§ Verso il 2000

Col cuore viola




Aldo Bello



Se si ripercorre la nostra storia del dopoguerra, ci si imbatte in una serie di fenomeni che segnano la vita pubblica e la rendono sostanzialmente insoddisfacente. Si tratta di meccanismi che si autoalimentano, con azioni e reazioni che si riproducono, sempre uguali a se stesse, e che ad ogni chiusura del circolo vizioso accrescono il deterioramento della cosa pubblica.
Alcuni esempi. Tipico il caso delle politiche meridionalistiche e dei loro effetti. Per superare il divario Nord-Sud si varano misure straordinarie di natura temporanea, con investimenti pubblici e agevolazioni allo sviluppo che dovrebbero favorire il decollo economico del Mezzogiorno. Il quale, però, non si verifica, perché quegli investimenti non riescono a funzionare da propellente di una crescita autosostenuta, ma producono l'effetto non previsto - e inizialmente non voluto - di un gigantesco sistema assistito e clientelare. Questo stesso sistema, poi, si trasforma in ostacolo allo sviluppo del mercato privato e alimenta una formidabile rete di collusioni politico-affaristiche che si nutre delle aspettative (e dei finanziamenti) del mercato pubblico-politico, anziché di quelle - pulite, o meno sporche - del mercato economico-privato. Di conseguenza, le identiche politiche che dovevano ridurre il divario diventano il volano del suo mantenimento. E poiché il divario c'è, ed è innegabile, si prosegue sulla stessa strada: nessuno può cancellare il ragionevole dubbio che si tratti di una scelta.
Secondo esempio: l'Università, dal 1968 ad oggi. Una proposta di riforma innesca la jacquerie sessantottesca. La jacquerie affonda il progetto e il governo risponde alla protesta di piazza con una misura demagogica (la liberalizzazione degli accessi). In parte, ciò è spiegato da una tradizione plurisecolare: dai Dogi veneti agli Stati della Chiesa e ai governi della Repubblica, i problemi di ordine pubblico sono stati affrontati, per lo più, distribuendo brioches alle folle scalmanate. Per l'altra parte, è spiegato da un particolare assetto istituzionale fondato sul potere di veto anziché di decisione: le misure demagogiche possono raccogliere più agevolmente il consenso parlamentare delle riforme generali. Risultato: un'università di massa con strutture che restano di élite. Con la contraddizione fra sollecitazioni al di la della sua capacità di tenuta e un crescente deterioramento del sistema universitario. Fra le conseguenze negative, il reclutamento improvvisato di orde di precari (spesso senza vocazione né attitudine alla ricerca scientifica) per fronteggiare in qualche modo la crescente pressione studentesca.
Lo "sgarrupamento" pone le premesse per la nuova rivolta (1977), che dà un'ulteriore spinta al crollo e spiana la strada agli inquadramenti ope legis del - mediamente - mediocre precariato accumulatosi nel decennio. La caduta a vite continua, fino alla riforma, con intenti non demagogici, di Ruberti: i tempi, però, sono maturi per un'altra levata di scudi, partita da Palermo e strumentalizzata (ma con molte contraddizioni) altrove da opposte forze di Vandea e di giacobinismo.
Terzo esempio. la pubblica amministrazione. In un sistema amministrativo con rendimenti bassissimi, se non addirittura in deficit, le frustrazioni professionali del personale sono elevate. Ad esse, la classe politica risponde in termini di miglioramenti salariali e di distribuzione di privilegi normativi, guardandosi bene dal farlo in termini di riorganizzazione dei servizi e di valorizzazione delle professionalità. Accade in Italia che il "privilegio" acquisti immediatamente la corposità del diritto, con conseguente ulteriore abbassamento della qualità dei servizi. Di qui, altre frustrazioni e concessione di nuovi privilegi. Risultato: strutture pubbliche occupate da frustrati con bassissima professionalità, ma ipergarantiti e tracotanti nei confronti del cittadino.
Il circolo vizioso italiano mostra dunque l'esistenza di meccanismi perversi fondati sulla coazione recidiva, e nei quali tutti - ma proprio tutti - gli attori sono coinvolti, vittime e carnefici, secondo la legge del complesso di Stoccolma. Possono spezzarsi, questi meccanismi? Talvolta, sì. I fenomeni sociali sono diversi da quelli naturali. la vita sociale è retta da combinazioni variabili di determinismo, casualità e libertà. Se i responsabili della vita pubblica facessero bene il loro mestiere e non indulgessero nelle prediche ingannatorie, quei meccanismi sarebbero meglio identificati, compresi, annientati. Così non è. E riemerge l'altro ragionevole dubbio, che si rifà al primo: non può che essere una scelta, forse per la vita e per la morte. Per la vita di alcuni, per la morte (civile) di altri.
Torniamo al problema del Sud, che è sempre stato un problema nazionale. Ma oggi, a differenza del passato, implica ragioni politiche, più che economiche. Riflette, deformandola e ingigantendola, la crisi del sistema dei partiti. i quali, per bilanciare le secessioni dell'elettorato "nordista", sono costretti a meridionalizzarsi. Cioè: per garantirsi consenso, sono costretti a difendere accanitamente l'attuale modello di spesa pubblica, sebbene questo sia causa del crescente collasso civile e istituzionale del Sud.
