I guardiani della lira




M.C. Milo, A. Foresi, F. Albini



Governatori nella storia
In piedi, il Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, leggeva le sue ultime considerazioni finali. Era il 31 maggio 1975. In prima fila, di fronte a lui, sedeva un Giovanni Agnelli brizzolato, allora Presidente della Confindustria. In quei giorni, molti suggerivano alla più potente famiglia italiana di cedere la Fiat in difficoltà. Carli leggeva: "Il disavanzo della bilancia del pagamenti ha superato, dall'inizio dell'anno, i 6 miliardi di dollari. L'aumento dei prezzi all'ingrosso e al consumo nei tre mesi è avvenuto a tassi annui del 58 e del 24 per cento. Non esistono possibilità di accesso al mercato finanziario internazionale, poiché il nostro indebitamento si aggira sui 10 miliardi di dollari, abbiamo tratto integralmente sulla linea di credito concessaci dalla Comunità europea a titolo di sostegno a breve termine; residuano le possibilità di trarre sulla linea di credito aperta dal Fondo monetario internazionale. In questa condizione di solitudine appare confermata l'esigenza di condurre con determinazione una politica autonoma che eviti la bancarotta della nostra economia: la stampa internazionale e quella interna non pongono in dubbio se essa avverrò, ma soltanto speculano intorno al momento nel quale ciò potrebbe accadere".
Il 6 febbraio del '74, un vertice tra il presidente del Consiglio, i ministri finanziari e i segretari dei partiti di maggioranza aveva deciso di chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale per alimentare le riserve valutarie. La stessa umiliazione che oggi subiscono Paesi come la Polonia, l'Argentina, il Messico. Sono passati sedici anni. Da alcuni mesi, i capitali sono liberi di entrare e di uscire dal nostro Paese senza limitazioni. Ebbene, nel marzo del '69 Carli doveva difendere la convertibilità della lira da chi chiedeva a gran voce l'isolamento finanziario per impedire le fughe di capitali: "A poco varrebbe - sosteneva - il porre lungo le frontiere schieramenti di gendarmi ... ". Oggi, la Banca d'Italia è stata in grado di spendere, tra fine aprile e maggio, mezzo miliardo di dollari per aiutare marco tedesco e franco francese. Vale la pena di ricordare, infine, che dal febbraio del 1973 al gennaio del 1983 la nostra moneta si è svalutata in media del 59,9 per cento. Se oggi le nostre riserve valutarie, oltre 90 mila miliardi, sono le quarte del mondo, non ci si deve dimenticare che nei dieci giorni seguenti la svalutazione del dollaro, che il 13 febbraio del 1973 pose fine al sistema monetario di Bretton Woods, si polverizzarono 3.023 miliardi di lire per tentare un'estrema difesa della nostra moneta. Quella somma equivaleva alla totalità delle riserve in valute più due terzi delle riserve auree, che sarebbero passate da 2.208 a 164 miliardi se la Banca d'Italia non si fosse indebitata sui mercati internazionali.
Questo ufficio della memoria storica nessun documento lo ricopre meglio delle Considerazioni finali che i Governatori di Via Nazionale leggono davanti all'Assemblea ordinaria dei partecipanti al capitale della Banca. Sono appena quaranta pagine. Donato Menichella ne leggeva anche meno. Eppure, se l'Italia non è precipitata nella bancarotta, ma anzi oggi è stata in grado di guidare la Comunità economica europea in un semestre decisivo, lo si deve anche a quelle quaranta pagine che i Governatori leggono ogni 31 maggio. Non è un caso che il loro ruolo di "coscienza critica" coincida con la loro anzianità di servizio. Furono un'invenzione di Luigi Einaudi, per la relazione del 31 marzo del 1947. Lo stesso anno prese forma la nostra Costituzione repubblicana, e fu sempre lui, l'anziano liberale piemontese, a farvi introdurre i principii della difesa del risparmio e del finanziamento non inflazionistico della spesa pubblica. Einaudi scrisse a mano trenta fitte pagine, proprio mentre l'inflazione galoppava al ritmo del 50 per cento, alimentata dall'enorme quantità di banconote che l'Italia si trovava in eredità dalla guerra, dal trascorso regime e dall'occupazione alleata. La manovra che mise a punto con il suo Direttore Generale, Menichella, venne definita dagli economisti americani "un capolavoro". I due decisero di non colpire la disastrata economia con una immediata stretta monetaria, ma di lasciar sviluppare la liquidità (e l'inflazione) in modo da bruciare il debito pubblico del Regno. Nello stesso tempo, lasciarono le banche libere di aprire sportelli a briglia sciolta, in modo da incanalare nei loro scrigni il denaro in eccesso. Poi, di colpo, introdussero la riserva obbligatoria, che congelò e rese inoffensivo il fiume di banconote. L'inflazione si spense in pochi mesi.
Il salvataggio della lira ebbe un grande peso politico: rifiutandosi di alzare il costo del denaro, Einaudi volle impedire il dilagare della disoccupazione, che in quei mesi avrebbe potuto provocare la guerra civile. Fu un'analoga ispirazione che indusse Paolo Baffi, tra il 1978 e il 1979, a non alzare il tasso di sconto nella misura necessaria a contrastare l'inflazione al 20 per cento. Fino alla morte, Baffi fu tormentato da questa scelta. Nel suo studio di Governatore onorario i suoi allievi gli chiedevano: "Governatore, perché non foste più duri sul costo del denaro?". Baffi rispondeva: "Avevano assassinato Aldo Moro".

Il cruccio che tormentava il Governatore era che un milione di disoccupati in più avrebbe travolto il Pci e lasciato campo aperto al disegno eversivo delle Brigate Rosse. Se avesse optato per la "linea dura", la "geometrica potenza" del terrorismo si sarebbe dispiegata, forse vincente, in tutto il Paese.
Le Considerazioni finali sono il momento nel quale la Banca d'Italia rende conto a tutti i cittadini di come ha usato la delega che lo Stato le ha concesso nella gestione del servizio pubblico più prezioso: la moneta, la stabilità del potere d'acquisto. E' proprio per questo "ufficio" di natura collettiva che spesso le Considerazioni hanno preso la forma di un "allarme", di ammonimento e di preoccupazione.
Il primo "grido di allarme" lo lanciò proprio Einaudi, che nel 1947 descrisse il Paese "sull'abisso dell'annientamento dell'unità monetaria e del caos sociale". Poi fu la volta di Guido Carli, che parlò di "angoscia" davanti alla prima crisi petrolifera, nel 1973. Fino all'"economia in stato d'assedio" descritta da Baffi nella sua prima drammatica relazione, nel maggio 1976. C'è chi ha parlato di "allarmismo" della Banca d'Italia. Il punto è che in più di un momento storico il nostro Paese ha rischiato di perdere proprio sul terreno dell'economia i suoi fondamenti democratici. Per fare un esempio, a metà degli anni '70 le imprese erano talmente indebitate con le banche che in molti proposero il "consolidamento" dei debiti e l'ingresso degli istituti stessi nel capitale delle imprese. Sarebbe stata la fine della "natura economica" del sistema creditizio. E allora il "grido di allarme" fu ancora più forte. Nel maggio del 1974, Carli vide la possibilità di uno sradicamento dell'Italia dalla "comunità occidentale". Nel maggio del 1981, Carlo Azeglio Ciampi lesse: "Non è più tollerabile un'inflazione la cui componente di fondo continua ad elevarsi e ci allontana da quei Paesi ai quali siamo uniti per storia e per cultura".
Quella drammaticità si fondava su un'analisi profonda delle strutture che avevano permesso lo sviluppo economico degli anni '50. In primo luogo, i bassi salari e la stabilità monetaria. Donato Menichella, nei suoi dodici anni da Governatore, inchiodò il tasso di sconto al 3,5 per cento. Nello stesso tempo tentò di smontare gradualmente l'autarchia del nostro sistema produttivo e di aprirlo ai mercati internazionali. Era una scelta strategica. Se per De Gasperi ed Einaudi uscire dall'autarchia significava ancorare il Paese all'Occidente democratico, per Menichella era anche uno strumento per costringere gli industriali privati a cercare il profitto con gli investimenti e non con la protezione dell'"ombrello statale".


Furono anni di crescita: tra il 1951 e il 1955 il prodotto interno lordo crebbe alla media del 5,3 per cento. Tra l'autunno del 1957 e il marzo del 1960, la produzione industriale aumentò del 26 per cento. Tutto ciò, nonostante la guerra di Corea del 1950 e la crisi di Suez del 1956. Eppure, Menichella conosceva bene l'interna fragilità di questo sviluppo, che diventerà evidente con la crisi del 1962-1963, e poi con quelle degli anni '70. A metterla a nudo contribuì la volontà degli operai di raggiungere livelli salariali "occidentali", insieme con l'epidemia inflazionistica diffusa dal flusso di "eurodollari" con i quali gli Stati Uniti finanziarono il proprio deficit durante la guerra in Vietnam. Bastò poco per far nascere quella che Baffi battezzò "una obiettiva alleanza che promuove e sostenta l'inflazione stretta fra le forze politiche e sociali". Scala mobile e svalutazione: le loro cause erano strutturali. Ed è singolare che in un'economia agricola come quella del 1947 già Menichella avesse individuato il nucleo del problema. Era convinto che gli industriali avrebbero ceduto facilmente alle pressioni dei sindacati, concedendo aumenti salariali, dei quali rifarsi con l'aumento dei prezzi, reso più facile se il Tesoro avesse stampato banconote a tutto spiano. Scriveva nel maggio del 1948: "L'inflazione giova ad evitare i problemi dei cambiamenti d'indirizzo nella produzione". Quest'analisi rimarrà la stessa dei Governatori successivi.
Com'è possibile che un Paese che ha corso questi rischi oggi sia uno dei "motori" dell'Unione monetaria europea, e che abbia la lira a cambi fissi con il marco?
La svolta è tutta nei primi anni '80, e si basa su una sterzata netta di politica monetaria e industriale: la stabilità monetaria, dopo l'ingresso della lira nel Sistema monetario europeo, "ha ridato certezze negli operatori economici" e ha costretto l'industria a ristrutturarsi senza contare sul cambio. A cominciare dalla Fiat. I tassi d'interesse hanno permesso ai risparmiatori di difendere il proprio denaro, grazie a Bot e a Cct, mentre fino al 1979 chi sottoscriveva titoli perdeva il 7 per cento all'anno del proprio capitale. Poi, la radicale modifica della scala mobile del 1984; e il crollo del prezzo del petrolio nel 1986: il resto è storia dei nostri giorni.
Proprio in quei tre anni "esplose" la Borsa e gli italiani scoprirono i Fondi Comuni di Investimento. L'albero del rialzo si essiccò l'anno della grande crisi di Wall Street: era l'ottobre del 1987. Ci rimisero soprattutto i "borsini" di provincia, e la ferita non è ancora del tutto rimarginata. Ma gli italiani, per la prima volta, si erano avvicinati all'investimento finanziario, com'è usuale in un Paese industriale avanzato. Anche se la risposta delle strutture finanziarie si dimostrò inadeguata, ci trovammo a competere, nella graduatoria planetaria, con la Francia e con l'Inghilterra, per l'assegnazione dei primi posti nella classifica dei Paesi a forte economia. Grazie alla capacità di lavoro e all'estro creativo degli italiani. Ma grazie anche a cinque Governatori e a 45 anni di "Considerazioni finali".

