La voce di Lilli ovvero Registrazione di eventi




Giovanni Bernardini



Il 7 luglio mattina, poco dopo le 9.30, sua moglie aveva preso la telefonata. "E' una certa Lilli, che dice d'essere stata tua compagna di scuola".
Il professore si accingeva a salire nello studio. Rimase alcuni istanti appoggiato al corrimano domandandosi chi potesse essere costei visto che ai suoi tempi non aveva avuto compagne di scuola, se mai d'università. Ma non ne ricordava nessuna con quel nome. Fece un viso interrogativo e nello stesso tempo un cenno alla moglie di richiudere l'apparecchio, avrebbe risposto da sopra. Salì le due brevi rampe di scale ipotizzando che forse si riaffacciava qualche vecchio amore con un nome provvisoriamente inventato. Si accomodò nella poltrona e alzò la cornetta, quasi certo di riudire una voce nota. invece dall'altro capo del filo la voce, senza presentarsi, scandì: "Lei è il professar .. " pronunciando esatti nome e cognome.
"Sì, sono io".
La voce ripeté nome e cognome, come per essere più sicura di parlare con la persona cercata.
"Sì. Ma cosa vuole?". Preso in contropiede rispetto a quello che si attendeva, non badò neppure a chiedere chi fosse l'interlocutrice.
"Lei ha tre figli".
"Appunto, ma non capisco ... ".
"Tre figli maschi" aggiunse la voce, quasi sillabando un po' ossessiva. Sembrava la voce d'una donna anziana con improvvise inflessioni giovanili, a tratti addirittura infantili.
Il professore aspettava che da un momento all'altro gli proponesse l'acquisto di un'enciclopedia per i figli. Esordiscono anche in questo modo gli agenti librari.
Invece disse: "Suo figlio maggiore si chiama Antonio".
"Sì, è vero. Ma cosa c'entra?" "Antonio ha una bambina".
Il professore cambiò idea: non si trattava di un agente librario, bensì di un assicuratore. Lo avrebbe invitato a stipulare un'assicurazione sulla vita in favore della nipotina. Ma ancora una volta si era sbagliato, poiché la voce disse, sillabando molto lentamente tanto da suonare come straniera: "Antonio sta bene". E interruppe la comunicazione.
Il professore allibito formulò un'altra drammatica ipotesi: qualcuno sa di un incidente in cui solo Antonio è salvo. Si precipitò fuori dallo studio e, affacciatosi sul grande soggiorno centrale, urlò: "Telefonate a Firenze, chiedete come stanno". Poi, sceso giù di volata, spiegò affannosamente tutto. I familiari osservavano la sua ansia con espressioni diverse: sua moglie spaventata, il figlio terzogenito perplesso ma incline all'incredulità. Fu lui che si mise al telefono, con calma fece rotare il dischetto sui numeri del prefisso e dell'ufficio del fratello. Rispose proprio lui, Antonio. Era al lavoro, moglie e bambina al mare. Tutto bene. Allora il terzogenito celiò sulle angosce del padre che, preso il ricevitore, volle motivarle, ormai con un sospiro di sollievo, e chiedere al figlio lontano se per caso quel nome di Lilli gli suggerisse nulla. Nessuna Lilli neanche fra le conoscenze del figlio. Uno scherzo, dunque, magari un cattivo scherzo.
Quando capitò in caso di passaggio il secondogenito, fu pronto a riderci sopra dicendo: "Antonio sta bene. E noi?"
"E noi?" si domandava il professore nei giorni seguenti. Sua moglie era stata colpita improvvisamente da una sciatalgia dolorosissima. Dopo radiografie, radarterapia, medicine per bocca e per intramuscolo, consultazione di specialisti, si muoveva poco e a stento per cosa sostenendosi a un bastone.