Ciò spiega anche perché, per una specie di riflesso pavloviano, essi sono in perpetua lite fra loro, ma sono al tempo stesso sempre pronti a coalizzarsi per impedire ogni minima innovazione della politica meridionalistica. Ciò ha consentito che l'intervento straordinario, per il suo carattere eminentemente assistenziale, si trasformasse nel terreno di scontro tra lobbies politiche e sociali per il controllo, la gestione e la spartizione delle risorse pubbliche. E tutto questo ha spalancato i varchi al potere delle mafie e al governo del malaffare. Ciò alimenta la faziosità del nuovo sanfedismo del Nord, regalandogli il monopolio della critica dell'attuale nefasta politica per il Sud.
Il quale Sud non è più quello d'un tempo: povero e arretrato. E malgrado ciò, cresce la sua disgregazione interna. L'immobilismo fatalista è memoria storica. Oggi, la società e l'economia meridionali sembrano soffrire piuttosto per una dinamica incerta e precaria. Mancano uomini (dove vi siete rintanati, meridionalisti? che fine avete fatto, dopo aver gestito gli strumenti dell'intervento straordinario? come sterili Cassandre, non avete creato eredi?), idee guida, progetti, istituzioni capaci di organizzare e finalizzare gli sforzi della parte sana del suo corpo sociale. Il fatto è che nonostante cambiamenti e trasformazioni anche profondi, il sud ha visto fallire - se mai fu impostata - la più grande rivoluzione ideale: quella che avrebbe dovuto impedire a questa terra di vivere in larga parte una condizione di dipendenza assistita. Che non era - non è - una condizione solo economica; ma sociale, politica e culturale. Giustamente è stato osservato che la crisi di identità dei suoi soggetti fondamentali - partiti, sindacati, imprese e istituzioni - alimenta ogni giorno di più il già pesante deficit di autorità pubblica. In gran parte delle regioni meridionali, lo sviluppo economico e la convivenza civile sono sempre più intrappolati nella crescente propensione al non-governo. Ma poiché la dipendenza assistita vive fagocitando soprattutto salari, finta assistenza e profitti gonfiati grazie ai trasferimenti dell'intervento straordinario, è impossibile che questo stato di cose si modifichi se non si prosciuga la fonte economica che garantisce a questo modello aberrante di riprodurre, parallelamente o in regime di collusione col malaffare, anche il consenso che genera poteri e fortune. Se tutto questo diventerà valore condiviso anche nelle regioni meridionali ancora oneste o meno intaccate dal cartello del crimine e delle lobbies politiche, il Sud sarà perduto per sempre. E non solo il Sud.
Il prete o il monaco mafioso o camorrista: figure che abbiamo visto ricorrere spesso nella narrativa, nel cinema, nella tradizione orale. E poiché nulla nasce dal nulla. forse neanche le dicerie, era presumibile che si trattasse di figure riscontrabili anche nella realtà. Cosa che, in più di un caso, le cronache giudiziarie hanno confermato. Ora, però, siamo di fronte a una denuncia che viene dall'interno stesso della Chiesa. Dai preti del "triangolo della morte" Casteldaccia-Altavilla Milicia-Bagheria; da quelli del "quartieri" napoletani; dagli alti prelati palermitani, catanesi (che differenza, dai tempi dell'intrigante cardinal Ruffini!), napoletani; e dal preside della Pontificia Facoltà di Teologia dell'Italia Meridionale, monsignor Cipriani. Il quale ha usato, sul rapporto tra vita ecclesiastica (la vita religiosa, addirittura) e la criminalità organizzata, parole e giudizi di una inedita gravità. Si tratta di un evento storico e di rilevanza politico-sociale, con risvolti palesi dal punto di vista culturale. "La pietà popolare - ha detto - va purificata da tradizionalismi e da tutte le possibili infiltrazioni camorristiche". A suo avviso, "la pseudo-cultura camorristica pervade anche le forme di pietà popolare più genuine e più autentiche". Di qui, l'appello a una "denuncia più coraggiosa che eviti qualsiasi connivenza" da parte del clero, e in particolare "ogni sospetto di connivenza anche attraverso i sacramenti". E di qui, anche, l'appello ad una predicazione dei Vangelo "attraverso le forme più proprie della pietà popolare", una volta che esse siano immunizzate da ogni rischio di infiltrazione inquinante.
E' una denuncia difficile in ambiente ecclesiastico. E non per ragioni soprattutto politiche o soprattutto sociali, ma morali e religiose. Il rapporto col peccato e col peccatore è la vocazione più propria della Chiesa, (pecorella smarrita, figliuol prodigo, Maddalena), al quale non può rinunciare senza rinnegare il processo di conversione del peccato alla penitenza e al riscatto. La lotta al peccato dev'essere intransigente, quella al peccatore no: e a rigor di termini, non può essere neppure una lotta, ma solo un'azione di pietà. Perciò, a suo tempo, (ed era un tempo di grandi, frontali, drammatiche contrapposizioni ideologiche tra il mondo della libertà e quello del totalitarismo comunista), Giovanni XXIII distinse tra l'errore e l'errante. Sembrò allora, dati i tempi, una distinzione nuova e persino audace. Ma non lo era: rientrava nella più autentica dottrina cristiana.
