§ Le sorprese dell'archeologia

Forse il mondo era delle donne




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Non poteva che essere un paradiso terrestre: popolato da genti felici e laboriose, che vivevano in perfetta armonia con la natura, non volevano saperne di guerre e di conquiste di territori, costruivano comunità e villaggi, si dedicavano all'agricoltura e vivevano in pace. Possibile? Possibile, grazie al fatto che le donne avevano un ruolo primario nell'organizzazione sociale e nella vita religiosa dell'epoca.
Età dell'oro: una vita assolutamente serena, che caratterizzò l'Europa preistorica tra il 7000 e il 3500 prima di Cristo. Ma ad un certo punto le cose cambiarono, e in peggio. Un triste giorno, intorno al 4000 prima di Cristo, incominciarono ad arrivare dall'Oriente migrazioni di cavalieri in armi.
Allora si consumò la grande tragedia: costoro spezzarono la pace, misero a ferro e a fuoco i villaggi, distrussero la società matriarcale e abbatterono l'antica "Dea Madre", che aveva ispirato e dominato per millenni l'ideologici religiosa delle pacifiche popolazioni degli agricoltori.
E' un discorso abbastanza schematico, ma in esso è racchiusa la teoria di Marija Gimbutas, docente di archeologia all'università di California, di Los Angeles. Gimbutas è una studiosa vicina ai sessant'anni, con una cospicua autorità scientifica, con un paio di centinaia di pubblicazioni, molte delle quali pregevoli, e con numerose esperienze di scavo nei Paesi balcanici. Quella che si dice, insomma, una studiosa di successo. E affermata.
Ma non indiscussa. Infatti, come puntualizza Viviano Domenici, "la sua idilliaca visione di un antico mondo caratterizzato da un assetto matriarcale non è condiviso da molti suoi colleghi che. pur riconoscendo alla Gimbutas una notevole esperienza, ritengono che essa abbia troppo forzato i dati archeologici per sostenere la propria tesi". Di solito, questo genere di discussioni non supera che di rado il ristretto ambito degli addetti ai lavori. Ma questa volta non è stato così. Della questione si sono impossessati i mass media, e le polemiche non si sono fatte attendere. Il fatto che la teoria di Marija Gimbutas sia stata accolta con comprensibile entusiasmo dai movimenti femministi americani (e poi britannici) ha irritato molti colleghi dell'archeologa, i quali hanno reagito seccamente: "E' bene che la gente sappia che avanziamo molte riserve "tecniche" su un'ipotesi del genere; ed è ora che l'opinione pubblica ne prenda atto, perché la teoria solleva questioni delicate non solo sul piano scientifico, ma anche su quello sociale".
L'occasione per la levata di scudi è stata data dall'ultimo lavoro della studiosa (The Language of the Goddess) pubblicato negli Stati Uniti: un cospicuo e illustratissimo volume popolato di figurine femminili uscite dagli scavi archeologici che Marija Gimbutas interpreta come raffigurazioni della "Grande Madre", la divinità che avrebbe permeato la cultura matriarcale dell'Europa preistorica, prima di essere soppiantata dagli dèi guerrieri sopraggiunti con i bellicosi popoli guerrieri dell'Oriente.
Si tratta di trentamila statuette di terracotta, di ceramica e di osso, che raffigurano donne dalle forme piuttosto abbondanti e dagli attributi sessuali particolarmente accentuati. Sono state ritrovate sepolte sia isolate sia a piccoli gruppi, chiuse in semplici recipienti, oppure raccolte in ambienti palesemente destinati al culto. Hanno caratteri stilistici diversi; sono sedute su piccoli troni o in piedi; sono dipinte con una certa cura; ma spesso sono di fattura elementare: ma hanno sempre un'inconfondibile aura sacra, e forme e atteggiamenti che enfatizzano le caratteristiche legate alla fecondità. Per questo sono state concordemente battezzate "Dee Madri", o "Veneri".