Sopravveniva il calcio sempre più opprimente dell'estate. li professore era stanco da un anno di lavoro, d'impegni, di dolori. Sua madre era morta a giugno. Dopo essere stata due volte in fin di vita, alla terza se n'era andata in poco più di mezzora. Come lei desiderava e lucida fino all'ultimo, tanto da indicare a gesti, perché l'edema la soffocava, che le dessero l'ossigeno e chiamassero il medico. Solo da qualche mese aveva cominciato a cedere al carico dei suoi novantaquattro anni e mezzo; ogni tanto tuttavia riaffioravano guizzi di vitalità, la voglia di presentarsi in tutto il possibile decoro della persona e del vestire e insieme gli spigoli del carattere, le interferenze nella vita della famiglia, i silenzi risentiti. Ora quella camera vuota, dove il professore si soffermava ogni sera prima di coricarsi, non in preghiera, in muto colloquio con la madre. Egli non si pronunciava sulla sopravvivenza dell'anima, sull'esistenza di un aldilà. Era un razionalista, magari possibilista. Tutto è possibile in un universo che anche attraverso la scienza ci rivela cose ieri impensabili. Riconosceva inoltre le ragioni del cuore. che non avrebbe saputo fare a meno di quell'ideale colloquio. E fissava, nella camera vuota, uno ad uno i mobili, i due lettini (la madre era spirato in quello dove non era solita dormire), i piccoli oggetti sopra il comò e il tavolinetto: ogni cosa al suo posto, come piaceva a lei, in un ordine ormai cristallizzato. A volte la luce del lampadario tremolava. In quel tremolio s'illudeva a cogliere una specie di messaggio, un saluto. Senonché, dopo alcune sere, decise di prendere lo scaletto e avvitare bene la lampadina.
Era stanco e turbato. Con la moglie voleva concedersi dieci giorni di vacanze sulle colline toscane, dove li aveva invitati il figlio maggiore. Necessario andar via, uscire dai luoghi abituali, dalla casa soprattutto, così vasta e tale che ogni angolo gli ricordava sua madre riempendolo di tristezza. Si sarebbero goduti la bella nipotina, ancora tanto piccola. Questo modesto progetto si era infranto prima nella malattia della moglie, poi nella febbre violenta che aveva colpito lui e tenuto in stato di sofferenza per una settimana. Tutto dopo quella stupida maledetta telefonata. Ma quale legame poteva esserci? No, da buon razionalista non doveva cedere alla superstizione, pensare al malocchio o simili sciocchezze. Pure coincidenze. Comunque una telefonata abbastanza maligna e ben calibrata, di poche parole ad effetto sicuro. Una persona malvagia non priva d'intelligenza, al corrente della sua situazione di famiglia e - informazione meno facile - della presenza al mondo da pochi mesi della piccola. Aveva provato a passare in rassegna le sue conoscenze femminili: su una o due si era fermato, ma aveva finito con lo scartarle sia perché non riusciva a trovare le ragioni di un atto del genere sia per la voce assolutamente ignota e non contraffatto. Ovviamente restava l'ipotesi che qualcuno si fosse servito di persona diversa. Ma chi? perché? Nella sua vita piuttosto metodica e ritirata da professore in pensione - che continuava a lavorare sì ma molto in privato -escludeva di essersi fatto dei nemici. E qualche rancore suscitato in passato appariva troppo lontano. Ma chi può leggere nell'animo dell'uomo? Oppure bisognava concludere che si trattava proprio di uno scherzo, senza alcun movente, del tutto gratuito.
Così, a letto smaniando per l'alta temperatura del suo corpo e della stagione, riscontrava di non poter stare disteso sul fianco sinistro: sentiva il cuore oppresso da un macigno, che lo costringeva a rimettersi sul destro o supino. Non era cosa nuova. Già da qualche anno l'elettrocardiogramma aveva rivelato un'ipertrofia ventricolare sinistra da ipertensione. La novità stava in quella specie d'intorpidimento che gli prendeva la gamba sinistra dal ginocchio in giù e in specie il piede. Muoveva più volte le dita cercando di eliminare il fastidio e in parte ci riusciva. Ma se camminava provava la sensazione che la gamba non lo servisse bene come l'altra: a momenti quasi appesantita, inoltre cedevole nel ginocchio. Difficoltà di circolazione periferica, sera detto per quel tanto d'infarinatura medica di cui disponeva. Ma non aveva voglia, almeno adesso, di sottoporsi a controlli.
