§ Lo spirito e l'economista

Confusione da capitalismo




Carlo M. Cipolla



Le parole hanno una loro vita: nascono, si trasformano, muoiono, mutano di significato col mutar del tempi. Seguire la storia di una parola è generalmente un esercizio affascinante e quanto mai istruttivo. Ovviamente ci sono parole e parole: quelle che hanno un rilievo e uno spessore culturali maggiori e quelle che questo rilievo e questo spessore non hanno.
Ci sono poi parole grosse di cui la gente si riempie la bocca e che vengono continuamente adoperate, e purtuttavia sono fonte di ambiguità, perché il loro significato è tutt'altro che preciso: ciascuno usa tali parole secondo il suo comodo e a seconda che gli giri, così che queste parole finiscono con l'essere fonte di confusione anziché mezzi per trasmettere informazioni precise. Si prenda il caso del termine "capitalismo". E' un termine che tutti usano, che si incontra dovunque, nei giornali, nei libri di divulgazione, nei trattati scientifici. Nessuno dubita di sapere che cosa si debba intendere per "capitalismo", salvo impappinarsi, quando sia richiesto di precisarne il significato. Il fatto è che il significato del termine è quanto mai ambiguo. Già Richard Passow, nel suo libro Kapitalismus. Eine begrifflich-terminologische Studie, pubblicato a Jena nel 1927, scriveva che il termine "capitalismo" si addice soltanto alla prosa dell'agitatore politico per il quale "la parola è tanto più utile quanto più ambigua".
Passow auspicava che il termine fosse bandito per sempre dal vocabolario scientifico. E non era solo. Herbert Heaton si disse convinto che "il termine capitalismo dovrebbe essere eliminato dal vocabolario di ogni studioso che si rispetti". Analoga intensa antipatia per il vocabolo in questione era nutrita dallo storico francese Lucien Febvre. E tuttavia, a onta di tante e tanto autorevoli bordate, il termine "capitalismo" continua a comparire con immutata frequenza anche nelle pagine di coloro che ne farebbero volentieri a meno, e che spesso manifestano la loro intima insoddisfazione mettendo il vocabolo tra virgolette. Forse aveva ragione Andrew Shonfield quando scrisse che la ragione per cui il termine continuo a essere usato è che finora nessuno gli ha trovato un sostituto. Ma come si fa a trovare un sostituto, se non si sa con precisione che cosa il termine significhi?
Secondo Fernand Braudel, la voce "capitalismo" era usata correntemente già alla metà dell'800, ma guadagnò popolarità nei circoli scientifici solo con la pubblicazione dell'opera Der moderne Kapitalismus (1902), di Werner Sombart. In origine il termine "capitalismo" non fu usato per esprimere un concetto ben definito, bensì come strumento retorico nella prosa infiammata e infiammatoria della polemica sociale. Così una delle prime definizioni del termine èquella di Leon Blanc, nel 1850: "Quel che chiamerò capitalismo è l'appropriazione del capitale da parte degli uni, a esclusione degli altri". In vena analoga, qualche decennio più tardi Rouxel tuonava: AI capitalismo è l'accumulazione eccessiva e illegittima dei capitali".
Il professor R.M. Hartwell ha fatto notare che gli economisti classici della scuola anglosassone fecero un uso limitato del termine, e con evidente riluttanza. Ma i sociologi, gli economisti e gli storici economici del Continente non dimostrarono certamente uguale ritegno. Mentre gli effetti dell'industrializzazione si dimostravano sempre più evidenti e diffusi, e ci si convinceva che, per il bene o per il male, il mondo occidentale stava producendo un sistema socioeconomico che non aveva precedenti nella storia dell'umanità, veniva avvertita la necessità di coniare un termine che sinteticamente esprimesse tale singolarità. Il termine "capitalismo" parve offrire la soluzione. Ma fu una soluzione illusoria, perché il vocabolo rimase semplicemente uno strumento retorico. la scelta dell'etichetta non aiutò a risolvere i problemi del contenuto. Quali erano i tratti fondamentali dello sviluppo che si voleva descrivere? Quando tali tratti cominciarono ad apparire? L'etichetta era stata scelta prima ancora di decidere quale vino mettere in bottiglia.
Non si può menzionare il termine "capitalismo" senza ricordare Max Weber. Nella sua General Economic History, Weber scrisse: "Il capitalismo è presente ogni qualvolta il soddisfacimento industriale dei bisogni di un dato gruppo umano è attuato per mezzo dell'impresa, e ciò indipendentemente dal tipo dei bisogni". Detta la qua[ cosa, che peraltro resta di colore oscuro, Weber procedeva in quella che secondo lui era una chiarificazione: "Più specificamente, una Istituzione razionale e capitalistica è quella fondata su una contabilità di capitale, cioè una istituzione che determina la sua reciditività per mezzo di calcolo basato su sistemi di contabilità moderna e con la formulazione di un bilancio. Fu il teorico olandese Simon Stevin nel 1689 a insistere per la prima volta sulla necessità dello strumento bilancio", Tutto questo, inclusa la scelta di Simon Stevin, suona abbastanza strano. Non contento di ciò, tuttavia, Weber continuò scrivendo che "mentre il capitalismo, in varie forme, si incontra in tutti i periodi della storia, il soddisfacimento dei bisogni quotidiani mediante sistemi capitalistici è una caratteristica del solo Occidente, praticato soltanto a partire dalla metà del secolo XIX"_ Con tutto il rispetto dovuto al grande sociologo tedesco, devo confessare che l'intero paragrafo mi da l'impressione di una mente disperatamente intenta a contendere, senza successo, con un concetto quanto mai elusivo.
