartolina ill. ms.) 19. X. 1987

Caro Verri,
ricevo "Giannuzzi" e "Liman" e non ho la sua "Betissa" (forse è miopia d'inseguimento tra nord e sud: ma mi faccia vedere a Galatina, a Natale).
Mi rammarico per le notizie che mi da: un "Centro Culturale" che chiude è un brutto segno! I "tempi" non sono propizi per la stampa generosa (e forse ancor meno nel nostro Sud).
Suo cord.
Aldo Vallone

WALTER VERGALLO


Da Lecce (lettera datt., pubblicato su Pensionante foglio - col titolo: "La mia (tua?) crisi" - nel numero di gennaio - febbraio 1983)

Allora, caro Antonio,
cominciano i rapporti epistolari quando si diradano o si esauriscono le occasioni di quelli attivi, dei quali i primi finiscono per essere una splendida (!) sub-Iimazione o uno squallido surrogato (con preferenza per quest'ultimo). Pensa a cosa sia oggi stare insieme, comunicare, trovare il tempo, discorrere di alberi tra gli alberi, neutronarsi a un'impulsione di sole invece della fredda lama di enel a corto di luce. Già, la crisi.
Dire che il crollo delle precedenti (vigorose) impalcature è problema che investe la nostra generazione, perché la bistoria è girata per un tornante che non avevamo previsto, è affermazione forse giusta certo consolatoria e perciò impotente a risolvere il problema. Che rimane. Né il concetto di generazione è comprensivo solo di quelli-noi che hanno creduto individualmente in un rovescio organico della situazione politica, perché la restaurazione istituzionale colpisce questi quanto quegli altri che credevano di poter stare alla finestra. Essa è un fenomeno oggettivo che condiziona e determina non solo i rapporti di produzione, ma tutto la cultura cosiddetta di massa, cioè le reazioni psicologiche dei singoli. Meglio, allora, configurare la crisi in termini soggettivi.
Io scrivo in una radicale inappartenenza col rischio permanente della gratuità. la mia scrittura ha cioè un carattere soggettuale; ma nasce oggettivamente qui, ora come "resistenza" dentro la società. Ma resistenza a è amore di; non è, voglio dire, spregio o indifferenza. La scrittura è sempre trasformazione perché l'oggetto è sempre altrove; è una macchina che stritola valori, li svalora. Essa è sempre disvalore cioè disvolere perciò movimento-azione. Forse basta poco per cambiare il mondo. Crederci è già molto. Ma chi ci crede più? Si potrebbe dire che volontà -conoscenza ed essenza coincidono: tu disvuoi dunque sei. Ma è il "dunque" che ci fatte perché c'è un margine, un vuoto di identità e di appartenenza (a che?) difficile da riempire.
Questa interpretazione sociologica, per suggestiva che sia l'illuminazione che dà alla scena di fondo, non annulla (nemmeno riscattandolo) il dolore della parola. Allora ti colpevolizzi, ti penti di avere scritto, ritieni inutile o controproducente la tua paternità della parola, rinunci ad essa, specie oggi che la parola è diventata diva da palcoscenico.
Così alla domanda banale come stai ti scappa di rispondere con l'immagine tetra tremenda dell'Odisseo: "Come si sta nella terra del defunti, nel Tartaro senza confini". Come stai è solo un corollario: troppo evidente è la paralisi che inchioda la nostra volontà a una sedia a rotelle: l'amore èandato a farsi fottere, l'amicizia sembra l'illusione di un farneticante (oggi la solitudine è una condizione collettiva a priori), la scrittura costa troppo sangue. Ma soprattutto mancano la speranza, l'attesa, il domani. Così il cuore pulsa a strappi.
Mi dirai che sono sensazioni (passeggere) di chi non ama castrare né velare il male della vita: nessuna condizione psichica estremizzata è mai duratura e definitiva proprio per la sua natura - di alterità e - di squilibrio. Esiste il soggetto che non ama più, che cambia sesso, che cambia vita, che fugge, che smette di pensare o di scrivere, che sogna, che picchia il figlio perché si è cacato le mutande. Ma il fatto che la condizione psichica oscilli verso questi (e altri) estremi non mette in dubbio la razionalità del soggetto; se mai la presenta come contraddittoria digressiva irriverente.
La ricerca di elementi esterni, un'altra regione per svernare, un'altra vita, un'altra donna (o più), un'altra scrittura (o più) non contribuisce a essere felici cioè a risolvere la nostra situazione di scrisi, giacché è solo la deformazione-camuffamento della nostra incapacità di essere felici. Che rimane nostra. Così l'io trova ancora una volta la scappatoia per autoderesponsabilizzarsi, per rovesciare (splaff) su altri la permanenza del suo stato di scrisi: buona occasione per non perdere l'autostima. E non è neppure detto che sia, come menzogna, salutare.
In altri tempi le masse si raccomandavano a dio e delegavano a lui la risoluzione dei problemi: rimasero pecore per tutta la vita. Poi dovettero constatare che nemmeno quel buon demiurgo - né nessun altro suo sostituto - riusciva a risolvere i problemi. Vedi quanto senso di liberazione ti comunica Majakovski: "Noi con Dio / che abbiamo da spartire? / Noi stessi / seppelliremo in pace / i nostri morti". Dice "noi": è un invito alla cooperazione, alla solidarietà umana. Ma né tu né io possiamo dire "noi" perché quella collaborazione (rivoluzionaria) in questa fase di evoluzione sociale non esiste. Siamo soli. Desperados. Ma guai se questa solitudine dovesse risolversi in querula lamentazione. Soli, va bene. Ma a ciglio asciutto e con la forza sufficiente - forse - per caricarsi a spalla la propria solitudine e scaricarla nel pattume. Il pianto non si addice a chi si è più volte ucciso, si è fatto gli anni del Salento, gli anni (cinque) della Valtellina (ora mi sono rinSUDato) e i tanti (molti) altri anni-luce dei mille itinerari mentali.
Forse da qui si può partire, da un eccesso di eroismo che è estrema umiltà, da una cocciuta volontà di scrivere la vita che è come imbolgiarsi-volare nel mare-caverna-utero-tana-sogno, spinti dalle correnti verso nuove spelonche, su alghe remote e coralli dove la luce arriva in silenzio. Che fascinazione singolare di colori e di pace essere sottomare, immararsi. la conoscenza allora rimane limitata ad alcuni aspetti particolari occasionali (improbabili) che instaurano un difficile ma armonico rapporto con il tutto. Così il mare vive dell'indissociabile unità dei suoi molteplici elementi.
E non è solo questione che riguardi la cosa. Credo che deve mutare soprattutto il modo della rappresentazione oggettiva; cambiano i livelli del rappresentato per il maggior volume di realtà che esso può contenere. E non è poco perché il surplus di quantità è anche surplus di qualità; si deve tramutare in una nuova ricerca intraverbale, in una correzione della direzione semantica del segno. O del sogno. Insomma, in un bisogno. Che non può essere che di rivolta.
A questo punto sorge il vero grosso problema, di cui si può discorrere altra volta: come esprimere il bisogno. Partendo - credo - dallo stato di esaurimento dei l'espressione- norma, violando l'intangibilità della parola, pervertendo l'ordine semantico e sintattico della funzione referenziale della lingua, raggiungendo la soglia dell'impertinenza linguistica, lavorando dentro e contro la parola, privilegiando il lapsussmottamento per passare alla fase dell'oraIizzazione della parola: dalla grafomania alla cultura fonologica, dalla società delle immagini a quelle dei suono. Meglio se del dissuono.
Walter VERGALLO