Una storia che viene da lontano
Nel 19,46 la Commissione Economica, creato dal Ministero per la Costituente diretto da Pietro Nenni, consegnò una serie di pregevoli relazioni sulle varie tematiche della nostra economia e dedicò, dopo un lungo esame, un rapporto specifico ai temi dell'ordinamento e della politica della Banca d'Italia. La Commissione era presieduta da Giovanni De Maria e di essa facevano parte, fra gli altri, Paolo Baffi, Aldo Bozzi, Luigi Berliri, Federico Caffè, Giuseppe Dei Vecchio, Giuseppe Di Nardi, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni. Fu, quella, un'importante occasione per rimeditare, in una sede di alto livello scientifico, la posizione nell'ordinamento e le attribuzioni dell'Istituto, per misurarne la forza tecnica e politica sviluppatosi nell'arco di tempo che va dalla legge istitutiva del 1893 alla riforma del 1926 con la quale la Banca d'Italia divenne l'unico Istituto di emissione e l'organo di vigilanza sulle banche; e poi alla riforma del 1936 che, al di là di alcuni aspetti innovativi, fece sì che risultasse prevalente il profilo pubblicistico.
La relazione della Commissione economica concluse l'ampio esame dichiarandosi favorevole al mantenimento dell'attuale forma giuridica della Banca d'Italia "per il suo carattere di medietà tra il pubblico ed il privato che la rende sensibile alle direttive del Tesoro, ma le conserva una relativa autonomia, che la pone in grado di svolgere con continuità la sua funzione di organo regolatore del mercato monetario". Di fronte al quesito se fosse opportuno che la Carta Costituzionale affermasse principii sull'ordinamento della Banca d'Italia o indicasse i limiti della ingerenza del Governo nella sua politica, la Commissione Economica rilevava che "la maggior parte delle opinioni è di avviso contrario, sostenendo che tale materia bisogna lasciarla alla competenza del Parlamento, al quale spetta il compito di regolarla secondo le mutevoli contingenze storiche". L'Assemblea Costituente concordò su questo punto con le conclusioni della Commissione, mentre non accolse un altro voto di essa che era in linea con quanto suggerito da diverse esperienze costituzionali. La Commissione, infatti, aveva ritenuto "raccomandabile che nella Carta Costituzionale fosse raccomandato il principio che la Banca d'Italia ha il preciso dovere di difendere il valore della moneta e che il rispetto di tale principio fosse circondato dalle più ampie garanzie costituzionali".
Anche se la nostra Costituzione tace sulla Banca d'Italia e si limita, all'articolo 47, a stabilire che "la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito", la quantità e qualità di funzioni connesse e attribuite dalla legge alla Banca d'Italia ne fanno sicuramente un "organo a rilevanza costituzionale", assegnando un peculiare ruolo al suo Governatore.
Oggi l'istituto assolve ai compiti fondamentali di una Banca Centrale, e cioè: alle funzioni di Istituto di emissione; di Banca delle banche, di Banca di Stato; di Organo di vigilanza sul sistema bancario; infine, di Banca di riserva. E' stato acutamente osservato che la Banca d'Italia "in un ordinamento quale quello italiano, maturo dal punto di vista industriale, costituisce una cerniera tra economia reale e sistema di governo in senso stretto, per quanto concerne la dimensione nazionale, ed una cerniera tra economia nazionale e momenti sovranazionali e mondiali per quanto concerne la dimensione estera". Ma il presupposto di queste funzioni è l'autonomia della Banca d'Italia, autonomia che è stata definita con felice sintesi dal Governatore Ciampi come "responsabilità per la corretta applicazione di criteri-guida e non per singoli atti, e come capacità di pronto adeguamento, senza vincoli esterni, alle mutevoli esigenze del contesto economico".
La Banca, nell'ambito di questa sua autonomia, è collocata al centro dell'area decisionale, tra il Governo e il Parlamento. Essa, anzitutto, ha il compito di "documentare, argomentare ed ammonire" il potere politico e poi di essere, con la coscienza critica, il braccio operativo in campo monetario, creditizio e valutario dei poteri esecutivo e legislativo. Ma, al contempo, essa è anche la garante della moneta di fronte al popolo italiano. Le Relazioni annuali del Governatore costituiscono quindi "i documenti più significativi attraverso I quali il Governatore "dialoga" con i soggetti sociali, economici e politici che compongono il nostro sistema di Governo". Non c'è dubbio che siamo all'interno di un equilibrio delicatissimo, nel quale senso dello Stato, senso di responsabilità, senso del limite, spirito di servizio non sono espressioni retoriche, ma valori sentiti e vissuti che fanno "lo stile" degli uomini della Banca d'Italia.
La forza politica e morale della Banca Centrale, ha detto Guido Carli, sta infatti nella sua capacità di "esporre all'opinione pubblica e ai governi gli eventi economici che si compiono, interpretarli con il maggiore rigore scientifico e con le maggiori compiutezze possibili, farlo con frequenza e nelle occasioni necessarie, senza timori e spassionatamente", perché alla Banca è attribuita "una funzione dialettica, distaccata e puntuale nei confronti dei governi, dei centri di potere organizzati e dei gruppi di pressione, tutte le volte che lo richiedono nuove linee di politica economica, orientamenti programmatici a anche singoli provvedimenti i quali siano per interferire nell'ordinato progresso dell'economia".
Da Menichella a Carli, da Baffi a Ciampi, questa è stata la stella polare che ha guidato la navigazione della Banca d'Italia nella rotto segnata dai suoi costruttori: Giovanni Giolitti e Bonaldo Stringher Guido Carli, Paolo Baffi e Carlo Azeglio Ciampi, nella loro storia personale, hanno in comune il legame con la cultura tedesca. Tutti e tre hanno studiato in Germania e appreso il tedesco. Non è un caso che quando si parla di "autonomia" della Banca Centrale, tutti e tre abbiano preso ad esempio la Bundesbank, che ha per legge il compito di difendere il potere d'acquisto della moneta. Durante il 1975 il Tesoro italiano, nel tentativo disperato di evitare la recessione, fece aumentare la liquidità del 238 per cento, contro il 48 per cento degli Stati Uniti e il 6 per cento della Germania. Paolo Baffi concluse così le sue Considerazioni finali: "L'Istituto di emissione è oggi relegato in una situazione che si caratterizza sia per la quasi estraneità operativa ai flussi di alimentazione della massa monetaria, sia per lo scarso insediamento nel processo decisionale che mette capo alla definizione del disavanzo pubblico e della dinamica salariale". E l'esempio che fece fu, naturalmente, quello tedesco: "In taluni Paesi, la legislazione offre alla Banca Centrale un'adeguata base giuridica assegnandole espressamente il compito di tutelare la stabilità monetaria. Così in Germania la legge assegna alla Bundesbank lo scopo di difendere la moneta, die Währung zu sichern". La grande differenza è che la Banca d'Italia, nata come istituto privato e come società per azioni nel 1893, si conquistò sul campo nell'arco di trent'anni la propria funzione di Banca Centrale, mentre la Bundesbank nacque giù perfetta nel 1953, in una Germania che aveva ricominciato tutto daccapo.
Eppure, l'autonomia della Banca stava tanto a cuore a Giolitti, che così rispose al senatore Rossi, nella seduto al Senato dell'8 agosto del 1893: "Egli vorrebbe che il direttore della Banca d'Italia fosse nominato dal Governo; ma io credo che questo concetto potrebbe portarci delle conseguenze non buone, e stimo che sia soprattutto da evitare l'ingerenza del Governo negli atti di amministrazione. Ritengo inoltre che l'ufficio essenziale del Governo sia quello della vigilanza' la quale risulterebbe meno efficace se egli prendesse direttamente ingerenza nell'amministrazione, perché l'azione di vigilanza si svolgerebbe meno liberamente di fronte ad amministratori nominati dal Governo. Aggiungo che il Governo si assumerebbe una troppo grave responsabilità".
Le Considerazioni finali del Governatore sono la sintesi politica della Relazione annuale che l'Ufficio Studi prepara per l'Assemblea ordinaria dei partecipanti al capitale della Banca d'Italia. La struttura dei due volumoni blu è cambiata sensibilmente proprio grazie a Carlo Azeglio Ciampi. La svolta è avvenuta nel 1983. L'intento fu quello di snellire le 500-600 pagine di analisi dell'economia italiana e internazionale. Prima di allora, il testo era affollato da tabelle e statistiche d'ogni genere. La lettura era ardua senza qualche nozione elementare di scienza statistica. Ciampi nel 1970 era stato capo dell'Ufficio Studi. Ebbene, da Governatore volle che l'Appendice Statistica diventasse un volume sostanzialmente autonomo e che offrisse tutti i dati quantitativi e percentuali dell'economia italiana. Fece anche allargare il "glossario", che con chiarezza cartesiana definisce tutte le nozioni-chiave del sistema economico e creditizio italiano. Nello stesso tempo, scomparve dal testo (il primo volume) l'antico affollamento di tabelle. Rimasero solo quelle essenziali, con uno sforzo di espressione grafica che permettesse di renderne evidente il senso.
Ciampi volle anche uno sforzo "monografico", cioè che anno per anno si scegliesse un tema sul quale dare un contributo scientifico autonomo.

