§ Il corsivo

Slow food




Milla Pastorino



Molti di noi hanno assistito, sconvolti, al dilagare dei "fast food", in italiano cibo veloce, nella sostanza polpette, patate fritte e coca-cola distribuiti in mangiatoie sempre più numerose, dilaganti nei centri delle città e dei borghi. Mangiatoie al neon che, sostituendo librerie, gallerie d'arte, botteghe artigiane, propongono un nuovo stile di nutrizione. Appunto lo stile "fast food".
Qualcosa di simile conoscevamo anche noi, e i nostri padri e i padri dei padri. La ciriola imbottita di cicoria, a Roma, è stata attraverso i tempi il "fast food" dei muratori. La "schiscetta" piena di minestrone, nelle officine lombarde, era certo il "fast food" degli operai prima che esistessero le mense aziendali. E quando stava nascendo a Taranto il quarto Centro siderurgico, molti manovali morti nei cantieri avevano nello stomaco solo pane e olive: più "fast" di così...
Mentre molti di noi meditavano, un po' depressi, su questo veloce modo di assumere cibo, ecco che arriva il "Gambero Rosso" ad annunciare la nascita dello "slow food": che in italiano significa cibo lento, lento mangiare, in provocatoria contrapposizione alla frenetica moda del "fast food".
Il Gambero Rosso che non è l'osteria dove sventuratamente si fermò Pinocchio, ma un elegante supplemento del Manifesto, ci comunicò che in ben trenta capitali del mondo era nato il movimento internazionale dello "slow food", con un progetto che ha come base la riscoperta del piacere del cibo, della saggezza del vivere, del rispetto della cultura del territorio, a cominciare dalla cultura materiale delle sue genti. Slow food, dunque, contrapposto, anche culturalmente, a fast food. Slow food come rifiuto di un certo stile di vita, come riscoperta di radici. Perché nel cibo e nel ritmo dei cibarsi noi abbiamo almeno una parte delle nostre radici. Possiamo immaginare un neonato che succhia il latte con ritmi che non siano esclusivamente suoi?
Cibo lento, cibo come ricerca di radici, come cultura, come rito.
Sarebbe necessario un volume, per fare anche solo rapidissimi cenni sui riferimenti al cibo nei libri, sacri e profani.
Le nozze di Cana, ad esempio. Gesù interviene, a un certo punto del banchetto, e dice alla madre: "non c'è abbastanza vino". E si dice che l'acqua fu trasformata in vino: probabilmente perché il posto potesse continuare allegramente e senza fretta.
Sorvoliamo sugli antichi romani, quelli ricchi, che avevano in fatto di cibi, o di abitudini gastronomiche, consuetudini non proprio raccomandabili. Ma come dimenticare il grande pranzo che apre la saga del Buddenbroock? Thomas Mann narra l'ascesa e il declino di una famiglia di ricchi mercanti dell'Ottocento, e in quel pranzo che dà l'avvio alla storia, e che deve celebrare le fortune della famiglia, ci sono già tutti i segni della decadenza. Perché tanti sentimenti erano intorno a quel tavolo, tranne forse l'amore. Compreso quello confidente e paziente per il cibo.
Un racconto famoso di Karen Blixen, famoso anche per un film di successo, è incentrato su una cena ("Il pranzo di Babette" è il titolo del racconto). E tutto il racconto mette in risolto l'importanza del cibo in quella cena, nonostante che nessuno dei commensali parli di Cibo, nonostante neppure sappiano valutarne la raffinatezza. La storia si svolge in Norvegia, in un piccolo paese arroccato su un fiordo: Beverlaag, dove vivono due anziane sorelle, figlie del pastore protestante ormai morto da molti anni. Un giorno arriva a Beverlaag Babette Hersant, comunarda, sfuggita alla repressione della Comune di Parigi nella quale sono stati fucilati suo marito e suo figlio. Karen Blixen racconta la storia del rapporto fra le due sorelle e Babette, fino allo snodo della vicenda. A quando Babette, che ha vinto del denaro in una antica lotteria, chiede di poter preparare una cena francese in onore del centesimo anniversario della nascita del pastore. Tutti gli abitanti del paese sono invitati alla cena: è tutta gente semplice, abituata a mangiare stoccafisso e zuppa di birra, gente che considera peccato indulgere ai piaceri, compreso quello del cibo. La cena si snodo in una perfetta sequenza di cibi e di vini. E i convitati "si sentivano alleggerire di peso e di cuore più mangiavano e bevevano". E' il trionfo di Babette, e anche, se volete, dello "slow food". Babette non ha cucinato la sua costosissima e laboriosissima cena francese per sfamare una decina di vecchi inaspriti, e i vecchi del paese non sono lì per la cena, ma solo per onorare la memoria del loro decano. Ma Babette ha cucinato per amore del cibo, nel quale ha le sue rodici. Infatti, prima di fuggire da Parigi, era grand chef del più famoso ristorante parigino. Considerata, nonostante fosse donna, e la sola donna chef, il più grande genio culinario del suo tempo. Una donna, dicevano i suoi avventori, "che sapeva trasformare un pranzo in una specie di avventura amorosa".
