§ Profumi in due tempi

Infanzia




Grazia Maria Poddighe



"Se piove, chiedilo ai grilli, che non hanno daffare" furono parole di nonna, a rimestare la panna acida sul fuoco di carbone. mestolo di legno e semola; e un grande odore di rancido e di bollito, che alla cucina rendeva odor di pecora lessa, nauseante al lezzo, ma buona da mangiare. "E poi, lasciami fare. il braciere lo devo ancora sistemare, è ora di merenda". Il braciere, al centro della ruota di legno su cui appoggiavano le gambe fasciate di calze nere, grosse. le due vedove, era l'ultimo barbaglio di quelle sere senza grilli e senza cicale, un sentore di città chiusa, che sembrava sempre senza cielo, un universo che cresceva per suo conto, mentre in campagna era tempo di uva e di calessi che conoscevano le strade notturne, tutte di sassi e d'erba, e l'incontro con gli occhi gialli della volpe e i conigli che guizzavano, e sembravano imprendibili. Ma le ruote ne macinavano sempre, di orecchie e di mantelli di pelo: parevano luccicare. nella notte delle stelle. E un gran silenzio, che sembrava disteso sulle macchie come a godersi l'ultima estate. Notturni estivi di gufi e di passi leggeri, movimenti furtivi, profumavano i lentischi. "Ciau, comare Graziè", diceva col fiato in gola, signora Teresina, sotto il braccio la focaccia infarinata, e sempre un po' sul naso. di farina. "Venga, signora Teresì, l'ho fatto adesso, il braciere". Cominciava la sera delle chiacchiere, le gambe ad arrosolarsi mentre le mani non stavano in pace, e sbucciavano fagioli, o piselli o fave; o nettavano i carciofi, affettavano patate e verze. La nonna non vedeva l'ora che Teresina se ne andasse, per gustare in pace il suo
giornale, la sua cronaca nera. Teresina, d'altra parte, alle cinque assaporava il suo bicchierino di Vecchia Romagna e distendeva le gambe, mangiava al caldo l'ultimo tozzo di focaccia, riponeva le lenzuola da orlare, e si accomiatava. Al piano di sotto di quella casa grande e buia, dalle finestre strette e uggiose, Teresina ha un quartino in cui si cammina urtando le pareti, e nella stanza da letto si deve stare in piedi o coricati; non c'è spazio in cucina che per due persone che si stringano l'una all'altra, accanto ad un tavolino basso. come due bambini. Qui vive la signora Teresina Macci e suo marito, il signor Giuseppe, che meglio sarebbe chiamare Giuseppino. Vivono come gnomi in una tana, e sembrano felici. La signora Grazietta, invece, vive con sua nipote al piano di sopra, ed è come stesse sola, sempre nera, muta, apatica, gli occhi verdi che balenano, impotenti a modificare l'impressione di un oltraggio subito, l'atteggiamento di chi trascura di vivere e passa come può il tempo della vita. Sere che sembrano scroscianti di tristezza, per Tina, che si ascolta crescere da dietro le persiane, osservando la vita degli altri, incerta se farne la propria vita. Ma la casa ha libri, rotocalchi, e Tina ha spesso in regalo fogli da disegno, di carta ruvida, e acquerelli, e pastelli, e matite. Le sere si tramutano in scodelle, e le scodelle in lampade, grandi e tonde, per disegnarci, sotto, visi e figure che Tina non ha mai incontrato, sempre sola con sua nonna e signora Teresina.
"Dottò, l'agnello è pronto, se si vuole accomodare": campagna nella Nurra, case basse. allungate, scolorite, taluna rossa invece, o crema. E un treno come Tina, da giostra per un girotondo. "Vieni, Tina, Tinaaa ... " chiama Luciano e soggiunge, appena sbucano le trecce dietro l'angolo, "Testa di vento", piano, perché gli altri non lo sappiano. Sì, la testa di Tina è proprio piena del vento che spazza la corte, fa rizzare la piumagione del pulcini e intirizzire la conigliera, non quelli ancora nella bambagia, i conigli che sembrano carne rosa. e le fanno ribrezzo. Una testa che si ostina, dice ancora Luciana, a non ascoltare, a non vedere. Tina è tutta ripiena degli odori dei rosmarini e dei mirti, e insegue i corbezzoli colorati nel piatto dell'arrosto, che vede ruzzare più vivo che abbacchiato. Al porcetto in umido non ce la fa e lascia la sedia, il