Analisi economiche: dieci anni di Considerazioni

1980
Poco più di un anno fa l'Italia decideva di entrare nel Sistema monetario europeo, decisione coraggioso, rispondente ai sentimenti che si ricongiungono alla tradizione risorgimentale; ma decisione che implicava e implica coerenza di comportamenti, pena il suo decadimento ad atto velleitario.
La coerenza dei comportamenti non è sinora seguita; gli eventi esterni l'hanno indubbiamente resa più difficile, ma esso è mancata e manca al di la di quegli eventi. La nostra economia rischia di scivolare lungo la china che aveva faticosamente risalito nel 1977 e nel 1978. Il male sottile dell'inflazione, che da anni la consuma, l'attacca ora con nuova violenza. La competitività dei nostri prodotti si riduce. il disavanzo del settore pubblico preme sulle risorse disponibili. Il saldo della bilancia dei pagamenti è ritornato passivo. Pericolose crisi aziendali si trascinano aggravandosi e se ne profilano di nuove.
Misure monetarie, quali quelle prese negli ultimi mesi, possono rallentare l'involuzione, attutirne alcuni effetti, ma non possono da sole invertirne il corso perché la natura dei mali è essenzialmente "reale".
Non si risolvono crisi di imprese, private e pubbliche, che accumulano perdite su perdite, con il ricorso a operazioni esclusivamente finanziarie; queste possono essere utili quando siano state affrontate e avviate a superamento le difficoltà di fondo, quelle che attengono alla produzione delle merci e al loro collocamento. Altrimenti si aggiungono sussidi a sussidi, sprechi a sprechi, nell'illusione di rimediare, ma di fatto rinviando i problemi, ampliandone le dimensioni, rendendo più difficili e costose le soluzioni.
Abbiamo ancora margini, seppure ristretti, per provvedere. l'inflazione può essere piegata; urgono misure di contenimento del disavanzo pubblico, di promozione della produttività, di riduzione dei costi, quale primo momento di un'opera volta, a un tempo, a smorzare le fiamme recenti dell'inflazione e a cominciare a rimuoverne le radici profonde. Per parte sua, la Banca Centrale manterrà una linea di severità monetaria.
La vitalità di cui abbiamo manifestazioni in ogni campo è il segno che le difficoltà e i contrasti della nostra società, che talvolta sembrano sul punto di travolgerla, sono i mali di un organismo capace di reagire. E' possibile, sta in noi, volgere quella vitalità verso fini scelti attraverso una dialettica non paralizzante, trasformarla in progresso e sostenere il ritmo con continuità e fermezza, anziché disperderla in attriti o fiaccarla con estenuanti incertezze. lungo questa via potrà essere ricuperata la stabilità monetaria, bene di tutti e cura di questo Istituto.

1981
Un'inflazione da nove anni non inferiore al 10 per cento, da due intorno al 20, ha provocato non solo ingenti e ciechi trasferimenti di ricchezza e le inefficienze dovute all'incertezza e alla volatilità dei prezzi relativi; essa ha alterato l'essenza stessa della moneta, svuotandola in gran parte della sua funzione di riserva di valore, per lasciarle solo un'umiliata funzione di numerario e di mezzo di pagamento.
Una complessa economia di scambio non può vivere senza una misura di valore attendibile nel presente e per il futuro. Per sottrarsi all'inganno di una moneta che si corrode in modo rapido e imprevedibile, essa adotta quale proprio metro, attraverso una molteplicità di pratiche e di istituti, l'insieme stesso dei beni e dei servizi che produce. In tali condizioni anche i successi della manovra monetaria tradizionale rischiano di risolversi in episodi tattici che non evitano la sconfitta strategica rappresentata dal consolidamento dell'inflazione.
Quando questo processo è in corso da anni, non è con l'attrito di una liquidità scarsa o di un cambio non accomodante che si ripristina l'equilibrio monetario. Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della Banca Centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione dei reddito.
Prima condizione è che il potere della creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa. Vi fu un tempo in cui questa esigenza si pose rispetto al sistema produttivo e fu allora che si precisarono la natura pubblicistica delle Banche centrali e la separazione fra banca e impresa. Oggi quella esigenza deve esser soddisfatta soprattutto nei confronti del settore pubblico, liberando la Banca Centrale da una condizione che permette ai disavanzi di cassa di sollecitare una larghezza di creazione di liquidità non coerente con gli obiettivi di crescita della moneta [ ... ].
Seconda condizione sono [ ... ] regole di procedura che collochino le grandi decisioni di spesa nella prospettiva dell'equilibrio monetario. Un fondamentale principio di libertà politica ed economica vieta di sottrarre il contenuto di quelle decisioni alle scelte delle famiglie, delle imprese, dell'intera collettività espressa nel Parlamento e nel Governo. E l'esistenza stessa della moneta, potere d'acquisto non finalizzato, è espressione di questa libertà. Ma la società deve organizzarsi per impedire che le decisioni di spesa si compiano facendo preda di quel patrimonio comune che è la stabilità monetaria. Per far ciò essa deve disciplinare i modi dello scegliere senza dettare alcun contenuto di scelta, così come altre norme stabiliscono i modi, e perciò stesso la possibilità, dei muoversi senza comandare la meta [ ... ].
Alle decisioni di spesa pubblica bisogna dare regole che costringano al rispetto sostanziale dell'obbligo di copertura. Un tempo, la coerenza tra la spesa, prerogativa del sovrano, e i tributi, sopportati dal popolo, era assicurata dalla dialettica fra esecutivo e parlamento. Divenuto sovrano il popolo, il vincolo di bilancio ha operato a lungo secondo la regola rigida del pareggio. Il venir meno di questo vincolo ha condotto le finanze pubbliche a una situazione in cui l'equilibrio economico non ha altro ancoraggio che la capacità di autogoverno della collettività [ ... ].
Ormai da dieci anni, rescisso anche il legame indiretto all'oro attraverso la convertibilità del dollaro e la fissità dei cambi, la lira, come le altre monete, è divenuta un bene ancor più immateriale e astratto, garantito nel suo valore da null'altro che dalla forza dell'economia e dalla capacità del corpo sociale di organizzarsi e di governare.
Uno statuto della moneta è indispensabile per la riconquista di un metro stabile di tutti i beni presenti e futuri e per garantirci dal rischio di ricadere verso assetti che non ci hanno aiutato a combattere l'inflazione, quando non l'hanno rafforzata.
Questi sono i problemi che la gravità e l'urgenza della situazione economica ci impongono di affrontare nella loro complessità e interezza. Il dibattito degli ultimi tempi indica che le scelte sono maturate negli anni e che giù nell'immediato possono essere fatti passi concreti nelle direzioni indicate. Perché la sua efficacia non si disperda, quel dibattito deve tradursi oggi, urgentemente, in volontà di realizzazione. Più che affinamenti tecnici, occorre la capacità di liberarsi da pregiudizi, da diffidenze, da miope difesa di interessi particolari. E questa capacità ha la sua radice nella coscienza civile, ultimo insostituibile presidio di una moneta stabile così come di ogni altro ordinamento di una società libera e giusta.

1982
Nell'economia mondiale si è momentaneamente allentata la morsa nei prezzi dell'energia; i corsi delle materie prime sono diminuiti; in numerosi Paesi l'inflazione è stata tenuta o riportata sotto controllo. Ma sui motivi di conforto prevale la preoccupazione per il ristagno, per la disoccupazione, per la contrazione degli scambi, per la divergenza dei risultati e delle politiche economiche. Si accentua il distacco fra quei Paesi industriali che hanno saputo debellare l'inflazione e colmare il disavanzo esterno e quelli, fra i quali l'Italia, ancora lontani dal portare a compimento entrambi gli aggiustamenti.
La competizione si fa più aspra e rischia di degenerare in conflitti commerciali condotti senza remore nell'uso improprio degli strumenti: dalla manovra del cambio alla concessione di aiuti, dalla regolamentazione alla pressione dell'autorità amministrativa. Il sistema della cooperazione internazionale, sul quale per oltre tre decenni si sono fondati l'avanzamento economico e il progresso civile, vive momenti di grave pericolo.
Per l'Italia uno spazio internazionale aperto è condizione di sopravvivenza. Il benessere di oggi è stato costruito accettando e vincendo la sfida della libertà degli scambi e di questa libertà ha bisogno per mantenersi e svilupparsi ancora.
L'arduo esercizio della concorrenza non impegna solo le attività economiche nel perseguimento di maggiore efficienza e di minori costi, nell'innovazione dei processi produttivi e dei prodotti; esso coinvolge tutti gli aspetti della società e della vita pubblica. E' una concorrenza tra capacità di ricerca e di progresso tecnico, tra sistemi di amministrazione, tra istituzioni scolastiche, tra assetti del mercato del lavoro e della previdenza sociale, tra strutture finanziarie, tra monete. Per affrontarla ad armi pari non basta un'industria efficiente, se non è sorretta da una pubblica amministrazione moderna; non bastano l'operosità del lavoro e il talento imprenditoriale, se la formazione culturale e professionale non recepisce le esigenze di una società industriale avanzata; non basta una forte e radicata propensione al risparmio, se quei risparmio viene avviato a impieghi che non generano risorse.
Sul piano internazionale come su quello interno, la moneta è la variabile critica. Le tensioni, le instabilità del difficile momento in cui versiamo si manifestano nelle tre grandezze, prezzi, cambi, tassi d'interesse, nelle quali si esprimono le relazioni monetarie fondamentali di un'economia industriale aperta.
Il semplicismo delle diagnosi e il dogmatismo delle terapie né accorciano né appianano la strada impervio verso l'equilibrio interno ed esterno; indicando un solo responsabile, assolvono i più; lusingano la pigrizia morale e civile col far dimenticare che la stabilità monetaria è una responsabilità comune, è un bene mai definitivamente acquisito.
L'erosione della moneta è un inganno economico, è una contraddizione sociale, da cui la collettività potrebbe uscire di colpo solo se sapesse, tutta insieme, di colpo trasformarsi. Non sono le autorità monetarie a poter compiere questo miracolo con gli strumenti loro affidati. Ad esse si addicono non i gesti drammatici, ma la tenacia, se occorre la durezza, nel perseguire l'obiettivo, il pragmatismo nella scelta degli strumenti.