Una notte gli tornò in mente che anche sua madre soffriva di quel disturbo. Poi s'era addormentato. Fu svegliato più tardi da un rumore proveniente dalla vicina camera della madre, il rumore - gli sembrò - della poltrona nella quale era solita sedere e che spesso spostava verso la porta-finestra prospiciente il giardino. Ebbe un brivido non di paura, ma d'un vago senso d'ignoto, che crebbe quando vide la piccola luce da notte collocata in un angolo della stanza velarsi e poi ricomparire due volte di seguito come se qualcuno ci passasse davanti. Udì nello stesso tempo sua moglie lamentarsi angosciosamente accanto a lui, in preda ad un incubo. La scosse con delicatezza per svegliarla, accese il lume sul comodino, guardò la sveglia, segnava le tre meno venti. La moglie gli raccontò il sogno che l'aveva spaventata: aveva visto la suocera ferma sulla soglia della loro camera da letto, poi entrare fino all'angolo opposto dov'era il lumino, quindi lentamente riuscire.
Il professore si astenne dal riferire quanto era accaduto a lui. Il turbamento aumentava, ma egli al solito tendeva a razionalizzare. Fece appena qualche segno d'assenso alla narrazione della moglie, le augurò buona notte e spense la luce. Ma non riusciva a dormire, cercava di mettere un po' d'ordine in quest'ultimo evento. Il rumore della poltrona smossa probabilmente lo aveva udito solo in sogno in quanto rumore che faceva parte di tutti i ricordi legati a sua madre. O poteva trattarsi d'un rumore qualunque trasmesso dalla notte e soprattutto recepito, dai suoi sensi tesi, come quel particolare rumore di poltrona. Riguardo alla lucciola elettrica, si poteva pensare a due momentanee interruzioni di corrente o a difetti della presa o della spina, constatati del resto anche in passato. Infine la concomitanza fra incubo della moglie e le sue strane percezioni era spiegabile quale caso di telepatia, tanto più fra coniugi aventi alle spalle molti anni di vita in comune.
Gli pareva così di trovarsi abbastanza al sicuro da illazioni irrazionalistiche, tuttavia doveva ammettere che quella sincronia continuava a lasciarlo perplesso, punto debole del suo ragionamento e nodo centrale di tutto, inoppugnabile almeno in questo senso: egli aveva captato l'incubo della moglie e tradotto in qualcosa cui non si poteva negare una sorta di concretezza. Riandò all'infanzia e alla prima adolescenza, alle storie paurose udite narrare in quell'antica casa dove allora abitava, di misteriosi preannunci di sventure, di scritte comparse sulle volte, d'una congiunta fornita di qualità medianiche che faceva muovere tavoli e sedie, bollire pentole invisibili. In mezzo a questo gran gorgogliare di memorie, riemerse da recessi lontanissimi, lucido e tagliente come coltello, improvviso come fulmine, il nome di Lilli. Sì, aveva conosciuto una Lilli, una bambina più grande di lui, non compagno di scuola, compagna di giochi certamente. Due parenti anziane, use ad andare quasi ogni sera in visita ora presso una famiglia ora presso un'altra, conducevano pure lui ragazzino. La noia di quelle interminabili serate diventava un vuoto dentro il suo cervello, in case quasi sempre prive di bambini suoi coetanei, lui costretto su una sedia in mezzo agli adulti che conversavano di argomenti incomprensibili o non interessanti, oppure intento a girellare per la stanza - di solito in salotto - curiosando fra i soprammobili e le enormi fotografie dalla larga cornice nera appese alle pareti con busti di uomini baffuti e donne dallo sguardo severo. Ma ogni tanto capitava