§ Rivisitazioni

Dimenticare Salvemini




A. Provenzano, E. Stukovitz, M. Massaro



Ha scritto di recente Giuseppe Galasso che tra le personalità eminenti della storia politica e culturale dell'Italia unita Gaetano Salvemini si distingue, fra l'altro, anche per la complessità della sua posizione. In lui si annodano robustamente, infatti, i fili di alcuni dei maggiori temi di fondo di quella storia: socialismo e riformismo, Risorgimento e "processo al Risorgimento", meridionalismo e democrazia, positivismo e marxismo, Cattaneo e Mazzini.
Di questa complessità, che per alcuni versi rende centrale la figura di Salvemini, non sempre vi è piena coscienza nella vita pubblica italiana, e ciò non è positivo. Ma ancor meno commendevole è che non vi sia piena coscienza persino negli studi. Troppo spesso di Salvemini si segno la vicenda per l'uno o per l'altro degli aspetti in cui essa si è articolata e sviluppata: il meridionalista o il socialista o il riformista, e così via. E ancoro più rimane in ombra il posto che gli spetta come un vero classico della democrazia, intesa come tradizione autonoma rispetto a liberalismo e socialismo.
Si prenda il punto del meridionalismo. L'analisi che Salvemini faceva della storia e della natura della questione meridionale non è più tale da soddisfare le esigenze odierne al riguardo. Ma le domande che egli si poneva per l'aspetto politico della questione sono ancora oggi decisive: "C'è, nell'Italia meridionale, un punto d'appoggio, su cui si possa far leva per sollevare il mondo sociale? o, in altre parole, c'è nell'Italia meridionale un partito riformista? e, se non c'è, è possibile che sorga? e quali sono le persone che lo comporranno?".
Salvemini rispondeva negativamente, e c'è mativo di credere che, mutati tutti i termini, ciò valga ancora ai nostri giorni. A sua volta, Salvemini fondava le proprie speranze sul "proletariato rurale" delle regioni meridionali che, in alleanza con quello industriale del Nord, avrebbe potuto fornire l'esercito necessario per vincere la guerra delle riforme nell'intera penisola. La suo indicazione venne recepito, com'è noto, e ampliato da Gramsci in chiave marxista. Oggi esso appartiene all'archeologia politica. Ma il coraggio e la lucidità della risposta negativa su cui si fondava farebbero molto bene al discorso meridionalistico dei nostri giorni. Fra l'altro, in fatto di coscienza nazionale, non è male ricordare che gli operai del Nord, le mitiche tute blu sulle quali si contava per far emergere l'intero Paese dall'antica arretratezza, non colsero l'occasione della grande alleanza, ma si chiusero nella difesa dei propri interessi, diremmo corporativi, abbandonando le plebi rurali del Mezzogiorno alla loro terrificante deriva.
Si prendo, ancora, il punto del riformismo e del socialismo. Pochi critici la tradizione socialista italiano ha trovato nel suo corso altrettanto intelligenti e lungimiranti di Salvemini. Le sue osservazioni sul contrasto fra socialismo settentrionale e socialismo meridionale e la motivazione della sua scelta riformista rispetto al massimalismo prevalente nel vecchio socialismo italiano sono materia di pagine da considerare classiche.
E si prenda pure la questione dello laicità: la consueta chiarezza porto Salvemini a dichiarare che Mazzini aveva torto a dichiararsi per un assoluto monopolio pubblico dell'insegnamento, non meno che i cattolici a rivendicare una scuola confessionale.
Queste qualità di lucidità, chiarezza, coerenza e coraggio danno alle analisi di Salvemini una tale proiezione nel tempo da renderle a volte, per così dire, perenni. Si pensi solo all'attualità, dopo quasi ottant'anni, di questa critica che risale al 1912: "Ciò che -egli scriveva - noi rimproveriamo al partiti democratici tradizionali non è il loro ideale astratto di elevamento autonomo delle classi inferiori: è, al contrario, la inettitudine a tradurre questa aspirazione generica in serie forme concrete di utilità nazionale; - è la incapacità a dominare e coordinare gli appetiti e gl'interessi dei gruppi locali e delle categorie professionali in vista degl'interessi collettivi; - è il sacrificio continuo che essi han fatto degl'interessi permanenti collettivi agl'interessi transitori dei gruppi [ ... ]; - è la confusione e l'anarchia morale, che essi hanno indotte nella vita pubblica, facendosi acquiescenti o complici di qualunque peggiore disordine e ingiustizia, pur di essere soddisfatti nelle loro sciocche vanità, nelle piccole ingordigie locali o professionali, nei loro miserabili rancori".