1983
Se, contrariamente a quanto è avvenuto nelle più importanti economie industriali, da noi l'inflazione non è stata piegata, è perché nella società è mancata una vera determinazione nell'affrontarla. Ovunque il successo, che ora apre a quelle economie prospettive di ripresa, ha richiesto scelte coraggiose, politiche tenaci, ha comportato costi e rinunce.
Da noi orizzonti temporali limitati hanno impedito l'impostazione stessa di una politica antinflazionistica di ampio respiro. Ancor più, ha prevalso il convincimento che l'inflazione sia un male minore, ininfluente sullo sviluppo e sull'occupazione, o perfino a essi complementare; che si tratti di fiammate destinate a spegnersi quasi spontaneamente, anche se poi si è costretti a constatare che il fuoco arde da oltre un decennio. E' mancata una sufficiente intelligenza delle cause e dei danni dell'inflazione. Non ci si* è resi* pienamente conto di come fattori esterni, dal costo delle fonti di energia all'abbandono dei cambi fissi e al venir meno di un metro monetario internazionale, e fattori interni, quali le indicizzazioni e l'assistenzialismo generalizzato, l'abbiano radicata e l'alimentino. 0 addirittura ha preso piede l'idea che con l'inflazione si possa convivere, apprestando occasionali ripari per contenerla, o che, come gruppi e individui, da essa ci si possa difendere scaricandone il danno sugli altri.
Non si spiega altrimenti la difesa a oltranza di meccanismi e comportamenti capaci solo di far crescere insieme redditi nominali e prezzi, quando gli stessi redditi reali si sarebbero potuti ottenere con politiche consensuali volte a contenere insieme inflazione e redditi nominali. Né si spiega la facilità con la quale sono stati introdotti sistemi di intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita, promettendo la distribuzione di un reddito non prodotto e non producibile almeno in tempi brevi...
Il ripristino di una moneta stabile richiede una modifica di comportamenti e di meccanismi istituzionali sui due fronti del disavanzo pubblico e della dinamica dei redditi.
La finanza pubblica deve reintrodurre a tutti i livelli il rispetto del vincolo di bilancio. Oggi l'obbligo della copertura delle decisioni di spesa, enunciato dalla Costituzione, è di fatto svuotato del suo contenuto. E quel vincolo, come abbiamo indicato più volte, deve essere applicato avendo come obiettivo definito nel tempo il pareggio fra le entrate e le uscite di parte corrente.
Uguali principi debbono valere a livello locale: il decentramento amministrativo è vanificato nella sua finalità di migliore uso del pubblico denaro se nelle scelte viene meno il rigore che solo la coscienza della finitezza dei mezzi può imporre.
La dialettica fra le parti sociali è condizione di vita del sistema democratico. Accordi volti a spezzare la spirale prezzi-salari non sono affatto incompatibili con il confronto fra lavoratori e imprenditori; sono anzi dimostrazione della validità di quel confronto [ ... ].
Rifondare la stabilità dei prezzi sulla stabilità dei salari non significa mettere in discussione la distribuzione del reddito, ma affermare la centralità del lavoro nei rapporti produttivi e di scambio.
Sono questi i presupposti perché la politica monetaria possa volgersi a sostenere una linea di sviluppo dell'economia che ne realizzi le capacità potenziali. Sono questi i presupposti perché la politica monetaria possa volgersi a sostenere una linea di sviluppo dell'economia che ne realizzi le capacità potenziali. Sono queste le condizioni perché l'Italia rimanga congiunta, nella stabilità monetaria, ai Paesi che le sono affini per assetti economici, cultura, istituzioni civili.

1984
Inflazione e ristagno hanno troppo a lungo avvilito la nostra economia; comportamenti incoerenti con le esigenze di riallocazione delle risorse e con i mutati rapporti economici internazionali hanno troppo a lungo riversato sui prezzi il peso di una impossibile sintesi, soffocando le possibilità di crescita. A fatica si è fatto strada il convincimento che un'inflazione alta e prolungata mina ogni assetto distributivo e disarticola la struttura produttiva; se questo convincimento è ora condiviso, non possono mancare i necessari consensi su scelte concrete, che l'esame dei problemi chiaramente addita.
Ritrovare insieme la stabilità monetaria e il sentiero dello sviluppo è necessario e possibile. Non vi è alcun male oscuro che condanni la nostra economia.
La ripresa internazionale offre oggi condizioni favorevoli; all'interno, i guadagni di produttività, conseguibili con un maggior utilizzo degli impianti, aiutano, insieme con la stabilità del cambio, a frenare l'incremento dei costi. Ma se non si confermano, con continuità negli intenti e con coerenza nei comportamenti, le attese di prosecuzione del rallentamento dei prezzi, la presente combinazione di migliorata fiducia degli operatori e di appropriata composizione della domanda cederà di nuovo alle spinte provenienti dalla finanza pubblica e dai costi, al rimbalzo dell'inflazione, al riaprirsi dello squilibrio esterno. Sta in noi evitare ricadute che vanificherebbero i risultati faticosamente acquisiti, umiliando la coscienza stessa dei Paese.
Le condizioni per ritrovare e mantenere una crescita stabile, che apra prospettive di lavoro per le giovani generazioni, sono severe. La capacità di risparmio ne è fondamento; la volontà di investire ne è la forza propulsiva; una distribuzione del reddito che sia garanzia di comportamenti costruttivi ne è requisito essenziale.
Riducendo la dinamica della spesa, aggredendo l'evasione e l'erosione fiscale, attuando l'impegno del bilancio pluriennale, ottemperando al rispetto dell'obbligo di copertura, rafforzando le procedure, la politica di bilancio potrà porre argini alla piena del debito pubblico e liberare risparmio per l'investimento.
La politica dei redditi, affiancandosi alla politica di bilancio, dovrà proporsi di moderare la dinamica dei costi e di far sì che la creazione di nuove risorse, anziché volgersi a esclusivo vantaggio dei già occupati, dipendenti e indipendenti, pubblici e privati, si traduca in riduzione della disoccupazione, in rafforzamento della base produttiva, in duraturo equilibrio dei conti con l'estero.

1985
Negli anni, dalle esperienze sofferte, il Paese ha tratto coscienza che l'inflazione non è un male ineluttabile della nostra condizione; che, per risanare l'economia, non è inevitabile il passaggio attraverso crisi profonde, illusoriamente catartiche; che stabilità e sviluppo non sono obiettivi antitetici; che essi possono essere riconquistati purché vi convergano le politiche e i comportamenti. Quando quella convergenza c'è stata, non hanno tardato a manifestarsi gli effetti positivi sulle variabili economiche e sulle aspettative.
Stretta tra l'apprezzamento del dollaro e il dilatarsi del fabbisogno pubblico e del redditi nominali, la Banca Centrale ha operato a difesa della moneta con attenzione alla realtà produttiva e all'esigenza di irrobustire un sistema finanziario che deve sempre più protendersi al sostegno dell'accumulazione e della crescita. l'eccesso di rigore o la permissività talora attribuitici trovano risposta nel fatto che il rallentamento dell'inflazione si è combinato non con l'indebolimento del sistema delle imprese, ma con il loro risanamento. A differenza di alcuni anni fa, oggi la domanda di fondi non è più volta alla copertura di perdite, ma al finanziamento di investimenti e della produzione.
Permangono gravi gli squilibri del bilancio pubblico. E' qui che lo spazio di manovra della Banca Centrale diviene angusto e si fa ardua la conciliazione del controllo della moneta con il finanziamento del fabbisogno. I rischi connessi con l'accumulo del debito pubblico si rimuovono con il riequilibrio del bilancio; è sul bilancio che si deve incidere per spezzare la spirale debito-oneri finanziari.
Da alcuni mesi il quadro congiunturale si va oscurando. Difficoltà crescenti incalzano sul fronte della finanza pubblica. la politica dei redditi ha perso di vigore. Siamo fermi a metà del cammino, esposti a pericolosi regressi. Urge riprendere l'azione di politica economica.

1986
Il lungo cammino per il ripristino degli equilibri monetari vede avvicinarsi importanti traguardi: l'inflazione sta regredendo verso valori conosciuti solo negli anni della stabilità, che furono anche gli anni del maggiore sviluppo.
Cause esterne stanno accentuando il rallentamento dei prezzi, così come cause esterne concorsero in modo rilevante alla loro esplosione. Non è possibile prevedere quanto durerà questa favorevole congiuntura: il compito è di non limitarsi a goderne i frutti immediati, ma di trarne vantaggio per far avanzare con minori costi la soluzione dei problemi di fondo dell'economia.
Non condividemmo e contrastammo con i nostri comportamenti la sfiducia di chi riteneva inevitabile la resa all'inflazione. Oggi l'obiettiva presa d'atto dei progressi compiuti e di prospettive più favorevoli ci guardi da una pericolosa euforia [ ... ].
La creazione di posti di lavoro che l'entità della disoccupazione e la sua concentrazione fra i giovani reclamano postula l'ampliamento della base produttiva. Il rovesciamento dei prezzi relativi a vantaggio dei manufatti genera condizioni favorevoli di costo; sta soprattutto alle imprese tradurle in decelerazione dei prezzi anziché in aumenti dei redditi nominali, in investimenti reali anziché in acquisizioni finanziarie. Di questa azione il sistema creditizio deve sentirsi partecipe non solo con l'esercizio della funzione fondamentale di vaglio delle iniziative da finanziare, ma anche progredendo verso una maggiore efficienza.
Affinché l'attività di accumulazione possa irrobustirsi nel tempo senza scontrarsi con il vincolo delle risorse, è essenziale che si creino spazi ed elasticità nel bilancio pubblico. Il risanamento della finanza pubblica è giustamente collocato al centro della politica governativa. L'intervento è reso urgente dalle tendenze in atto. l'aumento del debito continua a sopravanzare quello del reddito nazionale [ ... ].
Un bilancio pubblico, ricondotto rispetto al reddito a dimensioni normali, riqualificato nelle sue componenti di spesa, restituito alla sua funzione di strumento di politica economica, è garanzia necessaria di stabilità, di equilibrato sviluppo, di progresso civile.