La denuncia, però, tocca punti assai più delicati, in particolare quando critica il possibile rapporto culturale fra il male (il cartello del malaffare) e la pietà popolare. il fatto che mafia, camorra e 'ndrangheta non siano solo grandi fenomeni di patologia sociale. ma anche espressioni portatrici di particolari simboli e valori antropologici, e quindi culturali, non èabbastanza chiaro. Eppure è così, e non ci vuoi molto a capirlo. Simboli e valori che non sono, peraltro, solo quelli della violenza e della tracotanza, del desiderio smodato di dominio e di ricchezza, della suggestione di emozioni forti, della debolezza prodotta dal bisogno pratico o da una fragilità psicologica e morale. Sono anche simboli e valori legati a forme paradossali di solidarietà, ad ancestrali bisogni di rivolta e di rivalsa di emarginati e oppressi, ad atteggiamenti di presunta più effettiva umanità.
Su questi diversi e concatenati piani, il rapporto con forme non solo di superstizione, ma anche di devozione, è molto antico. La devozione un pò funge da compensazione spontaneamente attuata del male che si sa di commettere. Un
altro po' funge da elemento di integrazione, da cemento giustificativo degli sparsi elementi, di cui la mentalità e il comportamento "cattivi" si compongono e si alimentano. Un altro po' ancora deriva dalla prima formazione culturale dei "cattivi", ed è un loro modo di tenersi fedeli a quella che possono reputare la migliore immagine di sé. Un altro po', infine, si compone di aspetti complementari, minori, estemporanei, che possono variare da caso a caso.
Il viaggio della criminalità organizzata alla devozione è, quindi, ben comprensibile. Meno comprensibile, ma non meno effettivo, è il viaggio della devozione alla criminalità organizzata, che è quel che sembra ispirare di più l'allarme della Chiesa. Che giustamente connette infiltrazioni mafiose e camorristiche nella vita ecclesiale e nel tradizionalismo. Si tratta di evidenti effetti di ritardo culturale nell'uno e nell'altro caso. E anche qui il discorso è, per la Chiesa, difficile: il tradizionalismo è, o può essere, una sua dimensione deteriore, ma io tradizione ne costituisce l'anima, ed è. irrinunciabile. Forse, monsignor Cipriani pensava proprio a questo quando chiedeva alle chiese del Nord maggiore comprensione e solidarietà per quelle del Sud. E' presunzione generale, infatti, che il tradizionalismo sia una nota distintiva particolare del cattolicesimo meridionale, legata magari a sopravvivenze pagane, a sincretismi con le credenze e con i culti del mondo pre-cristiano, con perpetuazioni di saggezze o di superstizioni millenarie. Personalmente, siamo molto scettici su queste valutazioni, sebbene esse abbiano, o possano avere. a loro fondamento elementi non trascurabili. Comunque, prendiamo atto che c'è un tradizionalismo; che esso connota senza dubbio il cattolicesimo del Sud; che ad esso si possono saldare altri elementi di ritardo e di particolarismo culturale. E' sufficiente questo per capire quanto complessa e delicata e importante sia la questione sollevata: non si tratta, in ultima analisi, del singolo ecclesiastico che può sbagliare e connettersi alla criminalità organizzata; né di questo o quell'episodio spettacolare e male indirizzato di "pietà" nel senso tradizionalistico del termine. Si tratta di un rapporto fra predisposizioni culturali affini nella loro matrice ritardataria, che possono perciò colludere e sostenersi reciprocamente, con danno gravissimo sia della vita religiosa sia di quella sociale.
Il problema non riguarda, però, solo la Chiesa. Sussiste anche al di fuori di essa, nell'intera esperienza sociale del nostro, così come di altri tempi. E non si può dire che la cultura laica, per quanto la riguarda, e come sarebbe stato -sarebbe - conveniente, abbia misurato tradizionalismi e ritardi extra-ecclesia.
D'altra parte, non è da supporre neanche che col ritardo culturale si spieghi tutto. Vi sono aspetti per cui i fenomeni di malaffare si legano, invece, alle forme più avanzate del nostro tempo (e non parliamo soltanto degli strumenti tecnici di cui essa si serve). E' vero che il cartello del crimine non può vincersi con gli studi. Ma occorre anche studiarne le componenti varie, effettive, profonde, se non si vuole procedere alla cieca. E in questo, mondo cattolico e mondo laico hanno opinioni e metodi di studio diversi; mentre sarebbe opportuno che essi, insieme con le forze politiche e sociali, lavorassero ad una costruttiva solidarietà di sforzi.