Ma che cosa c'era, e c'è, di così elusivo nel concetto di "capitalismo"? L'uso di questo termine presuppone ovviamente l'accordo sui tratti che fanno di una data società una società capitalistica. Ma anche una volta che si sia raggiunto un accordo sui parametri da usarsi, resta il problema del livello di intensità che quei parametri devono acquisire perché la società possa definirsi capitalistica.
Ricorro a un esempio per chiarire meglio le cose. Alexander Gerschenkron scrisse una volta che "capitalismo è quei sistema basato sulla proprietà privata dei beni capitali e sull'esistenza di lavoro salariato che non ha controllo di proprietà sui beni capitali". A prima vista, questa sembra una definizione precisa.
Ma, anche se si concorda con Gerschenkron sulla scelta dei due criteri (proprietà dei beni strumentali ed esistenza di lavoro salariato che non partecipa a tale proprietà), il problema rimane aperto. A meno di voler rozzamente e grossolanamente ignorare le complessità della realtà storica e indulgere nel deteriore sport di ricostruire una storia economica fasulla, bisogna ammettere che società assolutamente prive di proprietà privata di beni strumentali o popolate soltanto di lavoratori che avessero in proprietà i beni strumentali non sono facili da trovare nell'esperienza storica. La realtà storica è fatta di gradazioni; e se questo è il caso, rimane da chiedersi quale sia il livello di intensità che i parametri indicati da Gerschenkron devono raggiungere perché si possa parlare di una società capitalistica.
Scontratisi con difficoltà del genere, che sono sia concettuali sia pratiche, gli studiosi tedeschi del primo '900 cercarono di risolvere il problema introducendo nel gioco il Geist, cioè lo "spirito". Far ricorso a un fattore per definizione non misurabile per la soluzione di un problema che già soffriva per la mancanza di parametri ben definiti e misurabili era un'operazione sicuramente destinata all'insuccesso. La confusione crebbe a dismisura.
Così, per esempio, Werner Sombart scrisse che "in tempi passati lo spirito capitalista può essere esistito, prima e in mancanza di un'effettiva organizzazione capitalistica". In posizione completamente antitetica, Fullerton scriveva che "nella Firenze del secolo XIV mancava lo spirito capitalistico, ancorché vi fossero forme di organizzazione capitalistica". In altre parole, lo spirito poteva esistere senza la carne, o la carne senza lo spirito. E siccome né la carne né lo spirito venivano chiaramente definiti, ognuno poteva dire quello che voleva.
Di fronte a tale cortina fumogena di confusioneconcettuale, vari studiosi ebbero reazioni diverse. Alcuni dichiararono scetticamente che il termine "capitalismo" non aveva alcun valore operativo, e che poteva venir usato soltanto in senso molto vago. Così Ludwig von Mises scrisse, non senza una nota di impazienza, che "se capitalismo significa qualcosa, significa economia di mercato". Altri, più cocciuti, insistettero nel voler dare di "capitalismo" una definizione con pretese di scientificità, e Karl Muhs arrivò a proporre una definizione di "capitalismo" che occupa un'intera pagina del suo libro fittamente stampato.
Data l'ambiguità del termine, non stupisce se le origini del "capitalismo" siano state individuate da vari autori in tempi e in luoghi quanto mai distanti e differenti tra loro. Vi sono studiosi che hanno creduto di trovare tracce di organizzazione capitalistica nell'antica Babilonia, altri nell'antichità classica greco-romana. Tra coloro che si sono accontentati di tempi meno remoti, c'è stato chi ha datato la nascita del "capitalismo" nell'XI secolo, chi nel XII, chi nel XIII, chi nel XV, chi nel XVI, chi nel XVII e chi nel XVIII. In parallelo, per adattare il "capitalismo" a epoche e società tanto diverse, lo si suddivideva in altrettanti travestimenti: si parlò quindi di capitalismo commerciale, capitalismo mercantile, proto-capitalismo, tardo-capitalismo, capitalismo finanziario, capitalismo industriale, capitalismo manageriale. Un fatto è però da notare: nessuno, tra sociologi, antropologi, economisti, storici economici, si è azzardato a datare le origini del "capitalismo" (di qualsivoglia specie) al secolo XIV: fu il secolo della grande peste!

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