Questa esemplificazione potrebbe facilmente allungarsi di molto. Ma la bella sostanza che la sollecita induce a ricordare, ancora, che al fondo della riflessione di Salvemini, come ben si vede dall'ultimo posso citato, prevale su tutto l'istanza morale. Non a torto gli fu spesso imputato di essere moralista, e astrattamente moralista; e gli capitò spesso, a dir la verità, di esserlo.
Ma opporsi al suo moralismo volle dire ancora più spesso respingere anche la sua moralità e la sua istanza morale, che erano così conseguenti da riguardare la vita intellettuale ancora prima della vita civile. Se poté esercitare tanta suggestione spirituale e culturale, lo si dovette innanzitutto alla forzo del suo appello alla moralità.
Ovviamente, c'è da chiedersi pure come mai una simile lezione di analisi politica, di lungimiranza, di moralità, non abbia trovato nel nostro Paese una risposta politica adeguata al suo rilievo. Ma Salvemini stesso potrebbe rispondere che l'Italia è fatta così; che combatterla e battersi per essa, tormentarla e amarla è il destino ineludibile degli italiani migliori; e che solo se questi migliori non si stancheranno mai, sarò possibile un'Italia diversa.
In ultimo, egli sperava anche in una grande "conversione democratica" dei comunisti, che sarebbe pur finita col venire un bel giorno. Oggi, dopo trent'anni, pare di essere di fronte a qualcosa di simile, ma in maniera ancora così confusa da rendere molto perplessi. E, comunque, quante altre "conversioni" sarebbero necessarie per un'Italia più vicina e più aderente allo spirito salveminiano?
Ha scritto Bertrand Russel: "Quando parlano gli italiani colti mi pare spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto perché quello che dice lui lo capisco, e quello che pensa lo penserei anch'io".
E' una considerazione molto bella; bella e veritiera. Pochi altri come Salvemini furono convinti che "chiarezza nell'espressione èprobità nel pensiero e nell'azione". E in lui l'esigenza di chiarezza, il rifuggire dai guazzabugli della filosofia (specialmente di quella idealistica; e per questo non amò Croce) faceva tutt'uno col profondo credo democratico.
"Io - confidò in uno scritto - mettevo dal punto di vista di un operaio, magari di un contadino analfabeta, convinto che essi avevano il diritto di capire, se volevamo essere democratici per davvero, e non sacerdoti di riti arcani". Le chiacchiere a vuoto dei barbassori inconcludenti - dei "Fabbricatori dei buio", come egli li battezzò - tradivano la volontà di sottrarsi ai doveri dell'azione morale; veleggiare nei liberi spazi in compagnia degli angeli, dei passerotti (e dei Filosofi hegeliani), significava per Salvemini complicità nella conservazione dello status quo: in una parola sola, "vigliaccheria". Il suo stesso socialismo non venne puntellato mai da costruzioni scientifiche o sedicenti tali, né mai si fregiò del blasone di un qualche sistema filosofico compiuto e perfezionato.
Era invece il socialismo che si prodigava per un "po' di bene per tutti", che denunciava il sopruso e avversava i privilegi, tutti i privilegi, anche quelli che gli operai delle regioni industriali dell'Italia settentrionale difendevano pervicacemente a danno dei pastori sordi, dei carusi siciliani, dei cafoni pugliesi.
Allo stesso modo, era un purissimo bisogno etico che lo traeva a sostenere l'ideale democratico, e questo si riassumeva nel rispetto che egli nutriva per l'umanità dei suoi simili; una umamtà fatta non già da "pecore cieche bisognose di pastori infallibili", ma vivificata da uomini diritti, soli artefici dei propri destini. Ma, appunto, di ideale si trattava. Salvemini non si illuse mai sulle effettive capacitò delle moltitudini di autogovernarsi. Ai suoi occhi smaliziati, la realtà appariva ben lungi dal soddisfare gli assiomi democratici: nei regimi di democrazia - egli osservava - la collettività non partecipa, o partecipa solo saltuariamente, alla vita politica; questa è affare dei partiti, e i partiti sono minoranze organizzate.