1987
Abbiamo cercato di correggere un'opinione assai diffusa che la disinflazione e il rafforzamento di larga parte del sistema produttivo siano solo l'occasionale frutto di eventi esterni, dimostrando come essi siano dovuti principalmente ad atti di politica economica interna e alla risposta delle forze di mercato: ma abbiamo al tempo stesso messo in evidenza come, tra le economie industriali, la nostra resti più esposta all'instabilità e sia limitata nei margini di manovra per farvi fronte.
Breve è il passo che ci farebbe ricadere nelle condizioni dalle quali ci siamo tratti. In una congiuntura internazionale che offre scarso sostegno alla crescita e in cui la stessa libertà degli scambi èinsidiata, basterebbe uno scarto dalla disciplina che ci impongono le fitte interdipendenze con il resto del mondo, un cedimento all'illusione di poter sfuggire ai problemi irrisolti della nostra economia per riaccendere un'inflazione smorzata ma non spenta, per rendere di nuovo stringente un vincolo esterno allentato ma non sciolto, per scuotere una fiducia ricuperata ma non ancora salda.
Per allontanare questi pericoli è necessario sollevare lo sguardo e puntare alle mete più alte alle quali la collettività anela; non lasciarsi irretire dal prevalere miope del proprio particolare.
E' alla nostra portata il bene di una società che offra lavoro ai giovani, che affronti con rinnovata determinazione i problemi del Mezzogiorno, che si apra, compiendo le necessarie scelte, alle sempre più diffuse aspirazioni verso nuovi modelli del vivere, che sia saldamente e autorevolmente inserita nella comunità internazionale, che ai rischi dell'agire economico offra temperamento nella stabilita monetaria, in forme di solidarietà collettiva, in regole chiare. I risultati conseguiti devono essere di sprone al nuovo impegno.
Nella sfera pubblica il risanamento che l'economia attende richiede rigore di controllo della spesa, efficienza nei servizi della Pubblica Amministrazione. Gli istituti attraverso i quali negli ultimi vent'anni il nostro Paese ha perseguito obiettivi di solidarietà, propri di una società avanzata, sensibile alle disuguaglianze economiche, hanno mostrato difetti di costruzione che rendono il loro funzionamento incompatibile con gli equilibri di fondo dell'economia; per eliminare i difetti, quegli istituti devono essere riformati. E' un'opera difficile, indispensabile per dare fondamenta solide e garanzie di durata alla politica sociale e per non pregiudicare quelle di intervento ciclico e di guida allo sviluppo.
La rinnovata vitalità delle imprese va volta all'ampliamento della base produttiva; allo stesso fine vanno ordinate la crescita dei redditi e l'evoluzione delle relazioni di lavoro. In un'economia libera, nella quale sta ai pubblici poteri correggere le disfunzioni dei mercati, la formazione di profitti anche elevati trova accettazione nella coscienza civile quando si accompagni alla capacità dell'impresa di rendere più robusta l'economia nella stabilità, di creare occupazione, di interpretare, nella scelta stessa dei propri prodotti, i valori di qualità della vita di una società che cambia.

1988
Le mete verso le quali sta muovendo l'Europa sono quelle di una Comunità che sembra ritrovare le ambizioni dei suoi fondatori: la rimozione di ogni frontiera interna, il superamento dei poteri di veto. Si profila un obiettivo di vera unione monetaria, di costituzione di una Banca Centrale europea. Le grandi dispute su piccole questioni sembrano essersi placate; è ora dischiuso il pur arduo percorso verso il completamento dell'unione economica, che prepara e richiederò l'unione politica. l'agenda è impegnativa per complessità dei problemi, per rilevanza degli interessi in gioco. E' un processo laborioso, mai affrancato dal pericolo di regressi. Ma, per la civiltà di cui siamo parte, è l'unica via per non smarrire il filo spezzato in due guerre mondiali, riannodato da chi seppe intuire l'Europa comunitaria.
Perché quel disegno si compia, la Comunità europea deve correttamente impostare scelte fondamentali. Deve conciliare mobilità dei capitali e stabilità dei cambi, intensificando la cooperazione monetaria fino a realizzare una politica unica. Deve riconoscere che il bisogno di progresso economico di vaste regioni a sviluppo tardivo è tale che solo nella crescita dell'intera area la stabilità monetaria di ogni Paese potrò trovare fondamento duraturo. Deve partecipare alla cooperazione internazionale con unità di indirizzo e capacità propria di azione. Dev'essere l'Europa di tutti, alla quale tutti i Paesi membri danno il proprio apporto nella formulazione delle politiche e nella loro attuazione.
L'adesione dell'Italia a questo disegno è profonda; il suo contributo è necessario. l'una e l'altro trovano origine nella tradizione risorgimentale e, al di là di quella, in una secolare inclinazione a una società universale. Ma il nostro Paese tanto più può contribuire alla costruzione di un solido edificio comune, tanto meglio può vivervi e progredirvi, quanto più sarà capace di consolidare i propri punti di forza, di correggere le proprie debolezze. Stare in Europa significa e implica impegni precisi su cose da fare.

1989
Sulla elevata propensione al risparmio delle famiglie e delle imprese poggia la forza dell'economia italiana. Oggi, lo stesso benessere raggiunto, i mutamenti sociali e demografici in atto escludono che quella propensione possa crescere ancora, fanno anzi temere una sua flessione. Le possibilità di sviluppo, degli investimenti e dell'occupazione, dipendono quindi dalle capacità del settore pubblico di tornare a essere generatore di risparmio, di saper corrispondere, nella qualità dei servizi, alle esigenze dei cittadini e delle imprese. Risparmio, accumulazione di capitale, servizi efficienti rappresentano la via per superare carenze di struttura, settoriali e territoriali. All'interno del sistema produttivo esse si riflettono nella lentezza con cui evolve il modello di specializzazione dell'Italia nel commercio mondiale; nel Mezzogiorno assumono forme di sottosviluppo, si intrecciano con fenomeni di precarietà della vita civile, le une e gli altri non più tollerabili. la stessa partecipazione al nuovo assetto che si profila per l'Europa esige di superare al più presto il passaggio duro del risanamento della finanza pubblica.
Nel mutamento che ha investito i mercati finanziari e le condizioni in cui opera la Banca Centrale, quello che stiamo vivendo è un momento di accelerazione [ ... ]. Ma l'impegno nella ricerca di migliori assetti monetari e finanziari nel nostro Paese, di nuovi ordinamenti nella Comunità europea, è sovrastato dall'assillo del quotidiano. la finanza pubblica continua a imprimere scosse al mercato finanziario. Anche di recente abbiamo dovuto affrontare momenti difficili [ ... ].
E' indispensabile una svolta nell'affrontare i problemi della finanza pubblica, nodo irrisolto dell'economia italiana. Se non si provvede a riforme che incidano sia sulla formazione e sulla qualità della spesa sia sulla determinazione delle entrate, il volume del fabbisogno non troverò ridimensionamento effettivo [ ... ].
Eppure sono riunite oggi, più che mai nel passato, le condizioni economiche per intervenire. La consapevolezza di dover provvedere è universalmente proclamata. Per una pronta azione preme l'andamento ciclico [ ... ]. il risanamento della finanza pubblica non è impresa al di la delle forze di un Paese che in quarant'anni ha quadruplicato il reddito pro capite. Vi sono riuscite economie dalle potenzialità minori della nostra. Certo, i passi da compiere significano la revisione di assetti consolidati dal tempo; investono posizioni e privilegi diffusi; implicano la capacità di affrancarsi da pregiudizi, di superare diffidenze, di abbandonare la difesa miope di interessi particolari. Ma ogni ritardo accresce l'aggravio su di noi, sulle generazioni future. Una società civilmente avanzata deve sapersi imporre regole e limitazioni che riconosce corrispondere all'interesse generale: è la sostanza stessa del suo essere. Debbono indurre alla fiducia la vitalità dell'economia produttiva, le prove superate in questi anni, l'evidenza dei benefici che il superamento di quelle prove ha generato per tutti. le linee sono tracciate: non vi è giustificazione perché non vengano perseguite con determinazione.