Alla fine di questo stupendo "slow food", i vecchi ospiti sono felici, gli ostili fanno pace, i nemici si vogliono bene. E, come dicono le due anziane sorelle, "le stelle sono venute più vicino". Come a confermare il significato rituale del cibo assaporato in compagnia, una maniera di mangiare che non tollera la fretta. Come generalmente non tollera fretta mangiare cibi preparati lentamente, che richiedono cura e attenzione, che in qualche caso coinvolgono tutto un gruppo. Come, ad esempio, lo zighinì che ho visto preparare fra le capanne di un villaggio all'interno della Guinea. Ore di lavoro per tagliare in piccolissimi pezzi bue e montone e verdure. Altre ore per mescolare le salse e controllare il fuoco di sterpi. Tutte le donne del villaggio si avvicendano in questo lavoro. fino al momento in cui, arrivata la sera, ci si siede per terra, in circolo, intorno alla grande ciotola comune dalla quale si attinge con piccoli pezzi di una sottilissima focaccia. Noi diciamo qualche volta, di chi non sa stare a tavola o di chi giudichiamo selvaggio, che "mangia con le mani". Ma il mangiare con le mani, fra quelle capanne africane, aveva un ritmo affascinante. Di balletto, o forse di preghiera.
In Africa, come nei paesi orientali, non esiste quella che noi definiamo "abbuffata", scorpacciata. Non solo per ragioni economiche. Si può immaginare una cena cinese altrimenti che come una coreografia? Dove il tavolo è una tavolozza sulla quale ogni scodellina porta un colore, e dove le bacchette consentono di assaporare piccolissime quantità di cibo, quindi senza problemi di orologio.
E a proposito di orologio: una volta l'orario dei pasti era una regola da non mettere in discussione. Occorrevano buone o gravi ragioni per ritardare o mancare all'ora di pranzo o di cena. Ora la regola vale sempre meno, e gli orari dei posti sono spesso segnati da individuali tonfi dello sportello del frigorifero, dal ronzio del frullatore, dallo sfrigolio del forno a microonde. Ma c'è ancora, la domenica, in molte famiglie, la tradizione di riunirsi. Con la pastasciutta, l'arrosto e l'insalata e il dolce: che sono qualcosa in più di un cibo, sono un modo per stare insieme. E stare insieme significa non avere fretta. Anche perché non si possono mangiare in fretta quei cibi che sono stati preparati con cura e con lentezza: dal pesto alla genovese, tanto basilico pestato nel mortaio di marmo, al ragù napoletano che, Eduardo insegna, deve cuocere per ore, ed è prova di affetto cucinarlo bene, alle orecchiette pugliesi, quelle piccole forme di pasta dove la mano lascia l'impronta della sua umanità scavandole col dito, una per una. E, ancora, i tortellini che le donne emiliane arrotolano diligentemente alla vigilia delle feste, e si dice ripropongano la forma dell'ombelico di Venere.
Ho scritto "le donne": ma spesso sono gli uomini, a gestire la preparazione dei piatti per le occasioni importanti. Gestire, perché loro, gli uomini, disdegnano le mille operazioni minute indispensabili in cucina. Infatti, quando cucina lui è tutto un chiamare figli, nipoti, zie e cognate. Lui è lo chef, Loro, i garzoni.
Mio nonno era bravissimo a fare la pasta, a tirare le sottilissime sfoglie per i ravioli, o le tagliatelle, da riempire di carciofi tritati e uova in occasione della Pasqua. Aveva belle braccia muscolose e grandi mani, mio nonno, e prima di fare la pasta, fasciato in un enorme grembiule candido, le lavava con il rigore di un chirurgo in sala operatoria. E guai a noi se ci coglieva a mangiare in fretta. Diceva che era antigienico, e anche incivile. Mio nonno, inoltre, era incaricato di fare la polenta. Quando non lo vedevamo in attesa, col suo sobrio cappotto scuro e la lobbia nera, all'uscita della scuola, questo significava che quei giorno a pranzo c'era la polenta. Per noi era una grande festa. Arrivando a casa, entravamo di corsa nella grande cucina un po' scura.
Non avevamo il gas, si cucinava con il carbone, e in fondo alla cucina c'era il riverbero della fiamma sul paiolo, e il nonno che girava la polenta con un lungo mestolo. Poi, la polenta arrivava a tavola, veniva divisa e condita: una specie di rito. E il nonno, tolto il grande grembiule, rimessa la giacca di serge nero, sedeva a capotavola e sorvegliava che mangiassimo adagio. Perfino durante la guerra le patate fritte nello strutto, per lunghi periodi il nostro unico posto, dovevano essere mangiate lentamente. Perché erano poche, e bisognava assaporarle bene, o perché avevamo ormai imparato l'arte dello slow food? Poi è arrivato un periodo ancora più duro, in cui avevamo soltanto castagne, quelle fatte seccare e conservate.
Per tutto il giorno c'era sulla stufa questa pentola di castagne che borbottavano cuocendo, e sarebbero state il nostro pasto, a pranzo e a cena. Però non accadeva mai che uno di noi prendesse la suo scodella di castagne e la mangiasse per conto suo in un posto qualunque. No. Ci si sedeva a tavola, tutti insieme, con piatti, posate, bicchieri e tovaglioli. E si mangiava adagio, parlando fra noi di come stavano andando le cose in famiglia e nel grande, terribile mondo di fuori.


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