La democrazia, dunque, è un regime di minoranza; più precisamente, è un regime di "libera concorrenza fra libere minoranze". Tutto qui. Se mai verrà, è ancoro lontano il tempo della democrazia "ideale"; della democrazia che impegna tutti i cittadini a difendere con intelligenza e con probità la causa dei benessere generale. Ma se è vero che fatti e valori stanno su piani diversi e non comunicano fra loro, ne segue che il democratico sincero riconosce, è vero, che le moltitudini sanno soltanto "mangiare e far figli"; ma non per questo, tuttavia, egli eleva ad ideale l'arte di governo che sfrutta "la brutalità umana anziché sviluppare più che sia possibile le forze superiori dell'intelligenza e della moralità [ ... ]. E il solo metodo disponibile per educare quell'intelligenza è la libera discussione, con tutte le libertà implicate in essa".
Ad avviso di Salvemini, dunque, l'unico modo per affinare gli animi e per dirozzare gli ingegni consisteva nel diffondere fra le moltitudini il senso e la pratica della democrazia. E a questo "apostolato" democratico avrebbero dovuto provvedere innanzitutto i partiti politici. Ma i partiti - i partiti di tutte le specie - erano dominio di piccoli borghesi "famelici e mascalzoni", che nulla avrebbero potuto insegnare quanto a disciplina intellettuale e a dirittura morale.
Di qui, dal vedere disattesi i doveri educativi, muove lo sdegno che faceva vibrare la prosa salveminiano, e quando l'indignazione non si stemperava in ironia sottile, esso dilagava in sarcasmo scarnificante, e talvolta in vere e proprie grida di rabbia e di dolore. E in questo modo, di Filippica in Filippica, dopo reprimende che non risparmiavano nessuno -e men che mai gli uomini che più amava (con acerba ingenuità, ma anche con aperta provocazione, giunse a dire: "Non ho mai conosciuto un fesso che non fosse anche socialista") - Salvemini si ritrovò solo, con pochi altri, tutti "liberi tiratori" e "pazzi malinconici" come lui.
Per quanto vituperasse i partiti politici come consorterie di "abominevoli carogne", mai Salvemini depose le speranze di miglioramento, e mai inscrisse la democrazia fra le chimere che costellano l'universo degli ingenui. Fino all'ultimo si appellò alla fede sincera e alla robusta intelligenza dei giovani che militavano nei partiti laici e socialisti. A quanti di loro gli chiedevano indicazioni sul da farsi, egli soprattutto sconsigliava la diaspora e la creazione di nuovi partiti: "Combattete i vostri vescovi - diceva - ma rimanete nelle vostre chiese". Di qui, anche di qui, l'insofferenza verso i gruppi di più recente formazione (è rimasto celebre il giudizio tagliente - e alquanto ingiusto - che diede del Partito d'Azione: "Un partito di gente che non sa bene quel che vuole, ma che lo vuole subito"). Questa gioventù, a suo avviso, sarebbe dovuta rimanere al suo posto, rifuggendo da appetiti ministeriali e senza abbandonarsi a sbracate declamozioni rivoluzionarie. Così, essa avrebbe potuto scalzare i vecchi "politicanti cialtroni". Di poi, ci sarebbero stati tempo e agio per provvedere a quell'opera di educazione senza la quale le istituzioni si riducono a un penoso simulacro.
Generose illusioni! Che cosa avrebbe detto, Salvemini, delle nuove generazioni di politici? Di tanti figuri che stanno a metà fra i cortigiani e i guappi, e che sembrano vecchi già appena nati? Veramente avrebbe atteso da costoro il risanamento del costume nazionale? Certamente, no. E' anzi probabile che da tanto miseria morale e politica egli avrebbe tratto motivo per intensificare l'attività di sempre, che fu quella di denunciare le porcherie e le asinità delle classi dirigenti, vecchie o nuove che fossero.
E così operando avrebbe confermato che l'avvenire della democrazia, in fondo, dipende dagli spiriti liberi, dagli uomini, (per dirla con le sue stesse parole), "profondamente, istintivamente liberali e democratici, e per questo avversi ad ogni settarismo e volgarità demagogica, i quali [ ... ] con l'esempio di una vita nobile e pura, vissuta in uno sforzo continuo di perfezionamento e di dovere, suscitano in tutti coloro che hanno la ventura di conoscerli le aspirazioni e le azioni migliori". Possiamo essere &accordo: i partiti politici son quel che sono, e non solo in Italia, e non vanno demonizzati. Purché non si dimentichi che di uomini come Salvemini, di siffatti "pazzi malinconici", la storia dei popoli ha gran bisogno. Oggi assai più che al tempo del grande pugliese.

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