Mille lire addio

L'"Aragosta", cioè l'immensa banconota da mille lire, fu nel 1939 la protagonista assoluta di un film e di una canzone. Ora, dopo esser passata attraverso una metamorfosi riduttiva che ne ha fatto uno striminzito biglietto di undici centimetri per sei, sta per subire una mutazione metallica. Diventerà una moneta.
Le mille lire di mezzo secolo fa accendevano la fantasia e i desideri degli italiani stretti nella politica autarchica. Per questo la banconota aveva molti nomi: la chiamavano "sacco" o "lenzuolo"; nelle parrocchie era paragonata a un foglio di messale; nelle osterie a una bistecca fiorentina.
Circolavano due tipi di biglietti da mille. Il primo risaliva al 1897 ed era caratterizzato da una grande "Emme" che sembrava sottratta a un incunabolo dell'abbazia di Montecassino. Il foglio misurava 267 millimetri per 147, e per mezzo secolo fu l'immagine stessa della Banca d'emissione. Il secondo, che apparve nel 1930, era di proporzioni leggermente minori, 222 millimetri per 124. Era il più vistoso dei due, sufficientemente ampolloso e sovrabbondante nelle figurazioni che l'ornavano fra serti d'alloro, come del resto erano opulente le due dame che vi apparivano in ermellino e diademi, severe nel volto ma molli nell'atteggiamento, a rappresentare le repubbliche marinare di Genova e di Venezia. Questo secondo biglietto portava le stimmate del tempo in cui era stato concepito. Sul retro, infatti, emergeva il Fascio Littorio, al centro d'un cartiglio con la scritta "Banca d'Italia". Al di sotto dell'emblema figurava l'immagine del gruppo statuario ispirato all'industria e al commercio, fastigio architettonico di Palazzo Kock che accoglie gli uffici della Banca, nella rettilinea Via Nazionale che i committenti di gusti sabaudi volevano simile alla rimpianta Torino.
Fino al 1941 le banconote furono stampate presso le Officine Carte Valori che sorgevano a ridosso del maestoso palazzo della Banca, in un ben munito edificio cui si accedeva da Via dei Serpenti. La stampa era prevalentemente tipografica e veniva realizzata su una sola facciata per volta, con una batterla di speciali macchine a quattro colori e tre esemplari per foglio. Poi, su entrambi i lati veniva impressa la parte calcografica. Seguiva l'apposizione della numerazione e del contrassegno di Stato con macchine ancora tipografiche, di tipo commerciale. Successivamente, se ne trasferì la stampa, e non si è ma saputo bene perché, tra i monti dell'Abruzzo, nel pressi della stazione dell'Aquila, con scarsi e difficoltosi collegamenti stradali e ferroviari. Ma con ogni probabilità pesarono sulla scelta ragioni d'uso di un opificio abbandonato, decentrato rispetto alla Capitale e in ogni caso facilmente difendibile.
Durante la guerra le officine della Banca lavorarono a pieno ritmo a stampar biglietti d'ogni tipo. Fin dal 1940 la produzione giornaliera balzò da 150 mila a 260 mila pezzi. In pochi anni la circolazione monetaria aumentò nel nostro Paese di dieci volte in valore e di cinque volte in numero di pezzi, tanto che gli italiani tutti insieme ne possedevano un miliardo. Il governo italiano (ma era un fenomeno mondiale tra i Paesi impegnati nel secondo conflitto universale) finanziava le proprie spese belliche facendo girare vorticosamente il torchio, e poiché non bastavano gli sforzi dell'Aquila si incaricò anche il Poligrafico dello Stato di produrre crescenti quantità di biglietti. Si lavorava giorno e notte, di domenica e in tutte le feste comandate: per cui quei biglietti erano poco più che carta straccia. La vicenda dello stabilimento aquilano si concluse tragicamente nel giugno 1944, quando i tedeschi in ritirata fecero saltare i macchinari dell'officina e gli americani bombardarono a più riprese la zona con le fortezze volanti, mietendo vittime fra le maestranze della Banca.
Entrambi i tipi di cartamoneta ebbero corso legale fino al 30 giugno 1953 e caddero in prescrizione quindici mesi dopo. Dal 1 9A1 recavano la firma del nuovo Governatore, Vincenzo Azzolini, che mantenne la carica fino alla liberazione di Roma e che fu protagonista di un delicatissimo caso giudiziario: venne accusato d'aver consegnato ai tedeschi, dopo l'8 settembre, la riserva aurea italiana. L'Alta Corte di Giustizia lo ritenne colpevole e lo condannò a trent'anni di reclusione; ma poco più di tre anni dopo la Corte di Cassazione ne annullò la sentenza.
La canzone Mille lire al mese, che negli ambienti bancari definivano "insopportabile", faceva parte della colonna sonora dell'omonimo film, diretto dal regista Max Neufeld, un austriaco cinquantaduenne che aveva capito tutto sul "cinema dei telefoni bianchi", sulla commedia all'italiana nella quale gli spettatori trovavano le soddisfazioni che non riuscivano a ottenere dalla vita grama d'ogni giorno. Il film era ambientato a Budapest, per stemperare in una vicenda ancora più irreale le tensioni della società italiana. Era interpretato dal glaciale Osvaldo Valenti, che tuttavia non aveva al fianco la sensuale Luisa Ferida, ma Alida Valli nel suo pieno fulgore di attrice mitica.
"Se potessi avere mille lire al mese", così, dal ritornello, era conosciuta la canzone del film, scritta e musicata da Innocenzi e Sopranzi, ben consci delle esigenze di allora. Un manovale poteva guadagnare tre o quattrocento lire mensili; un operaio specializzato non superava le cinque-seicento; un impiegato sfiorava le ottocento lire. Con mille lire al mese speravano di acquistare una "casettina", ma in periferia. A Roma, per un appartamentino, non sarebbero state sufficienti trenta-quarantamila lire. C'era ugualmente poco da scialare con la tanto agognata cifra della canzone. Forse era preferibile, come suggerivano i suoi stessi autori, sognare l'ereditò "d'uno zio lontano, americano".
Dagli americani (non si era ancora in guerra con loro) poteva provenire la salvezza. In quei giorni lo sosteneva anche l'umorista verseggiatore Alberto Cavaliere. Ecco come:
"Sostiene un finanziere americano / che vi sarebbe solamente un mezzo / per dare al mondo torbido e malsano / quella prosperità morta da un pezzo: / cancellar tutti i debiti... il progetto / mi sembra buono: per mio conto, accetto".
Il poeta, che aveva già messo in versi la chimica organica e che stava per piegare alla sua Muso anche la storia dell'antica Roma, era uno dei più ascoltati propagandisti di complemento del regime, e ogni sette giorni occupava alcune pagine dell'"Illustrazione Italiana".
L'autarchia era l'oggetto delle imprecazioni quotidiane di quanti aspiravano alle mille lire mensili.
Tuttavia, Mario Missiroli, grande giornalista, a definiva "una conquista proletaria". A suo avviso non c'era categoria, nell'Italia del tempo, che non avesse capito il significato etico e sociale di bastare a se stessi. Ecco perché, diceva, ognuno assecondava "il grandioso disegno del Duce". a molti italiani la pensavano diversamente e non riuscivano a comprendere come mai, proprio in coincidenza con la conquista di un Impero - che avrebbe dovuto portare ricchezza - si fosse tanto aggravata la loro condizione economica.
Il costo della vita era fortemente salito. Lo stipendio non bastava più, e la stessa canzone sulle mille lire diventava consolatoria. Ci voleva ben altro. I generi di prima necessità, non escluso il pane, costavano più cari. Tutti se ne lamentavano, poiché alla gente non garbava oltre tutto dover mangiare pane miscelato (e la stessa pasta era di tre tipi: nera - e collosa - per i poveri che potevano permettersela una volta a settimana; bianca e nera per gli impiegati; bianca per i benestanti). Racconta Antonio Spinosa che Mussolini un giorno proruppe in una rumorosa invettiva: "Ci sono troppi fregnoni in giro che non sono mai contenti! lo ho vissuto da giovane sempre con pane nero o polenta, e mi pare d'esser cresciuto lo stesso abbastanza robusto! Ci sono ancora troppi fregnoni che colgono tutti i pretesti per agitarsi". I rapporti di polizia erano men che mai rassicuranti. lui li leggeva con avidità e se ne adontava. Vi apprendeva quanto fosse "unanime il malessere per le difficoltà della vita quotidiana, e come il guadagno giornaliero non consentisse di mantenere la famiglia per il continuo rincaro dei prezzi".
Era imposto il sacrificio dei consumi civili. Si doveva economizzare su tutto, perfino sulla carta bollata, per cui si dispose che ne bastava mezzo foglio. Per un giorno alla settimana era vietata la vendita della carne, e, per ridurne le importazioni, si consigliavano le massaie di allevare polli e conigli. Le ricerche petrolifere in territorio nazionale non davano "risultati apprezzabili", era dunque necessario risparmiare la benzina. Si attendeva che si producesse su scala nazionale la lana sintetica; e nel frattempo il regime si rivolgeva alla ginestra.
"La ginestra - diceva Mussolini - cresce spontaneamente dovunque". Era conosciuta da molti italiani solo per un canto leopardiano. "Ma oggi aggiungeva - essa può essere industrialmente sfruttata". Sebbene autarchici, i prodotti non costavano meno. Anzi. Ad esempio, per un apparecchio radio - una Phonola cinque valvole, onde corte e medie - ci volevano 1.200 lire tonde. Molto più d'uno stipendio. Eppure una radio era indispensabile per non morire nell'autarchia delle idee. Trionfava necessariamente il sistema degli acquisti rateali, anche per capi di vestiario: neanche un impermeabile si pagava tutto in una volta. Occorreva far quadrare il bilancio familiare, sempre più rigido. Tutto faceva paura, anche una piccola contravvenzione di dieci lire e dieci centesimi, l'ammenda di allora. Erano di moda quattro versetti:
"Oh pizzardone, gran cappellone / tu sei il re della genial circolazione. / Ah quante preci mai non ti feci / per scompare dalla multa dieci e dieci".
Sogni e incubi delle vecchie mille lire: addio.