che lo conducessero in casa di Lilli. Ne era contento, perché poteva giocare, sebbene Lilli fosse alcuni anni maggiore e piuttosto malaticcia. Anzi, forse proprio per la malattia, non sembrava più grande di lui: era mingherlina e piccola, un paio di gambette magre bianchissime, i calzini arrotolandosi le scendevano sulle caviglie, le scarpette nere allacciate a un bottone da una fascetta. Non riusciva a ricostruirne il viso, tranne il particolare che alle tempie era percorso da venuzze azzurrine evidentissime. Doveva essere morto intorno al '30, a dodicitredici anni, quando lui con i genitori risiedeva in un'altra città; probabilmente la notizia non lo aveva neanche raggiunto o non aveva prodotto reazioni, cosa abbastanza naturale considerata la sua età infantile. Ma, passati degli anni, aveva visto dov'era sepolta Lilli: nella vasta cappella d'una Confraternita, in un cassettone situato molto in alto sotto una lapide grigia senza foto. Se non avevano messo un ritratto voleva dire che Lilli era proprio brutto. Ma di lei all'improvviso ricordò che portava i capelli tagliati corti con la riga da una parte, alla maschietta - come si diceva - e guardava con grandi occhi scuri in cui, bambino, aveva l'impressione di smarrirsi. In seguito, tornando al cimitero, non aveva più trovato la tomba di Lilli, i cui resti evidentemente erano stati trasferiti nell'ossario. Così non ci aveva pensato più fino a cancellarla dalla memoria. Ma tutto ciò in quale rapporto poteva porsi con la voce al telefono? In nessuno, tolta l'omonimia. A meno che non volesse pensare a qualcuno che in primo luogo conoscesse l'esistenza di Lilli, in secondo sapesse di quella sua breve amicizia, in terzo fosse intenzionata a incutergli paura sia attraverso il contenuto del messaggio sia attraverso il nome ritirato fuori da un passato tanto lontano. Una serie di combinazioni che la ragione rifiutava di mettere insieme, per di più l'errore - se di errore si trattava - d'essersi presentata a sua moglie quale compagna di scuola. Lilli poi era stato adoperato come nome o cognome? Il cognome alla fine gli parve più probabile, sebbene non escludesse una voluta ambiguità da parte di chi aveva macchinato un genere così singolare di telefonata. Comunque gli unici elementi di certezza su cui basarsi erano costituiti dal fatto che la telefonata lo aveva spaventato e che - sia pure per una semplice casualità - non gli aveva portato fortuna. Stanchissimo si addormentò di botto.
Al mattino svegliandosi sentì di stare meglio, non aveva febbre, si alzò ed entrò secondo il solito in camera di sua madre ad aprire gli scuri della porta-finestra e del bagno. Non avrebbe tollerato il buio lì dentro. Controllò la poltrona, era sempre al suo posto dove l'aveva vista la sera prima, nessuno l'aveva smossa, il rumore udito era un prodotto dei suoi nervi tesi o un altro rumore. Lo specchietto d'ingrandimento usato dalla madre, rimasto sulla mensola in bagno, gli rimandò l'immagine del proprio volto scavato da due rughe che dal naso scendevano fino agli angoli della bocca conferendogli un aspetto di amara senilità. Altre rughe incidevano la fronte in tutta la lunghezza. Distolse lo sguardo, andò ad aprire le persiane del soggiorno, entrò in cucina. Lo raggiunse la moglie, s'era alzata dopo di lui, camminava stentatamente facendo peso sul bastone. Quando si sedette per riposarsi e bere un goccio di caffè, le si scoprirono sulla nuca due piccole zone di capelli radi. Nel giro di pochi giorni sembrava invecchiata come fossero trascorsi anni.
