§ Profumi in due tempi

Il canto della civetta




Grazia Maria Poddighe



"Sentirsi gonfi come un autunno pieno! E' il tema dell'isola, l'autunno. Il mirto ha un sapore nero. che cola nero nelle viscere".
"Il taglio esatto delle carni, quando ammazzavano il maiale e lo cospargevano di mirto! lo sorvegliavo, dalla mia sedietta di vimini, e c'era un momento di raccoglimento, prima. Poi, aprendo gli occhi, riprendeva la litania della cucina grande, affumicata, col camino che tirava e tirava. Paolino l'infermiere era addetto alla legna. Quasi quasi aveva paura del sangue. Dei resto il suo lavoro si limitava a poche iniezioni, alle fasciature, quando la ferita era già pulita e non dava fastidio. Signora Pierina cominciava, ed era come il tocco della bacchetta di un direttore d'orchestra".
"Ricordi precisi, netti come sciabolate. Anche per me. Appena mi sbuca davanti la casa rossa, penso alle raccoglitrici di olive, con le cocche della veste a nascondere il tesoro".
"Suggestioni femminili, sempre. Gli uomini non te li ricordi, quando pestavano l'uva".
"La donna ha sempre avuto qualcosa di prezioso. Non come una suppellettile. Come un oggetto che abbia attributi religiosi, e anche apotropaici. Mia madre. Era tenera come una foglia. Anche tu. Sei come Euridice. molle come una foglia, che scompare ma sa già che rispunta".
"Ma Euridice non voleva salvare l'amante. Perché voltarsi, non riuscire a resistere? lo invece sono qui per salvare entrambi. Non è possibile voltare le spalle a se stessi. E tu, sei me stessa. Ti ho tradito, offeso, abbandonato. Era contro di me che agivo. Ho continuato a farmi male, come facevo da bambina. Ho sempre agito contro me stessa, quasi non mi sentissi degna della felicità. Ma sono scesa qui, dentro di me. Questa terra sei tu. Tu mi sei terra e madre. Sei l'unica cosa che ho, che sia grande e bella, e insieme disgustosa per la sua irreducibilità a non mutare".
"E tu sei la mia memoria. Se non ci fossi, sarei terra arida, che non si la piantare. E mi sento un fico col suo lattice, mi sento giovane. Tu mi dal l'emozione che allontana la vecchiaia dei sentimenti. Tu possiedi, ai miei occhi, la bellezza".
"Ti si potrebbe chiedere di spiegare del mare, dei cicli della luna. Hai una vetustà venerabile come quest'isola. Come se la tua parola mi raggiungesse per miracolo, perché possa possederla, in questo mondo isolano che sembra così altro da quello che ho lasciato".
"E' un mondo diverso da quello, come varia la campagna da un paese all'altro, anche il mare. L'illusione era che l'isola non dovesse cambiare. Pensavamo di avere il talismano dell'isola felice. troppo distante dal continente benché così vicina, perché potesse contaminarsi e mutare. Mutare ha significato imitare, allontanarsi da se stessi, farsi come tutti i luoghi del mondo in questo momento. Perciò, se ti dico che sei il mare, intendi: non voglio assimilarti ad altro mare che quello della mia memoria, non a questo, popolato e anonimo, spolpato quasi, d'azzurro".
"E quando ti dico che sei padre e madre. intendo che tu rappresenti lo stato puro del sentimento, quale dovrebbe manifestarsi da parte del genitore verso il figlio. Ma forse sbaglio a dirti questo, né so se tu comprendi davvero ... ".
"Ma se prima ancora che lo pensi, io so già cosa stai per dire! La purezza, la forma pura! Ma noi siamo esseri umani, ibridi, confusi e implicati dalla mescolanza di forze che lottano per sopraffarsi. Nei nostri momenti migliori, siamo la rappresentazione di una compiuta imperfezione. Mettiti in testa che siamo meschini e ipocriti nel migliore dei casi; ma la natura umana ha un suo fascino e una sua discrezione: i difetti, i vizi, se ben dosati, danno l'idea di una splendida compiutezza. La natura umana è un sapiente dosaggio di opposti e di mistero. Le vedi queste cose, solo che non ti circondi di te stessa. E poi, dì, ami la perfezione delle forme o la loro scomposizione? La deformazione o l'armonia? lo detesto l'incompiutezza e l'ostentazione dell'equilibrio. Vorrei che l'arte fosse a misura d'uomo. Non parlo di realismo, ma di gusto della realtà: la realtà si scuote di dosso ogni forzatura, ogni estorsione per imporsi".
"Ma di quale realtà parli, che non so ancora bene cosa sia? Sono come chi scrive in una tavoletta di cera, una scolara. Che, prima che la cera si rapprenda, vorrebbe scriverne mille, di definizioni della realtà, e poi [arie sparire. Ma non sono certa che l'ultima sarebbe migliore della prima. Non so se i miei occhi mi tradiscano, o se è vero che il mondo è interessante davvero, nonostante la sua sporcizia e falsità, il mio universo è sempre stato una camera buia, dove scrivere e disegnare per sostituirvi il mondo dei colori e della vita. La campagna era un brulicare di forme di vita, uno scorgere e osservare, senza capire il perché. Una vita diversa e separata da quella dell'uomo, che sembrava in sintonia con gli animali che uccideva. Nella vita animale, la casualità e la brevità; in quella dell'uomo la complicatezza e la presunzione della durata. E quel Dio degli uomini, così avaro d'affetto. In quella vita di campagna, che aveva ritmi diversi rispetto alla città, ravvisavo una istintività, una libertà, che erano diversamente, ma nella stessa misura, crudeli".