E Giolitti creò la Banca d'Italia

Alla fine degli anni '80 del secolo scorso, a vent'anni dall'unità nazionale, erano in molti a ritenere che il nuovo Paese non sarebbe riuscito ad affrancarsi dalle sue condizioni di arretratezza economica e di subalternità politica. Per lungo tempo, i governi della Destra succedutisi alla guida dei gabinetti, si erano affannati ad inseguire il traguardo del pareggio di bilancio, raggiunto infine nel 1876. Ma il risanamento dei conti dello Stato aveva comportato, oltre a duri sacrifici da parte dei contribuenti, anche il drenaggio di notevoli risorse verso la copertura di prestiti e di titoli pubblici emessi pressoché a ripetizione; e ciò a scapito degli. investimenti in attività produttive.
Di conseguenza, la Sinistra costituzionale, una volta al potere, si era trovata nella seconda metà degli anni '70 nella necessità sia di alleggerire un carico fiscale divenuto sempre più oppressivo e intollerabile sia di assecondare in qualche modo, attraverso un incremento della spesa pubblica in determinate infrastrutture e in particolari incentivi all'agricoltura e all'industria, lo sviluppo dell'economia, altrimenti bloccata su posizioni stazionarie. D'altra parte, né il mercato finanziario né il sistema bancario erano ancora orientati verso una politica di intervento a sostegno delle imprese. Anzi, su questo versante continuavano a sopravvivere non pochi elementi di freno e di vischiosità.
In primo luogo, per la presenza di compagnie finanziarie, talvolta legate a filo doppio con importanti gruppi d'interesse stranieri, che badavano esclusivamente a lucrare sulle emissioni pubbliche, sulla compravendita di terre e di beni immobili, su altre particolari operazioni di carattere speculativo. In secondo luogo, perché l'Italia unita aveva ereditato dagli Stati della penisola, oltre a una notevole massa di debiti, un complesso quanto mai vario e frazionato di istituti bancari, alcuni dei quali godevano anche del privilegio di emettere moneta cartacea.
Nei confronti di questo universo così disperso e anacronistico, inutilmente i vari governi avevano cercato di mettere ordine, proponendo misure tali da determinare particolari processi di fusione o di eliminazione. Così che la pluralità degli istituti di emissione e la mancanza di un assetto normativo unitario si rivelarono ulteriori elementi di debolezza e di precarietà, non appena si propagarono anche in Italia I contraccolpi della grave crisi economica e finanziaria abbattutasi sull'Europa dall'inizio degli anni '80, Per giunta, gli sperperi succedutisi nel vortice della speculazione edilizia, in cui alcune delle principali banche risultavano direttamente coinvolte, stavano disgregando il sistema bancario e mandando in fumo tanti sudati risparmi e parecchie grosse fortune.
C'era inoltre da temere che il dissesto del "Credito Mobiliare" (costretto nel 1893 a chiudere i battenti) e quello parallelo della "Banca Generale" trascinassero nel precipizio una parte rilevante dell'industria italiana, già di per sé fragile, giacché a questi due Istituti facevano capo i più svariati settori (da alcune primarie società ferroviarie e marittime a non poche aziende alimentari e tessili). A sua volta, lo scandalo della "Banca Romana", una delle principali banche d'emissione, che aveva cercato di far scivolare una serie duplicata di biglietti per 40 milioni di lire e vantava utili fittizi a riscontro di crediti inesigibili, aveva scosso ogni residua fiducia nel sistema bancario e chiamato in causa la responsabilità di uomini politici e di governo, accusati di aver imposto per lungo tempo all'Istituto romano e ad altre banche costosi salvataggi con nuove emissioni di carta a corso forzoso o cospicui interventi finanziari rispondenti talora a particolari giochi di potere.
"Quando affondarono il Credito Mobiliare e la Banca Generale - scrive Maffeo Pantaleoni - sciagure gravi opprimevano l'Italia. Era il 1893. Una bancarotta morale, immensa, rivelata dalle risultanze del Comitato del Sette, dal processo Pinto-Chauvet, da quello della Banca Romana".
A queste crepe, apertesi nel sistema bancario, si devono aggiungere le pesanti conseguenze della "guerra doganale" con la Francia. La rottura del rapporti commerciali con Parigi, avvenuta in seguito all'adozione da parte italiana nel 1887 di un regime protezionistico all'importazione dei cereali e di alcuni prodotti industriali, mise infatti in serie difficoltà quei settori dell'agricoltura specializzata che collocavano una parte consistente della loro produzione sul mercato transalpino. D'altra parte, la controversia con la Francia portò al blocco degli investimenti francesi nella penisola e al dirottamento dei titoli della rendita pubblica italiana dalla Borsa di Parigi a quella di Berlino. Ciò che rafforzò la supremazia della Germania nell'ambito della Triplice Alleanza, stipulata nel 1882, e restrinse i margini d'azione del governo Italiano in sede internazionale.
In ultima analisi, c'era più di un buon motivo per giustificare il pessimismo di quanti quegli anni non scorgevano una via d'uscita dalla profonda crisi che travagliava la penisola, afflitta oltretutto (anche ci causa del dilagare della disoccupazione e del forzato esodo di decine e decine di migliaia di emigranti) dall'esplosione di aspri conflitti sociali tanto nelle campagne quanto nei maggiori centri urbani, Così che sembrava In pericolo la stessa stabilità delle istituzioni.
Ci è parsa necessaria questa lunga premessa per dare un'idea sia pure sommaria dello scenario politico ed economico che fece da sfondo alla decisione di procedere all'istituzione della Banca d'Italia. l'esigenza di porre rimedio alle drammatiche condizioni in cui versava il Paese ebbe infatti una parte determinante nell'iter che portò alla legge del 10 agosto 1893 sul riordinamento degli Istituti di emissione.
Dal governo Di Rudinì, che per primo nel novembre 1891 pose il problema di mettere ordine fra le banche d'emissione (in quanto impegnatesi oltre misura nel soccorso all'industria edilizio e scivolate sempre più sulla china dell'immobilizzazione di una parte considerevole del loro portafogli), al governo Giolitti, che giunse a imporre una riforma radicale del sistema bancario (superando le resistenze degli Istituti di emissione e le riserve degli economisti liberisti), la preoccupazione di salvare il salvabile, e di evitare così tanto il collasso della lira quanto quello dell'economia italiana, fu il filo conduttore delle complesse operazioni che si tradussero infine nella fusione fra la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito e la Banca Nazionale, destinata ci dar vita alla Banca d'Italia.
"Fin dal suoi primi passi - dirà Giolitti nell'ottobre 1893 - la nuova maggioranza e il Ministero si trovarono di fronte una questione economico e morale di gravità eccezionale ... ". le varie fasi che scandirono la preparazione e l'itinerario legislativo del riordinamento degli Istituti di emissione sono stati di recente ricostruiti con un'ampia raccolta di documenti, provenienti dall'Archivio Storico della Banca d'Italia e da altri fondi.
Nelle pagine del primo dei volumi editi spicca la figura di Giolitti, il quale, pur costretto ad agire in un campo minato non solo dai conflitti d'interesse fra le diverse banche d'emissione e dall'opposizione di alcune dì esse alla fusione, ma anche da altre gravissime circostanze (a cominciare dai retroscena dello scandalo della Banco Romana che avrebbe investito la sua stessa posizione e credibilità personale), seppe portare a compimento con consumato abilità ed energia il piano prefisso. Fu lui, di fatto, l'artefice del riassetto degli Istituti di emissione, così come, successivamente, dell'opera di risanamento monetario e di progressiva restaurazione della finanza pubblica: il che si sarebbe rivelato essenziale per il rilancio dell'economia italiana, in funzione del "decollo industriale" dei primi del '900, e per l'inaugurazione di un indirizzo liberal-riformista in un contesto di ritrovata stabilità politica.

Chi ha inventato il debito pubblico

L'antichità classica non conobbe il debito pubblico. Questo debito fu un'invenzione dei Comuni medioevali italiani. Il primo esempio di debito pubblico di cui si abbia notizia risale al 1167, e si trattò di un prestito forzoso imposto dalla Repubblica di Venezia ai suoi cittadini abbienti. Venezia, Genova e Firenze furono i centri che più precocemente svilupparono e affinarono le tecniche del debito pubblico. A Genova, nel 1274, si decretò il consolidamento del debito pubblico che aveva raggiunto la somma di 305 mila lire genovesi del tempo. Sempre a Genova, nel 1407, quando il debito pubblico aveva raggiunto la somma di circa 3 milioni di lire genovesi, i creditori dello stato si consorziarono in un ente chiamato "Casa di San Giorgio", che divenne praticamente il padrone dello Stato.
A Firenze, nel 1303, il debito pubblico ammontava a circa 50 mila fiorini d'oro: una cifra in fondo ragionevole. Ma o partire da quella dato il Comune si trovò impelagato in una serie di conflitti proprio nel momento in cui per l'introduzione dell'artiglieria e la sostituzione delle milizie civiche con le bande mercenarie le guerre si facevano tremendamente più costose.
Lo Stato ha tre modi per sopperire alle proprie spese: tassare i cittadini, svilire la moneta, ricorrere al credito.
Firenze rispettò gelosamente l'integrità della propria moneta, andò molto cauta nell'imporre tasse, e pertanto fu costretta a ricorrere abbondantemente al credito. Il debito pubblico fiorentino, che era di circa 50 mila fiorini d'oro nel 1303, passò a circa 600 mila fiorini nel 1343, circa un milione e mezzo di fiorini nel 1364, circa 3 milioni di fiorini nel 1400. Il crescente bisogno di denaro da parte dello Stato spingeva al rialzo, per logica conseguenza, il tasso d'interesse.
D'altra parte, vigeva in Firenze una disposizione emanata nel 1345 che fissava nel 5 per cento il tasso d'interesse massimo da corrispondere al creditori dello Stato. Per aggirare la difficoltà, nel 1358 si arrivò ad autorizzare l'iscrizione dei prestiti sottoscritti per somme triple di quelle effettivamente versate. In altre parole, se un cittadino versava come prestito al Comune la somma di cento fiorini, sul gran libro del debito pubblico veniva indicato come creditore di trecento fiorini. Al tasso del 5 per cento, costui veniva in effetti a percepire il 15 per cento (5 per cento per 3) sulla somma effettivamente versata (100 fiorini), e inoltre realizzava un eccezionale guadagno speculativo in conto capitale.
Allora non stupisce apprendere dalla "Cronica" di Matteo Villani che in quel periodo molti uomini d'affari fiorentini cessarono di investire i loro capitali nella mercatura, indirizzandoli invece sul debito pubblico. I privati con disponibilità liquide arricchivano, mentre lo Stato si impoveriva.
Il fatto che i prestiti comportassero il pagamento di un interesse frenò il ricorso al credito da parte dello Stato Pontificio. Ma nel corso della prima metà del '500 la spesa pubblica straordinaria e ordinaria aumentò notevolmente. D'altra parte, le entrate pubbliche diminuirono drasticamente, perché mezza Europa divenne protestante, e dunque cessò di inviare a Roma rendite e tributi (primo fra tutti, il cosiddetto "obolo di San Pietro").
Il movimento a forbice di entrate calanti e di uscite crescenti costrinse il Papa a vincere i suoi scrupoli. Il primo ricorso al prestito pubblico ebbe luogo nel 1526, quando Papa Clemente VII (si noti: un Medici di Firenze) lanciò un prestito per 200 mila ducati d'oro al fosso del 10 per cento. I successori seguirono il suo esempio. Il debito pubblico dello Stato Pontificio ammontava a 5,6 milioni di scudi nel 1592, superava i 9 milioni nel 1604 e raggiungeva i 28 milioni nel 1657 Nel 1592 il pagamento degli interessi assorbiva circa il 30 per cento della spesa statale.
Tecnicamente, il debito pubblico pontificio venne gestito in maniera inappuntabile. Con tutto probabilità, c'era dietro la consulenza dei fiorentini. Quanto ai genovesi, essi divennero i consulenti e gestori del debito pubblico spagnolo nella seconda metà del '500.
Delle grandi città italiane medioevali, quella che non riuscì ad organizzare un regolare servizio di debito pubblico fu Milano. Non per virtù e parsimonia dei Visconti e degli Sforza, bensì perché l'arbitrio e l'abusa che caratterizzavano il modo di governare dei duchi milanesi erano elementi tali che non ispiravano la fiducia di chi avesse disponibilità liquide. Ragion per cui i milanesi investivano volentieri i loro capitali nei titoli di debito pubblico di Genova o di Venezia.
Quando, nella seconda metà del '400, stabilitasi' l'alleanza tra milanesi e fiorentini, il duca Francesco Sforza convinse Lorenzo il Magnifico ad aprire una filiale della "Banca Medici" in Milano, si verificò un interessante fenomeno. I milanesi dimostrarono una decisa propensione a depositare le loro disponibilità liquide presso la "Medici", la quale a sua volta prestava le somme raccolte in larga parte al duca Francesco. Ma questi, debitore della "Medici" per somme sempre crescenti, non conosceva puntualità né nel pagare gli interessi pattuiti né nel rimborsare il capitale alle date promesse. La "Medici" invece pagavo puntualmente gli interessi ai suoi depositanti e rimborsava regolarmente i capitali depositati a semplice richiesta. Uno stato di cose del genere evidentemente non poteva durare a lungo. E nel 1478 Lorenzo ordinò la chiusura della filiale milanese della "Banca Medici".