Annunciata dalle critiche di larghi settori dell'intellettualità e dei ceti produttivi, divenuta obbligatorio luogo comune di ogni giudizio responsabile sulla situazione del Paese, rilevata dai sondaggi d'opinione, anticipata da almeno un decennio di mugugni sulle pubbliche disfunzioni, la crisi delle nostre istituzioni politiche - lo "scollamento tra Paese legale e Paese reale" - è stata sanzionata ufficialmente dal riconoscimento dell'esistenza di una "questione settentrionale", che ora si traduce anche nello scheletro nell'armadio di un cartello del crimine economico organizzato, e che all'inizio si è incentrata sul successo, non solo elettorale, delle "leghe". E di queste intendiamo parlare. Non semplice segnale di un problema, ma piena manifestazione di questo, il fenomeno leghista merita un'analisi, al di la delle autoesaltazioni e anche delle liquidazioni, poiché rappresenta un coacervo dei serissimi mali che affliggono l'Italia come entità politica.
La lega del Nord, fortissima in Lombardia, si propone quale portatrice di istanze riassumibili - semplificando, ma non troppo - nella contrapposizione fra Stato e società: secondo questa opinione, l'ingiusta distribuzione statale degli oneri e delle risorse è contraria all'equità che vuole i lavoratori più laboriosi, se non privilegiati, almeno non sistematicamente danneggiati. Questa percezione d'ingiustizia è espressa emblematicamente nell'opposizione tra Stato unitario (che si presume egemonizzato dai meridionali) ed "etnici lombarda", fra efficienza e vocazione parassitaria, fra privato e pubblico, e, in positivo, nella proposta - alternativa rispetto al centralismo romano - di un radicale federalismo, che, pur esemplato su quello tedesco, presenta, soprattutto nel cruciale settore fiscale, toni e progetti obiettivamente non sopportabili dall'attuale forma dello Stato italiano, né dalla sua costituzione politica formale né dal sistema di allocazione delle risorse in cui consiste la sua condizione materiale.
Le leghe sono infatti accusate, dal punto di vista costituzionale, di localismo qualunquistico: di essere, cioè, il "particulare" che, ignorando la necessità della politica, si oppone all'universale, alla civile e moderna dimensione dello Stato; sotto il profilo economico, poi, sono imputate di dimenticare strumentalmente i grandi vantaggi che il Nord ha tratto dallo Stato unitario, in termini di protezionismo e di espansione del mercato, di disponibilità di servizi e di manodopera a basso costo, di ricorso - nei momenti di difficoltà del suo sistema industriale - a ingentissime risorse pubbliche: quelle della cassa integrazione e quelle della fiscalizzazione degli oneri sociali. Di fatto, due autentiche macchine mangiasoldi.
Tanto grave è parsa l'insufficienza della cultura politica leghista, tanto vernacolari le sue argomentazioni, tanto inapplicabili le sue proposte, che in un primo tempo non si è andati al di là di queste accuse e dell'infamante marchio del razzismo. Si è passati, dopo il successo elettorale, e uno stupore per esso che non riusciamo proprio a spiegarci, a interpretazioni opinabili ("voti in libera uscita"), a progetti di scarso respiro ("compratele!"), a ipotesi di sbarramento elettorale. Infine, e finalmente, ad analisi più pacate, anche se non insufficientemente preoccupate della situazione che le leghe rispecchiano.
Un'interpretazione che voglia essere radicale, e non caricaturale. delle leghe e di ciò che significano deve riconoscere che la loro esistenza sembra presentare, di per sé, caratteristiche potenzialmente rivoluzionarie. La rivoluzione nasce, appunto, nell'età degli Stati moderni, dalla percezione di una grave divaricazione fra vita concreta (economica e sociale) e politica formale, fra la realtà e l'astrazione dello Stato, nel quale larghi settori di cittadini non si riconoscono più.
Se è vero che la moderna forma/Stato -quella che, secondo la nostra Costituzione, ci troviamo a vivere - consiste essenzialmente in procedure di rappresentanza che permettono l'identificazione di tutti i cittadini nello Stato, se è vero che il sistema della cittadinanza ha come scopo la tutela dei diritti politici e civili, in primo luogo la libertà e l'uguaglianza, èperò anche vero che la concreta ragion d'essere di uno Stato è la sua efficienza: la sua capacità di "rendere giustizia" alle dinamiche degli interessi particolari, di non sacrificarli oltre il sopportabile, e di non rendere esplosivi i conflitti che, su questo terreno, inevitabilmente si generano; che sia efficacemente fornito questo complesso di "servizi" pubblici - dalla rappresentanza alla giustizia, dai trasporti all'ordine pubblico, dalla sanità all'istruzione, dalla difesa alla fiscalità - che permettono e incrementano la varietà della vita associata, è evidentemente la condizione imprescindibile dell'esistenza reale di uno Stato unitario.
Ora, che alcune fra le più ricche regioni di uno Stato - quelle regioni del Nord, che poi hanno dato tutto e il contrario di tutto, dal Risorgimento al Fascismo e alla Resistenza - ne contestino appunto l'assetto fondamentale, affermando che la forma della politica nazionale è del tutto estranea alla loro vita concreta e che i loro interessi non devono più essere subordinati ad un'unità che viene percepita come ingiusta e quindi rifiutata, non sarebbe tanto o solo, a rigore, un'egoistica mancanza di solidarietà, quanto, in linea generale, una vera e propria rivoluzione, cioè la fine della specifica forma politica dello Stato unitario.