"Per me non c'è stato mai antagonismo. Vivevamo in paese, era un'avventura arrivare alla casa rossa. Sul golfo, allora. di case ce n'erano due. Avevano una, due stanze, la casa dell'appuntato e quella della maestra, senza gabinetto. Vivevamo all'aperto, in compagnia del cielo che assecondava l'ansa del golfo. Ciò che amavo da bambino erano le scarpe chiodate di Sebastiano il figlio del mezzadro, che potevano risuonare e far chiasso, a manifestare che io, Pietro, c'ero e volevo essere considerato. I rumori familiari erano i crepitii dei topi, del grano smosso, il passo fulmineo della volpe, le voci della sera. Passava zio Tore, con le noccioline americane e la fainè, sai, la schiacciata genovese, e gridava per le strade. I ragazzi scendevano, le donne continuavano a lavorare, e sembravano messe al telaio per sempre, come le pecorine di gesso del presepe. E odori. L'oliva spaccata. L'oliva in salamoia, o seccata al sole. Come i pomodori succosi. I fichi secchi. L'olio scuro fresco, che ti saresti bevuto, tanto l'odore di roba buona che si sprigiona anche al chiuso, e ti fa riconoscere a naso il ripostiglio. E le mele, distese con cura sull'assito di legno, che si assottigliavano per le nostre sortite notturne in soffitta. Odore di gatto e di lino. Case basse, e nessuno per strada, gli uomini al lavoro, poche luci, niente vita fuori dalla famiglia. Ma poi scoprii il fucile, mi rivelò la caccia la cacciatora di zio Martino, che odorava di macchia. E andai con lui, sedici anni avevo, a imparare di tortore e di pernici. Il canto delle quaglie e il loro frullo, e la voce del tordo. L'emozione del Germano reale! E che profumo di mentuccia! Adesso che mi sembra una stagione tramontata, rimpiango l'orlatrice e le cartucce che si fabbricavano in casa, e mi pare di avere la testa frastornata dei gialli e del marrone, perché allora colori e sapori erano tutt'uno, e la selvaggina era colore, e il colore sapeva del fango e della fatica, degli acquitrini e dei ruscelli gelati. Questi sono ancora i miei odori, il mio olfatto ripudia gli altri, avventizi, della città.
E anche il sentore di pulito dei panni conservati nella cassapanca, panni d'inverno e d'estate, che si rinfrescano e si portano per una vita. Cambiarsi era una festa. Costava fatica, il bucato".
"Mia nonna non aveva odore, era pulita e basta. Profumo non ne usava, e storceva il naso davanti alla Violetta di Parma di Luciana. Però ci teneva ai capelli, che cambiava spesso, tutti neri con la veletta. Ma s'era dimenticata la campagna. Si sottoponeva alle regole della città come fossero norme universali, leggi. E forse perché aveva rinunciato alla libertà della campagna, irrigidiva, come per un'autopunizione, le consuetudini della città. Non c'era allegria in casa, e gli orari erano rigidi. Eppure aveva tutto il tempo per preparare, per badare alla casa. Anche per pensare a se stessa. Ma sembrava si fosse ceduta tutta intera alle abitudini contratte in campagna, che riproduceva nel mondo della casa in città, e si alzava prestissimo, perdeva tempo e se ne lamentava "Quante cose avrei fatto... " diceva, alle sette del mattino; e certo si riferiva ai lavori di campagna, e li rimpiangeva".
"Eppure, se sei così adesso, lo devi a quelle sere uggiose con tua nonna, che ti facevano desiderare la diversa solitudine della campagna. In campagna non si è soli, si è con se stessi.
Quando voglio stare con me, a tu per tu, me ne vado in paese, e mi metto a dormire nel lettone d'ottone di mia nonna. Ha i materassi di lana, e la mattina ho le idee più limpide: mi sento forte, in paese. La madia ha in serbo un tozzo di pane fino, che mi fa trovare Franceschino, che mi bada alla casa per amicizia. Poi me ne vado a osservare la campagna, che in questa stagione sembra una brughiera, e, se posso, tiro qualche colpo ancora, solo per ricordare a me stesso com'era qui, una volta. Se penso alla quaglia quando sono in città, lascio tutto e me ne vengo via. Troppo mi piace il sapore del ricordo, del fruttice alimentato dal suo odore, che mi smarriva di gioia, quand'ero ragazzo. Adesso mi stanco a camminare, una volta percorrevo tutta questa costa, a passo lungo, appresso a zio Martino. Più che altro, penso meno alla caccia quando sono a caccia; e più a te, sempre. Perché ti sento fraterna, come partorita dallo stesso grembo, come avessimo secoli in comune, e un attimo nel quale ci riconosciamo".
"Ma tu, adesso, cosa fai, oltre ad annusare i ricordi?".
"Niente. Nessun lavoro. Da quando sono in pensione, mi dedico intero intero a costruire una casetta nell'uliveto che ho sul mare. Mi sono trasformato in imprenditore, mi consola la vista sul golfo, mi dà l'illusione di poterlo percorrere ancora con le scarpe chiodate".
"Quand'è che mi ci porti"?
"Quando la strada è fatta. Adesso è un tale intrico ... ".
"Lo dici perché non vuoi che venga, non vuoi che nessuno mi veda"
"Voglio proteggere quello che c'è fra noi. Quello che passa fra noi, capisci bene, nessuno deve saperlo".
"Neanche la civetta?".
"Ancor meno! Guai se senti il canto della civetta! E' la morte, o la fine di qualcosa di vivo".

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