E proprio a questo punto cominciano i problemi: è sufficiente il ritrovamento di queste statuette, e sia pure in così gran numero, a far ipotizzare l'esistenza di una "Dea Madre" e il ruolo centrale della donna nella società che produsse quelle immagini? E ancora: quali altri dati archeologici sono in favore di una ricostruzione tanto idilliaca di quel complesso periodo storico?
Su questi punti fondamentali, com'è ovvio, si sono creati due schieramenti, ciascuno dei quali presenta argomenti e tesi esclusive; e il dibattito si avventura in meandri irti di date, di massicci spostamenti di popoli, di creazioni di villaggi più o meno fortificati, di uso o di rigetto delle armi. Sostiene Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all'Università di Pisa: "Tutto è confuso da un problema di fondo. La maggior parte dei materiali archeologici su cui si basano le diverse e contrapposte ipotesi è stata rinvenuta alcune decine di anni fa, vale a dire quando le tecniche di scavo erano senza dubbio meno rigorose di quelle attuali. E questo permette oggi una certa libertà d'interpretazione. Per quel che riguarda in particolare la Gimbutas, essa ipotizza una fase "dominata" dalla "Dea madre,,, in cui le società degli agricoltori erano caratterizzate, se non proprio da un vero matriarcato, quanto meno da un ordinamento matrilineare; questo mondo agreste e pacifico sarebbe stato annientato, in un periodo compreso fra il 6400 e il A800 avanti Cristo, da tre ondate successive di pastori -cavalieri (protoindoeuropei), portatori di una cultura patriarcale, che imposero una nuova lingua e nuove divinità, ma questa volta maschili, che abbatterono l'antica "Dea Madre" e la inglobarono nel loro pantheon guerriero, ma relegandola a ruoli di secondo piano. Questo declassamento sarebbe, secondo la studiosa americana, la prova indiretta dell'avvento di una società patriarcale".
Ma a questa ricostruzione si contrappongono altre, di segno contrario. Fra tutte, una in particolare attribuisce proprio alle popolazioni protoindoeuropee sia l'importazione nel Vecchio Continente dell'agricoltura sia quella delle "Dee Madri", negando nello stesso tempo che queste popolazioni fossero portatrici di una cultura con tratti matriarcali.
Come spiegare, allora, l'incredibile preponderanza di immagini femminili in un mondo che, secondo quest'ultima ricostruzione dei fatti, sarebbe stato dominato dagli uomini e non invece dalle donne?
Ipotizza Borgognini Tarli: "E' chiaro che l'enorme numero di cosiddette "Dee Madri" deve in qualche modo testimoniare l'esistenza di un sentimento molto forte e altrettanto radicato in quelle popolazioni. Ma si possono prospettare anche altri scenari in grado di spiegare la presenza di un così gran numero di statuette femminili, senza dover arrivare per forza a presumere una preminenza assoluta di una "Dea Madre" e, di conseguenza, di una società matriarcale. Personalmente, ad esempio, ritengo che la spiegazione possa essere ricercata nelle particolari condizioni che si creano quando si diffusero l'agricoltura e l'allevamento, che in pratica sostituirono la caccia e i raccolti estemporanei. E' una teoria che io definisco "della farinata", centrata cioè sulla disponibilità di latte e di cereali, che dovette portare a un forte aumento della natalità; fenomeno. questo, che accentrò l'attenzione delle popolazioni neolitiche sulla fecondità di cui le statuette sono l'espressione".
In estrema sintesi, l'ipotesi avanzata dalla nostra studiosa è questa: fino a quando le popolazioni preistoriche vissero di caccia e di raccolta, la natalità era regolata dalle possibilità di allattamento dei piccoli che, viste le caratteristiche delle risorse alimentari allora disponibili, dovevano essere nutriti con latte materno anche fino a tre o a quattro anni d'età; fino a che, in altre parole, non erano in grado di mangiare cibi solidi. l'allattamento casi prolungato, in popolazioni che vivevano allo stato di natura, inibiva nuove gravidanze, e di conseguenza limitava il numero delle nascite.