Ma se anche è vero che il tessuto culturale, sociale e politico del Nord non si è irrimediabilmente lacerato, che non siamo di fronte a violenti fenomeni separatistici, ciò non significa che la crisi dello Stato, in Italia, non sia giunta, con ogni probabilità, ad un punto di non ritorno. Ogni riforma istituzionale, infatti, anche quella federalista proposta dalle leghe, (ma più per slogan, par di capire, che come progetto costituzionale), richiede il comune e concertato assenso proprio di coloro che nell'attuale situazione sono i principali percettori di rendite politiche (partiti e grandi organizzazioni sociali ed economiche). Non è facile sperare che, se non altro per spirito di sopravvivenza, di fronte alla minaccia delle leghe queste forze diano inizio ad una nuova stagione di dinamismo politico; almeno, di ciò non si vedono i segni, dato che pare prevalente la vecchia logica dei veti incrociati e della paralisi reciproca.
E una simile impasse, in un Paese che, come il nostro, nella sua storia unitaria non ha mai saputo rinnovare la propria classe dirigente senza traumi catastrofici, è un po' più che preoccupante: infatti, percepire un'acuta crisi politica e non trovare soluzioni praticabili è la vera causa di quel particolare fenomeno di trasformazione istituzionale e sociale che si chiama "decadenza" e che si prefigura sempre più come un'eventualità plausibile; e di questo scenario, è bene sottolinearlo, le leghe (del resto, gruppi non nuovi) non sono la causa, ma piuttosto un sintomo.
E' stoltamente consolatorio affermare che la crisi dello Stato è oggi generalizzato e prendere ad esempio il tracollo delle forme politiche dell'Est, o, più in generale, le difficoltà in cui versano le ideologie tradizionali. Anzi, quel tracollo dimostra proprio i rischi in cui si incorre quando le istituzioni sono inadeguate rispetto alle sfide che la vita concreta propone. Ed è in ogni caso illusorio pensare che il problema dello Stato, quale si presenta da noi, possa essere "diluito" e risolto in un ambito europeo, che si possa cioè configurare un assetto politico in grado di collegare efficacemente le etnie e il continente al di sopra delle sovranità statuali, ormai presunte obsolete. Chiunque abbia un po' di dimestichezza con la dimensione storica, geopolitica, economica delle dinamiche politiche contemporanee sa che l'Europa sarà fatta da Stati moderni, capaci di coniugare un efficace governo nazionale con la sovrannazionalità tanto quanto con le autonomie locali.
Ma ricostruire in Italia lo Stato e il senso dello Stato spetta, (pena, appunto, la decadenza), agli italiani, a tutti coloro che, nella crisi di cui le leghe sono la conseguenza, sapranno leggere correttamente l'opportunità di una nuova apertura dello spazio politico, la necessità di una cultura politica moderna.
Tuttavia, non pare che, in realtà, le cose stiano così. le leghe infatti non esibiscono né cultura né coscienza rivoluzionaria, e il mito politico al quale fanno riferimento per dar voce alle loro istanze (l'etnicità) non ebbe in passato, né ha ora, alcuna autentica valenza propulsiva, alcuna reale capacità antagonistica, alcuna credibile progettualità. le leghe, infatti, non sono preoccupanti per ciò che propongono, ma per ciò che denunciano: la degenerazione dello Stato, la sua inadeguatezza a fornire servizi essenziali che lo legittimino, l'occupazione partitica delle istituzioni, il patto scellerato fra corruzione politica e assistenzialismo clientelare. Insomma, la distruzione della dimensione pubblica, del vivere associato; e il venir meno del benefici anche economici che - lo si capisce nel momento della sua assenza - l'esistenza di uno Stato comporta. In altre parole, la tendenziale scomparsa in Italia della forma moderna della politica, sostituita da un sistema di consorterie, al tempo stesso solidali e contrapposte.
Non è escluso, infine, che ci si trovi di fronte ad un paradosso: che cioè il localismo leghista non sia una protesta radicale contro lo Stato, ma il desiderio inconsapevole di uno Stato che funzioni, che sia realmente l'espressione di una volontà moderna di politica giusta ed efficiente; e che le leghe non siano da qualificarsi come fenomeno qualunquista, ma da valutarsi piuttosto come l'estrema protesta di ceti che provano disagio civile e che lo esprimono in forme inadeguate, del resto prevedibili in un Paese da tempo privo (anche per responsabilità della sua classe dirigente) di una cultura politica degna del nome: nell'assenza di un'autentica coscienza politica, nell'inefficienza delle forme istituzionali, riemergono - nei momenti di crisi - non troppo antichi umori municipali.