CARLO VILLA


Da Roma (biglietto datt., spedito da: "Centro Internazionale Eugenio Montale") 20.12.87

Recapito a scopo collaborativo alcuni componimenti inediti e un disegno a tecnica mista di questi giorni, adatto ad illustrarli.
Gradirò, formulando i migliori auguri per l'anno venturo, un cortese cenno di buona accettazione a riguardo, a disposizione per ulteriori necessità.
Carlo Villa


Da Roma (su comunicato stampa di "Morte per lucro") 3.5.1988 (t.p.)

Grato per una sua cortese lettura e consiglio che potrà dare di essa agli amici e ai lettori della resuscitata rivista. Sarà possibile una presentazione del libro chez-vous? Intanto con viva cordialità
Carlo Villa

COLOMBA VORONCA


Da Parigi (lettera ms.) dicembre 1982

Cher Monsieur
excusez-moi de vous ècrire en français, j'ai peur de faire trop de fautes en italien.
J'ai eu le bonheur de connaître Vittorio Bodini (nous militons ensemble pour l'Espagne) et j'ai beaucoup aimé sa poèsie.
J'avais traduit et publiè ces 2 poemes. Si dans votre revue "pensionante de' Saraceni" vous pouvez les reproduire, cela nous rappelera le souvenir du grand poète.
Auguri et salute
Colomba Voronca
[Ecco, sulla Voronca, che, novantenne (traduttrice in Francia di poesie di Bodini e del libro di Vittore Fiore, "Ero nato sui mari del tonno"), appena ricevuti i primi numeri del "foglio giallo", prende penna e carta per spedire il suo intervento. Ecco, sulla Voronca, l'ultima nostra riflessione: la baldanza, l'allegria, l'inquietudine, la fede nel solo testo, l'amore per l'invenzione, il disprezzo per chi colleziono titoli, il magismo della parola, erano un po' questi gli assunti del nostro primo "avviso" dal foglio giallo. Un percorso e un lavoro anche notevoli - pensate ai poverissimi mezzi con cui siamo andati sempre avanti - eccoli: fogli, riviste, venti "quaderni", numeri monografici. Qualche scalfittura? No, sono solo delle pietruzze di candida militanza. Della bruschetta. in fondo, si fa ancora mercato. Eccome!
Poi un giorno ci siamo detti: ma il mostro è là, il mostro è sempre là... E abbiamo veramente, finalmente, lasciato. Bisognerà combatterlo con altro tipo di armi ... ]


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000