Con l'introduzione dell'agricoltura e dell'allevamento, le cose si misero diversamente. I piccoli poterono essere svezzati più rapidamente, grazie alla disponibilità di farinate composte da cereali e da latte. Questo liberò la fertilità delle donne e portò a un fortissimo aumento delle nascite, favorito anche dalla vita divenuta ormai sedentaria. Il fenomeno non passò inosservato, e in questo modo la fertilità delle donne divenne un potentissimo centro di attenzione psichica, di cui le statuette non sarebbero altro che l'espressione materiale. Ma questo non ci autorizza a ipotizzare un universo mitologico totalmente dominato dal femminile, come invece ritiene Marija Gimbutas.
"Questa è ancora una volta un'ipotesi -conclude Borgognini Tarli - ma non meno e non più attendibile delle altre. E' in ogni caso difficile immaginare un antico mondo matriarcale basandosi solo sull'esistenza delle statuette femminili. L'errore è sempre in agguato quando si costruiscono ipotesi su dati insufficienti. C'è comunque da dire che altre teorie, altrettanto discutibili sul piano scientifico quanto quella della studiosa americana, non hanno suscitato reazioni così accese, forse anche perché non avevano alcun riflesso sul piano sociale dei nostri giorni".
In altre parole: la teoria dell'antico matriarcato ha molti punti deboli o controversi; ma ha anche il difetto, tutt'altro che marginale, di proporre cose poco gradite agli antropologi maschi. Anche per questo la discussione continua.
A questo punto è il caso di ricordare quanto ha scritto Alfonso Maria Di Nola, secondo il quale "va segnalato che proprio all'interno delle culture decisamente patriarcali e negatrici di ogni diritto femminile, la donna, esclusa da ogni funzione Ufficiale, realizza una sorta di rivalsa contro il gruppo maschile accedendo alla gestione di funzioni eccezionali di tipo divinatorio e possessorio. Per dare un esempio, in alcune zone islamiche dell'Africa settentrionale, nell'area etiopica di Gondar, le donne musulmane operano, nel culto degli spiriti e "zar", una sorta di rapporto estatico e di "trance" possessoria con il mondo sovrannaturale, in sedute dei venerdì sera e influenzano. attraverso i loro responsi, le decisioni del gruppo maschile".
Una fenomenologia analoga, corrispondente all'assunzione di importanza extra -istituzionale da parte della donna, sostiene Di Nola, è del resto presente anche nel nostro Paese.
Ma torniamo alle statuette delle "Dee Madri". Capita molto spesso agli archeologi di sentirsi frustrati dal fatto di rinvenire oggetti rovinati o addirittura ridotti in frantumi; ma proprio in questi ultimi tempi è emersa una teoria che in qualche modo può consolarli: gli uomini del Paleolitico europeo - almeno in alcuni casi -distruggevano intenzionalmente le statuette da essi stessi modellate. Ragion per cui, i pezzi che gli archeologi ritrovano non sono frammenti di oggetti che "dovevano essere originariamente completi", ma sono esattamente quello che gli uomini dell'antichità volevano produrre: statuette in frantumi, e non statuette intere. E quelle che ci sono pervenute integre da certe aree non sarebbero che delle eccezioni, dovute a errori di produzione.
A questa sorprendente conclusione sono giunti gli archeologi impegnati nello studio di numerosi gruppi di Dee Madri, o Veneri che dir si vogliano.
Tra le più note, quelle rinvenute negli anni '20 nella Moravia cecoslovacca, che risalgono a venticinquemila anni fa e possono essere considerate i più antichi manufatti di terracotta finora conosciuti. Anche in questo caso i frammenti rinvenuti sono migliaia, mentre le splendide figure intere rappresentano una esigua minoranza; e tra queste ultime spicca, per integrità e per bellezza, la celebre "Venere" di Dolni Vestonice.