Che poi questi umori siano affidati alla sottocultura e al macchiettismo strapaesano di alcuni personaggi degni della migliore tradizione della commedia dell'arte italiana, è un bene, e non un male. Infatti, chi può, onestamente, indignarsi sentendo il presidente della Liga Veneta dire che il Veneto è come la Lituania, che Garibaldi è come Renato Curcio, che Mazzini è paragonabile a Toni Negri, che il Risorgimento ha avuto analogie con la stagione del terrorismo? Non si può pretendere che tutti siano storici, e tantomeno che tutti sappiano quali e quanti problemi esistano e siano scientificamente dibattuti a proposito dell'utilizzazione delle leggi analogiche nella storia. Al più, si potrebbe pretendere un miglior profitto alla scuola dell'obbligo, al fine di evitare tali e tanti strafalcioni. E noi ci preoccuperemmo molto di più vedendo crescere il numero dei disoccupati, aggiungendosi ad essi che già son troppi, anche gli psichiatri, se sparissero dalla circolazione coloro che ritengono d'essere Napoleone Bonaparte. Allo stesso modo, potremmo reclamare che chi si occupa di politica (ossia della scienza che regola il comportamento tra i soggetti) parli di ciò che sa e lasci agli altri quel che ignora. Ma forse, se questa regola venisse seguita, si correrebbe il rischio di render muta una larga fascia della nostra classe politica.
Che cosa è grave, allora, di quel che abbiamo riferito all'inizio? Al di fuori del campo scientifico dell'antropologia culturale, il razzismo è un fenomeno veramente ripugnante. Perché è un'offesa alla morale comune, perché è un oltraggio al sentimento religioso in quanto affida la diversità tra gli uomini non a motivi culturali, in ogni caso da rispettare, ma a motivi naturali: la struttura fisica, il colore della pelle, il luogo di nascita, il modo di parlare ... Ossia, tutti fattori che condizionano lo sviluppo, ma non lo determinano, giacché questo - e cioè la formazione dell'individualità - è il risultato dell'azione storica degli uomini che devono, tutti, godere della libertà di formarsi come personalità etiche; le quali, a loro volta, costituiscono la comunità su cui si fonda la civile convivenza.
Ed ecco il punto: il razzismo (anche quello camuffato di storia), perché è negazione della libera storicità degli uomini che governano la propria naturalità, è lesione della convivenza: è un'infamia contro l'umanità comune.
Né l'Italia sentiva il bisogno di (ri)prendersela con coloro che, nel bene e nel male, la fecero una. Se il capo-ligaiolo fosse mai andato al di la del sussidiario nelle sue letture, avrebbe scoperto da tempo che contro il "frin-frin della concordia" se l'era già presa Massimo D'Azeglio, il quale era piemontese, e però accusava i piemontesi d'avere instaurato nel Sud "un governo basato sulle bajonette". Morì, D'Azeglio, mormorando: "Se avessi saputo allora. come ho scoperto di poi, che la democrazia è un uovo il quale per pulcino produce un conte, non me la sarei presa tanto calda". E ce l'aveva col Cavour.
E avrebbe appurato che Ferdinando Petruccelli Della Gattina, lucano di Moliterno, gran giornalista, deputato, il coraggio di dir (scrivere) male di Garibaldi e di Mazzini lo ebbe quando costoro erano in vita: "L'ora dell'uno è passata. L'ora dell'altro non fu mai. Coloro che si servono di questi due grandi italiani sono dei rimestatori o degli illusi, dei vaneggiatori o dei sospetti". Petruccelli Della Gattina non era un qualunquista. Sotto i Borboni fu dichiarato "pubblico inimico" e condannato a morte. Vale la pena di leggersi il suo splendido, e dimenticatissimo, I moribondi di Palazzo Carignano. E forse avrebbe scoperto che i due più celebri Giuseppe del Risorgimento non solo non furono ben visti dai governi italiani, ma qualificati come sovversivi: gente da sorvegliare minuto per minuto con l'uso di spioni, di falsi amici, di amici venduti, di parenti doppiogiochisti, oltre che da manipoli di informatori e di confidenti al soldo del ministero dell'interno. Il numero della pratica che riguardava Mazzini era il 591, Garibaldi il 223. Poi mutarono: 936 per Garibaldi confinato a Caprera, 129 per Mazzini esule a Londra.
Garibaldi era lo spauracchio d'Europa. Se lasciava Caprera senza avvertire, crollava la Borsa, mentre le polizie di mezza Europa andavano in tilt. E a spedire lettere cifrate al questore di Genova ci pensava il genero dell'Eroe dei due mondi, Stefano Canzio, che aveva sposato Teresita. Sorte peggiore per Mazzini. Tra il 1863 e il 1864, il capo della polizia organizzò una congiura contro Napoleone III, allora ago della bilancia della politica europea. L'attentato doveva esser compiuto a Parigi da quattro ex garibaldini. In verità, era tutto falso. Alla fine, il capo dei quattro, Pasquale Greco, di Pizzo Calabro, (il paese nel quale credette di trovar rifugio, ma vi trovò la morte per fucilazione Gioacchino Murat), rivelò che il mandante era Mazzini, esule nella capitale britannica. Così, quest'altro Padre della Patria venne svergognato in tutto il mondo. Le prove che il Greco era un agente del ministero dell'interno e del capo della polizia (Silvio Spaventa) ci sono: si trovano in una montagna di documenti, telegrammi, lettere confidenziali, rapporti riservati, messaggi cifrati, custoditi presso l'Archivio Gamba, da trent'anni annesso alla Biblioteca civica di Bergamo. Finché Torino fu capitale d'Italia, si trovavano all'ombra della Mole.