Fu proprio osservando la moglie, sotto l'impressione di quel decadimento coinvolgente anche lui, che prevalse l'assurdo: ricercare le tracce della Lilli defunta. Si giustificava che accertando alcune date avrebbe potuto escludere o confermare le ipotesi via via affacciatesi alla mente, innanzi tutto quella relativa a chi poteva aver conosciuto Lilli o quanto meno sapere di lei. In realtà si accorgeva che stava cedendo all'idea che indirettamente c'entrasse l'antica compagna di giochi. Ma qualcosa di più insidioso e irrazionale s'insinuava: la suggestione che un unico filo collegasse le ultime vicende di malattia e invecchiamento a quella telefonata e a sua madre morta, che insomma da un mondo misterioso gli fosse pervenuto un avviso e anche più di uno. Una volta un amico gli aveva riferito d'aver letto su una rivista specializzata che oggi i morti si servono del telefono. Ci aveva riso e naturalmente aveva messo in dubbio la serietà della rivista. Ora si sorprendeva a rianalizzare quella voce al telefono e a spiegare lo stridente contrasto fra toni da persona anziana e toni quasi da bambina con l'età che Lilli avrebbe avuta oggi e quella di quand'era in vita.
Uscì con la precisa intenzione di recarsi all'ufficio anagrafe. L'impiegato fu gentilissimo, era stato suo allievo per un anno durante un corso integrativo, aveva un caratteristico modo di guardare con la testa piegata verso la spalla sinistra, non mostrò meraviglia alla richiesta di sapere quand'era morta una ragazza della famiglia C.
Il professore aggiunse scusandosi: "Una piccola curiosità legata alla mia infanzia. Dovrebbe essere intorno al '30".
"Quei registri non li abbiamo qui, - rispose l'impiegato - sono conservati in archivio nel palazzo di fronte. Non ho la chiave, ma un'altra mattina di meno lavoro me la procuro e l'accompagno. Intanto, se l'interessa e ricorda approssimativamente l'anno di nascita, potremmo dare un'occhiata ai registri dei nati".
"Sì, - disse il professore - era più grande di me. Provi a prendere il registro del 20".
Lo sfogliarono senza trovare nulla. Altrettanto invano sfogliarono quelli del 19 e del 18. Finalmente lessero che addì 11 maggio 1917 dal gentiluomo G. C. e dalla gentildonna C. C. era nata una bambina alla quale erano stati imposti i nomi di Michelina Ada Italia. Ecco, il diminutivo Lilli proveniva da Michela e il terzo nome, Italia, con ogni probabilità era stato dettato da spirito patriottico in un anno bellico assai difficile per la Nazione. Comunque elementi di scarsa importanza, tranne aver appurato l'anno di nascita e il giorno. Quest'ultimo anzi lo colpì per la coincidenza con un altro 11 maggio, molto più tordi, giorno da lui considerato il più bello della sua vita, quando - scampato a mille peripezie e pericoli della seconda guerra mondiale - aveva in un vespro luminoso toccato e baciato la terra del paese, lo stesso dove Lilli era nata molti anni prima appunto in quel giorno. Che quell'antica ragazza fosse stata la protettrice negli anni della bufera? colei che lo aveva aiutato a tornare alla data rispondente all'inizio della suo breve vicenda umano? e ora, dopo la morte della madre, gli annunciava nuovi eventi, non lieti, per prepararlo ad affrontarli? in serenità, così come in serenità era stato pronta sua madre? allora forse si era sbagliato ad attribuire alla telefonata un significato ostile?
Pensieri e domande balenavano nel suo cervello mentre continuava a fissare il vasto foglio ingiallito, parte stampato parte manoscritto, su cui era registrata la nascita di Lilli.
"Dunque, professore, - fece paziente l'impiegato - quando vorrò tornare un'altra volta, vedremo di andare in archivio a cercare l'atto di morte".
"Bene, - rispose scuotendosi quasi da uno stato ipnotico - la ringrazio, lei è molto gentile".
Salutò ed uscì nel grande sole di fine luglio. Sapeva che non sarebbe tornato a fare altre ricerche. Insistervi significava arrendersi a congetture paradossali, rimanere prigioniero entro una rete che si sarebbe infittita e cui sarebbe stato sempre più difficile sfuggire. Mentre con l'abituale contraddizione riconosceva il lascino emanante dai suoi fantasmi, la ragione gli ripeteva che bisognava metterli in fuga, liberarsene definitivamente. Bisognava rimuovere Lilli, risospingerla nel buio dal quale tentava di uscire, rimuovere la telefonata, anche il ricordo di sua madre o meglio viverlo con una accettazione più aderente alle leggi della natura.