La generale distruzione di questi manufatti era stata sempre interpretata come la conseguenza naturale dei millenni. Ma ora più accurate analisi, condotte nel corso di una campagna di ricerca sostenuta finanziariamente anche dal "National Geographic", hanno portato a concludere che - almeno nel caso di quelle rinvenute a Pavlov, in Moravia - gli uomini del Paleolitico mettevano le loro creazioni d'argilla sul fuoco, non per cuocerle e per renderle solide, bensì con lo scopo preciso di farle esplodere al calore.
Gli studiosi che sostengono questa ipotesi sarebbero arrivati alle loro conclusioni constatando, fra l'altro, che tra i resti dei forni, nei quali erano centinaia e centinaia di resti di statuine, si rinvenivano anche palline d'argilla cotta che erano scampate al calore, cuocendo e rimanendo integre. Queste erano evidentemente considerate non riuscite e abbandonate tra i resti del focolare, perché l'obiettivo era l'esplosione e non la produzione di palline. lo stesso discorso vale per le statuette femminili.
Difficile dire con sufficiente approssimazione quali motivazioni spingessero i nostri antenati a simili operazioni; ma è fuor di dubbio che le ragioni di questa pratica vadano ricercate in cerimonie che, peraltro, rimangono ancora misteriose. E' probabile che l'esplosione di immagini, legate - come abbiamo detto - alla fertilità, tendesse a diffondere la fertilità stessa, o a garantirla, oppure ancora a liberarla dal suo involucro solido, rappresentato dalla terra con la quale era modellata la figura.
Per ottenere questo scopo, secondo le ipotesi degli archeologi, gli uomini paleolitici introducevano nei forni statuette ancora molto umide; e questo, come sanno benissimo i moderni ceramisti, portava alla frantumazione delle sculture durante la cottura. Il dubbio che l'esplosione degli oggetti dipendesse da un'imperizia e da tentativi di sperimentazione da parte degli antichi artefici è francamente poco attendibile, data la loro provata abilità, e data anche la perfetta conoscenza delle tecniche di cui si servivano ordinariamente nella vita quotidiana.
L'ipotesi dell'esplosione voluta, invece, pone in una nuova prospettiva anche altre constatazioni. Prima fra tutte, quella che anche in santuari di epoca molto più recente, e in modo particolare nell'area mesopotamica, sono state rinvenute migliaia di statuette votive spezzate a metà. Dato che in questo caso la straordinaria quantità di opere frammentate non poteva essere imputata a cause naturali, gli archeologi ritenevano che ciò fosse dovuto a una pratica rituale messa in atto dai fedeli per impedire che qualcuno riutilizzasse le immaginette donate al tempio, appropriandosi così - oltre che dell'oggetto - anche del "voto" del primo donatore. Ora, anche per queste migliaia di frammenti si possono ipotizzare motivazioni ben più complesse e forse ricollegabili a una tradizione preistorica.
Che le cosiddette rotture rituali o frantumazioni da culto nascondessero qualcosa di più complesso di un semplice antifurto era peraltro già sospettabile, data la diffusione quasi universale di questa pratica. Inoltre, la precedente ipotesi conteneva in se stessa un'incongruenza. Risultava infatti abbastanza difficile accettare l'idea che venissero spezzate volontariamente immagini ritenute sacre nella loro integrità; era più agevole invece pensare che i nostri progenitori considerassero sacra la "forza" che le figurine contenevano, e non le stesse figurine in quanto tali. In questo caso, spezzarle o frantumarle facendole esplodere tra le fiamme poteva rappresentare un atto ben più carico di significati simbolici. E in ogni caso, ci si continua a interrogare su tutto questo, anche se il fascino delle Dee Madri o Veneri resta tale, proprio perché avvolto in un mistero che resiste.


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