E avrebbe anche avuto il sospetto che la situazione italiana, molto spesso, è stata sbloccata da interventi esterni. Così fu ai tempi di Carlo Vili, che scese in Italia "senza colpo ferire, con gli speroni di legno e il gesso per segnare gli alloggiamenti", influendo in modo determinante nelle lotte intestine fra Stati della penisola. Così, in tempi più vicini a noi, con le tre famose "S": Solferino, Sadowa, Sedan. Nel 1859, vincendo i Francesi contro l'Austria, ottenemmo la Lombardia; nel 1866, vincendo la Prussia contro la stessa Austria, ottenemmo il Veneto; nel 1870, vincendo la Prussia contro la Francia, entrammo in Roma. E appena ieri diedero un nome alla nostra libertà due armate: l'ottava, britannica; e la quinta, americana.
E avrebbe appreso che, insieme con Cavour e D'Azeglio, con Gioberti e Rattazzi, con Garibaldi e Mazzini, c'erano i lombardi Casati e Confalonieri, i toscani Ricasoli e Capponi, i napoletani Settembrini e De Sanctis, il terrorista catto-piemontese Pellico, e l'altro catto-trentino Battisti, per non parlare dei padanissimi Manzoni e Verdi, a volere l'Italia unita dalle Alpi al Lilibeo.
Ma che dire, quando a parlare non è un ignorante (nel significato latino), ma un docente universitario? L'inventore "dell'esistenza della Padania", intendiamo dire: Gianfranco Miglio. Per il quale "l'unità d'Italia (fu) un chiodo fisso dei torinesi [...]. I Savoia volevano arraffare tutto quello che potevano e in realtà non erano che dei nobilucci periferici assatanati dalla voglia di sgranocchiare territori altrui. Prima hanno ingoiato la Lombardia, il Veneto, l'Emilia. Poi è cascato loro addosso tutto il Centro d'Italia. E infine il Centro-Sud. Ma lì è cominciato il disastro. Ingordi puniti: ecco cosa sono stati i Savoia. Però ci abbiamo rimesso anche noi". Noi: i padani.
Rabbrividisco al pensiero del confronto tra il linguaggio scientifico che ci richiedeva, nelle aule dell'Università, Federico Chabod, e quello usato dal suo "collega" Miglio. Segno di tempi, evidentemente imbarbariti. Al di 16 di questo, comunque, Miglio adombra la soluzione della grande stortura risorgimentale (l'Arraffamento Savoiardo) in una quadruplice Italia federale, costituita da una Padania, da una federazione del Centro, da un consorzio di regioni del Sud. Dove dovrebbero stare Sicilia e Sardegna non è detto. Quale ruolo dovrebbe avere il Papa, neanche: forse per rispetto dei giobertiani e dei neoguelfi; e della loro idea, che fu anche di Napoleone III e dei bonapartisti. Oltre che del laico Cattaneo. Dov'è, allora, la "novità" dei Miglio-pensiero? Nel Sud, ragione del "disastro" italiano? E di quale disastro: quello per cui l'Italia è diventato uno dei Paesi economicamente più sviluppati?
Delle responsabilità del Mezzogiorno abbiamo esplicitamente detto. Alle raffinatissime tecniche di criminalità economica organizzata del Nord abbiamo accennato: torneremo sull'argomento in futuro. Potremmo ricordare che il maggiore sviluppo del Nord è dovuto agli eccezionali privilegi fiscali valdostani, ai giganteschi drenaggi di denaro da parte di Torino e di Milano, alle incalcolabili evasioni fiscali venete ed emiliano-romagnole: fortissimi incentivi alla crescita delle imprese e delle ricchezze individuali, cioè del potere, di una sola delle due (o quattro, o più di quattro, professar Miglio) Italie. Ma, con Eugenio Scalfari, preferiamo richiamare alla memoria tre ragioni che rendono storicamente il Nord debitore del Sud per lo sviluppo che ha avuto: le opere pubbliche, i dazi doganali, la manodopera a costo di fame. In realtà, ci sono anche altre ragioni. E se si trattasse di giocare, giocheremmo a ricordare che nell'Italia unita il Fascismo, le ondate sovversive e totalitarie rosse, l'eversione e analoghe altre amenities sono nate nella sullodata Padania, e il Sud, investito da troppi "venti del Nord", ne ha subito le terribili conseguenze. Ma si tratta, purtroppo, di cose serie: che sfuggono al capo-liga del Veneto, e che usa strumentalmente il professar Miglio.
Il quale, a dir la verità, è in buona compagnia, visto che a darci sotto, attaccando sia il fatto storico sia il principio ideale e l'esperienza concreta dello Stato unitario emerso dal Risorgimento, si è proposto uno stonato "coro dei Lombardi". (non necessariamente né esclusivamente padani): da Arbasino a Gallino; da esponenti della Sinistra indipendente a Bobbio; da Galli della Loggia all'onnipresente Bocca.