tempo è brillante e l'orizzonte è lucido, il vento allontana ogni ostacolo e il granaio è colmo, per scivolarci e risalire i mucchi tentennanti. Una luce sovrana, che olezza di giallo, anche se le ginestre sono destinate all'altra stagione. Una stagione che si tramandava, che Tina riponeva con il vestito a cavallucci: l'estate prossima. Il maestrale sembra già un autunno, ma il sole nella stia brucia ancora, la volpe annusa la sua preda e la spia, sagace e quasi domestica. Il cane uggiola un poco, e Tina pensa al giardino di città, al muro delle roselline di macchia, troppo alte per coglierle, ma l'odore giunge fino al selciato, calpestato dalle scarpe nere della signora Grazietta. Strisciano, vanno piano quelle scarpe, fanno il rumore delle suole nuove, che si tengono con cura. Tina cammina, oltre i rovi c'è lo stagno e poi il ruscello. E tutto è verde, fra due montagne azzurre.
Si ritorna con la Topolino alla miniera, più giù c'è l'ambulatorio del babbo. Paolino l'infermiere la fa scendere. "Ha già il mai di gola" dice Luciano' affermazione che significa puntura. Tina ha terrore delle punture, il babbo la insegue intorno al tavolo, Luciano osserva senza intervenire, la nonna è in cucina, nessuno l'aiuta. E' sola col babbo, che con la siringa in mano le ripete che è un attimo, non ti faccio male, uffa, non farmi perdere tempo. Tina scappa, sapendo di doversi arrendere, non si può contro il babbo.
Non si può, il babbo non vuole pianti, devi essere forte come un maschio; come per i rospi. La corte invasa da terribili esseri in agguato, pronti a saltare sopra, orribili, ingannatori come tutti i mostri: sembrano piccoli e tarchiati, ma prendono il volo, si allungano, assumono un'altra dimensione, un aspetto sinistro e quasi umano. Il babbo, per forti passare la paura, dice, ne ha preso uno con le pinze, e glielo fa ciondolare davanti, con la gamba lunghissima e l'altra rattratta, con due occhi enormi come un pozzo. "Guardalo", le dice, "guardalo bene, vedi com'è fatto". Ma Tina fugge, va all'emporio di Pierina, e lì rimette e batte i denti. Luciano non sa spiegarsi perché Tina abbia "le manìe", ami i maiali e il loro odore, trascorra il suo tempo con Raffaele, che non parla mai e forse è ritardato. Tina non parla a sua volta e legge, piange alla storia della principessa dal cuore di ghiaccio, di Peter Pan, che non rilegge più. Con Antonia non la fanno stare, è una mongoloide di tredici anni, che il figlio del vicino, dicono, ha legato a un albero "Per divertirsi" dice Luciano, e non spiega cosa sia quel divertimento. Ma è bello anche questo, vedere la pernice che lascia un'orma gialla, e se ne va, di soppiatto, come la stagione bella.
"E' un pollo, ti dico, mangia" urla alla fine Luciano, ma Tina sa che è una tortora, una tortorella bella, dal manto fine e lucente, di nobile grigio. Non è Genziana, ma una come lei, una che la viene a trovare nella colombaia vecchia. "Hai ucciso i miei colombi, hai già ucciso tutti i colombi" pensa, e non mangia per tutta la giornata.
La miniera era un buco grande, un mistero della terra, sui monticcioli di polvere verde, Tina giocava con Nerio. Giocò per poco, perché Nerio era solo, e voleva che Tina facesse la parte dell'amico, nei suoi giochi alla guerra. Voleva picchiare, e ci provò una volta. Fu come un atto violento e sconosciuto, che la sconvolse, e, scappando, fu sulle rotaie che un carrello l'investì, nel suo rimbombo di ferraglie.
Si sentiva come un minatore infortunato "Vado su, c'è un infortunio" diceva il babbo, c'era allora un'atmosfera di rispetto e di attesa. Qualcuno, molti, si salvavano, c'erano intere nottate del babbo, c'erano grandi silenzi stremati e caffè e rughe - era felice del letto e dei libri, delle minestre d'orzo e di crusca. Più, dei libri. Comincia da lì la sua avventura, le sue sofferte identificazioni, gli inganni e una vita meravigliosa che non seppe più coincidere con la vita vera, quella degli altri che attraversavano con lei gli anni euforici del dopoguerra.

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