La moneta tra feudi e re

La storia della moneta riassume in sé l'evoluzione dei rapporti economici e sociali; ma proprio questa sua caratteristica di sintesi estrema rende difficile allo studioso ricostruire e tradurre il complesso e ricco messaggio che ci viene dalle vicende monetarie dei secoli passati. Quando lo storico riesce in questo arduo compito, il suo lavoro non si rivolge più solo alla ristretta cerchia degli specialisti, ma a tutti coloro che sono interessati a conoscere i problemi economici di oggi nelle loro origini più antiche e in un certo senso più autentiche.
Il lavoro di Peter Spufford ("Money and its use in medieval Europe", pubblicato a Cambridge), che si propone questo ambizioso obiettivo, ha richiesto vent'anni di ricerche. il risultato è unico: se opere anche decisive erano già state dedicate ad aspetti fondamentali della moneta e della finanza del Medio Evo, nessuno era ancora riuscito a ricostruire tutta la storia della monetazione in Europa dalla caduta dell'Impero romano alla fine del 1400, mettendo in evidenza il collegamento con le vicende economiche di quei secoli.
Il Medio Evo rappresenta un periodo chiave per questa ricostruzione, perché è allora che nasce una società precapitalistica e commerciale e si afferma un'economia monetaria nel senso moderno dell'espressione. E' nel momento in cui si manifestano le prime pulsioni verso il profitto e si pongono problemi di pagamento e di conservazione del valore che si riescono a vedere gli aspetti essenziali dei problemi di teoria e dì politica monetaria: gli stessi che al di là delle manifestazioni contingenti ritroviamo ai giorni nostri.
L'evoluzione delle specie monetarie propone un primo elemento di riflessione sui problemi collegati al diritto di battere moneta, e alle determinanti della quantità di moneta in circolazione. Se in origine la coniazione era privilegio regale, tanto che l'editto di Rotari sbrigativamente comminava la pena del taglio della mano a chi emetteva moneta senza l'autorizzazione regia, a poco a poco il frazionarsi della società feudale moltiplica il genere e il tipo delle monete in circolazione, distribuendo la coniazione in ciascuno dei mercati, o embrione di mercati, caratteristici dell'economia curtense.
La centralizzazione voluta da Carlo Magno porta al frazionamento della lira in 20 soldi, ciascuno diviso in 12 denari, che verrà abbandonata solo con l'adozione del sistema decimale; ma non resiste alla contrazione degli scambi che si verifica fino all'anno Mille. E' a cavallo di questa data fatidica che il numero dei centri di coniazione (quindi l'offerta di moneta) incomincia a espandersi e a contrarsi con il pulsare della vita economica; la coniazione non dipende più soltanto da un'astratta autorità, ma da concrete esigenze economiche, mosse dalla ripresa degli scambi e dalla produzione per il mercato.
Sono le città italiane del XIII secolo a distinguersi nella coniazione della nuova moneta (i "grossi" in luogo dei "piccioli") e nel ritorno alla moneta aurea. Si realizza così un nuovo sistema monetario, fatto su misura per le esigenze di pagamento dei mercanti, che sono i veri pionieri della rinascita economica e culturale.
L'argento era la base monetaria dell'epoca. La sua disponibilità aumentava per effetto dei surplus commerciali accumulati dai mercanti grazie a uno spirito di intrapresa non disgiunto da mancanza di scrupoli di fronte alle occasioni di profitto. le stesse Crociate ebbero alla base una forte spinta economica e lasciarono il loro segno sulla moneta. I "grossi" veneziani vennero coniati dal Doge Enrico Dandolo con l'argento degli 85 mila marchi pagati dai cavalieri della Quarta Crociata per il trasporto verso Oriente.
Spufford ricostruisce minuziosamente il movimento della circolazione monetaria, e dimostra come i surplus commerciali siano stati più importanti della disponibilità di metallo prezioso. L'argento abbandona i luoghi dove viene estratto e giunge nelle città in cui ferve l'attività economica e commerciale e si accumula capitale.
La moneta diviene rapidamente lo specchio della reale forza economica dell'emittente. Nel 1330 a Firenze si coniavano 350 mila fiorini, mentre in Fiandra non si andava oltre i 100 mila; e a Lubecca, capitale della lega Anseatica, non si superavano i 35 mila. Novant'anni più tardi Venezia batteva un milione e 20,9 mila ducati, contro i 300 mila dei Paesi Bassi Anche l'Inghilterra, grazie alla sua produzione di lana, si troverà ad essere un Paese strutturalmente in surplus e ad accumulare ingenti riserve di metallo prezioso.
Le vicende di questo periodo mettono in evidenza come le esigenze del commercio richiedano di superare i limiti, necessariamente angusti, della moneta metallica. Nasce la cambiale, nascono i "banchi di scritta", si costituiscono delle vere e proprie reti bancarie internazionali (il merchant banking nel senso letterale del termine è di origine fiorentina). Si forma, in altre parole, una struttura monetaria e creditizia, certo ancora rozza, ma con tutti i segni inconfondibili di quelle attuali; e con gli stessi problemi, a cominciare da quello delle crisi bancarie. In questo caso, le misure erano molto più sbrigative di quelle a disposizione dei moderni organi di vigilanza, ma probabilmente non prive di una loro immediato efficacia. Nella Barcellona del XIV secolo i banchieri insolventi venivano imprigionati e tenuti a pone e acqua fino a che tutti i creditori fossero stati rimborsati. Se il rimborso completo non avveniva entro un anno, la pena prevista era la decapitazione.
Tutti i problemi di controllo della moneta e del credito sono presenti in questo periodo. In un regime di moneta metallica, la patologia della moneta si chiama "tosatura", cioè variazione del contenuto metallico. Questa operazione, fonte di facili guadagni per il principe, ebbe -tanto per cambiare - la propria causa nel deficit pubblico e nelle spese militari, che allora ne erano la determinante fondamentale. Fu Filippo IV, alla fine del XIII secolo, a ricorrere a questa forma di "autofinanziamento", ricavando 100 mila lire su una coniazione totale di 500 mila.
La reazione immediata di nobili e vescovi, che in quanto percettori di rendite erano i più colpiti, o almeno quelli che più potevano permettersi di strillare, portò a un abbozzo di "costituzione monetaria", secondo cui il re non avrebbe potuto cambiare il contenuto di metallo prezioso della moneta senza una consultazione preventiva.
Questo principio sul piano pratico non resisterà alle pressanti esigenze della guerra dei Cento Anni. Filippo VI, in cinque anni, dimezzerò il contenuto d'argento della moneta, senza alcuna consultazione, ma farà gradualmente emergere una linea di pensiero che porterà a mettere in evidenza i limiti del potere del principe in materia di emissione della moneta.
Fra i Paesi che non hanno conosciuto quello che Spufford giustamente definisce il "flagello" della tosatura vi è l'Inghilterra. Non è azzardato pensare che il maggiore equilibrio dei poteri che ha caratterizzato questa terra dalla Magna Charta in poi sia stato una causa fondamentale di questa invidiabile situazione. Il Medio Evo lasciò quindi all'Inghilterra due beni fondamentali: le riserve d'argento accumulate con il commercio e la stabilità monetaria. Su queste due basi si costruirà negli anni successivi, e fino all'800, il potere economico e politico britannico. La moneta e la finanza non parleranno più la lingua di Dante, ma quella di Chaucer.


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