Abbiamo cercato più volte, senza successo, le vere motivazioni per cui alcuni intellettuali italiani, ripudiati gli antichi furori terzomondisti, filo-guevaristi, filo-castristi, e spiazzati dal crollo dei regimi dell'Europa centro-orientale, si sono convertiti al credo delle leghe. Dapprima, con timida disponibilità; oggi, con zelo saccente. Intendiamoci: nessuno vuole stravolgere la tradizione. Da Dante a Pirandello, dalle Signorie al Fascismo, costretto o per libera scelta, l'intellettuale è stato sempre accovacciato accanto al principe, tra le pieghe di un potere di cui ha sempre amato il riverbero. Ma questa grande apertura di credito ad un movimento così chiuso e gretto poteva venire - com'è venuta - da tutte le frange della nostra società frammentata, meno che da quella parte del Paese dalle antenne prensili, tesa ad ascoltare il respiro del mondo.
Confessiamo come un senso di vertigine di fronte ad un fenomeno tanto inquietante, e cerchiamo a caso, nelle categorie psicologiche, una spiegazione rassicurante. Per anni la critica degli intellettuali ai partiti è stata serrata. Le ragioni sono apparse, soprattutto negli ultimi tempi, giustificate. I partiti si avvolgono di un potere (di una tracotanza spartitoria) smisurato, non legittimato dalla Costituzione. Solitamente, la classe politica che va a Roma è quella che emerge da scontri non nobili nel territorio di provenienza. Addestrata più ad occupare spazi altrui che a costruire una ragionevole idea di convivenza collettiva. Croce amava dire che "i partiti sono una parte. Il guaio comincia quando vogliono rappresentare il tutto, il che è compito delle istituzioni".
Contro la partitocrazia, l'intellettuale italiano ha una lunga e illustre tradizione di lotta. E' vero che, talvolta, stanco del lungo assedio al fortilizio dei partiti, ha tentato di penetrarvi, arruolandosi organicamente negli odiati eserciti, (salvo poi litigare alla stregua di serve, come accade in questi ultimi tempi di "fronti dei sì" e di "zoccoli duri"); ma quel che conta è il carattere di continuità che ha dato alla sua battaglia politica. Però, malgrado questa ostinazione, i partiti non sono mai stati scalfiti nel loro punto più debole: il consenso. Se solo per un attimo si pone mente alla violenza delle critiche che certi partiti hanno subito negli ultimi anni, non può che stupire la loro straordinaria capacità di resistenza.
Su questo scenario mesto irrompono, in soccorso ai vincitori, i maîtres à penser di primo, secondo e infimo livello; insieme con manipoli di giovani dall'aspetto gradevole, ben nutriti, ben pettinati, dalla parlantina sciolta, i quali, predicando i vantaggi di un malinteso federalismo e di un'autarchia abbastanza feroce, rischiano di mettere in crisi il sistema della democrazia. E agli occhi cerchiati dei nostri grandi intellettuali sembra persino eccitante quest'insensata complicità.
Così, mentre si accinge ad entrare nell'Europa, l'Italia rischia di tuffarsi nel passato. La percezione delle nostre contraddizioni, e dunque della nostra debolezza, è chiara anche oltre confine. Per la maggior parte degli anni '80, siamo stati noi ad innovare, suscitando l'ammirazione dei Paesi industriali. Dopo di che, ostinatamente stiamo scegliendo la prosecuzione del vecchio; mentre il Centro e l'Est europei travolgono simboli, sistemi e strutture del passato, e l'Ovest è diventato un cuore pulsante.
Il nostro cuore, invece, è viola: per quel poco, o quel tanto di anni-Stato che hanno avuto sempre in sé gli integralismi che rifiutano la modernità, oggi alleati - consapevoli o no - dei profeti del localismo; per il soffocamento delle possibili Californie agro-alimentari, chimiche, energetiche, telematiche, informatiche, dell'ingegneria e dell'amministrazione aziendale, cancellate dalla difesa a oltranza dei settori produttivi tradizionali, che d'ora in poi dovranno affrontare la concorrenza accanita dei Paesi di nuova libertà; per lo scontro in atto tra polis e partito degli affari (trasversale a tutte le forze politiche), che copre il disegno egemone del privato sul pubblico, senza esclusione di colpi; per la tirannia del crimine, che mira all'occupazione dello spazio dei molteplici io individuali e degli infiniti soggetti sociali, facendosi cartello imprenditore e totalizzante.
Il progetto dev'essere un ritorno alla soggettualità politica: all'eresia storica nittiana-salveminiana, tesa a creare "per educazione" (dal latino: educere) "uomini di qualità" in grado di trasformare la visibilità sociale, politica, culturale del Sud e del Paese; di dare giustizia e di cancellare le devianze; di abbattere l'immagine di una così gran parte d'Italia accampata sui marciapiedi del Nord e dell'Occidente col suo carico di stracci, di bisogni, di merci deboli, e di sperperi e di affari malavitosi.
C'è un'opportunità forse estrema da cogliere: lavorare per la convivenza e l'interconnessione fra le Culture, anche se queste non saranno mai una sola cultura italiana, se non ai livelli più alti. E' un gioco da tutto per tutto, come i terribili voli del gabbiano Jonathan Livingston. Ma è il solo che possa liberare le nostre istituzioni - ricche di cose e di memorie storiche, ma ormai prive di valori - dal segno della loro fragilità di fronte al futuro europeo.


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