Così nei giorni seguenti s'impose di rispettare le regole che si era prescritte. I giorni passavano nella monotonia di un'estate caldissima; che per lui e sua moglie non presentava la prospettiva neppure di un breve cambiamento d'ambiente. Stavano però meglio in salute e avrebbero potuto concedersi una vacanza, ma li dissuadeva il pensiero di dover affrontare a stagione avanzata enormi difficoltà in mezzo alla follia collettiva del turismo di massa. I figli in viaggio o al mare, chi da una parte chi dall'altra. Tuttavia li confortava la promessa di Antonio: a settembre sarebbe venuto giù con moglie e figlia. Si sarebbero stretta fra le braccia finalmente questa nipotina, questa bambinetta di pochi mesi, che avevano vista solo a Pasqua già così ricca di vitalità e d'intelligenza. Ma settembre appariva ancora lontano.
Il 7 agosto domenica, poco dopo le 9,30, citofonarono al portone. Il professore in pigiama aveva fatto il giro della casa aprendo o chiudendo porte e finestre per ottenere quel tanto di ventilazione atta a rendere meno soffocante il caldo umido della giornata sciroccosa. Era passato, come sempre, dalla camera ch'era stata di sua madre a spalancare le imposte, a rivolgere mentalmente un saluto e qualche parola a lei nell'illusorio rapporto che si sforzava di mantenere, con un dolore profondo ma adesso attutito, assimilato agli altri dolori, divenuto essenza della sua vita. Udito lo squillo del citofono, brontolò che neppure di domenica si poteva stare in pace. Come in domeniche precedenti si sarebbe trovato di fronte gli ostinati testimoni di Geova annunciatori di un futuro apocalittico. Si presentavano di solito in coppia, due uomini o due donne, raramente uno solo, borsa in mano ben gonfia di giornaletti che offrivano per la modicissima somma di due-trecento lire, tanto per recuperare i costi di stampa affermavano, o addirittura gratis raccomandando di leggerli. Talvolta aveva accettato la conversazione con loro, prendendola come una piccola esercitazione dialettica; poi magari era diventata scontro, ma nei termini di reciproca cortesia, e quelli concludevano che era un piacere parlare con una persona colta come lui e sarebbero tornati. Questa promessa lo infastidiva poiché sapeva che sarebbe stata mantenuta e non sempre si sentiva disponibile. Quella mattina si era alzato di malumore, appena all'inizio della giornata si ritrovava giù stanco, oppresso dal caldo, un fastidio in mezzo al petto, forse lo stomaco, e poi era una domenica di piena estate. No, non li avrebbe ricevuti, non provava il sotterraneo piacere di contrapporre alle loro argomentazioni le armi del suo razionalismo, anzi era in preda a una sorto d'inerzia da persona indifesa. Alzò di malavoglia il ricevitore del videocitofono e, prima di poter interrogare, udì una voce: "Professore, è lei?"
Nel video si stagliava la figura di un signore anziano. Per quanto si poteva distinguere, appariva alto magrissimo vestito elegantemente.
Senza attendere risposta, l'uomo disse: "Mi apra, per cortesia".
Il professore s'irritò: "Non le apro affatto. Lei chi è?"
"Glielo dirò subito, ma sarò meglio se lei prima mi apre".
"Non apro, se non si presenta e mi dice cosa vuole".
"Si tratta di una cosa importantissima, ma da qui fuori non è il caso di spiegarle".
"Male, io chiudo e la lascio".
"Non può farlo, professore, e non deve".
"Come non posso e non devo? Si rende conto che il suo comportamento è inqualificabile?"
"No, si sbaglia, cerchi di capire. Sono un amico di Lilli. E' lei che mi manda".
Quando la moglie entrò nell'ingresso, il professore giaceva sul pavimento color ghiaccio, bianchissimo in volto anche lui e il cuore spaccato.

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