§ Alle radici

Una civilissima barbarie




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



"La terra posta a settentrione, quanto più si trova lontana dal calore del sole ed è gelida per il freddo delle nevi, tanto più ha effetti salutari per il corpo umano e favorisce la prolificità del popoli": così dice Paolo Diacono nelle prime righe della sua Historia Longobardorum.
La vasta regione che si estende dal Don verso occidente - prosegue - "viene giustamente chiamata Germania", nome che affonda la propria etimologia nella parola latina "germen" o "germinare", che significa produrre; infatti, le popolazioni che vivono in quei luoghi sono così esuberanti da infrangerne sovente i confini; inondando zone limitrofe e lontane, dall'Asia all'Europa, lasciando dietro di sé tracce di desolazione.
L'origine del popolo dei Vinili o Longobardi si perde nel tempo, ma è possibile collocarla in Scandinavia, da dove passarono in Pannonia. Penetrarono in Italia, spinti forse dal terrore degli Avari, nel 568; si insediarono lungo la penisola a macchie di densità diversa: dapprima nella Venezia Giulia, ove fondarono Forum Iulii; in Alto Adige e nel Trentino, a Bretonicum e Rovereto; in Lombardia, dove per tre anni posero duro assedio al castrum di Ticinum finché cadde; a Milano; ai confini col Veneto, a Brescia e a Verona; s'inoltrarono poi nel Centro, invadendo parte della Tuscia e dell'Umbria; infine a Sud, sino a Benevento.
Tra le quinte cronologiche del 568 e del 774, anno della loro disfatta, si dilata la loro storia che, potendo confidare sul fondamento delle testimonianze scritte da Paolo Diacono, longobardo e benedettino di Forum Iulii (Cividale dei Friuli), non svanisce nella leggenda. Paolo Diacono esclude dalla narrazione le vicende del regno di Ratchis, che abbandonò il trono per il convento, e giunge fino al "rinascimento" del cattolicissimo Liutprando, mescolando racconto veridico e immagini fiabesche, prosa limpidissima e dolcissima poesia. La sequenza degli avvenimenti è sorretta da una trama fitta, a tratti percorsa da rapide escursioni sul costume e il volto dei barbari.
Di Droctulfo "il volto era tremendo all'aspetto, ma l'animo buono. La sua barba fu lunga sul suo petto robusto". Droctulfo era un longobardo passato ai nemico: aveva difeso Ravenna dall'assedio mossole dalla gente della sua stirpe. Così afferma l'Historia, base documentaria inespugnabile; non altrettanto definita l'arte longobarda, come accade di consueto per le espressioni dei popoli di ceppo barbarico che posseggono caratteri incerti, e il delinearli è reso difficile dai processi di acculturazione, di contaminazione, di integrazione con i luoghi di insediamento.
Tra i reperti dei corredi funebri, situabili cronologicamente nei periodo delle migrazioni (metà del VI secolo) e quelli risalenti alla prima stabilizzazione, non si avvertono sbalzi stilistici sostanziali. Nel complesso, l'intera produzione di monili, di suppellettili e di armi, la sola forse insieme a qualche opera plastica e architettonica a consentire di venire denominata longobarda, accusa una certa fissità tipologica: astrazione geometrizzante a ritmo continuo, accostata al colore smagliante delle pietre, degli smalti cloissonné e delle paste vitree; decorazioni insistite su un repertorio di immagini zoomorfe che affiorano puntando lo sguardo tra spirali e curve. Fibule a forma di uccelli stilizzati si ritrovano quasi identiche nel Nord Europa, soprattutto nei Paesi scandinavi. I materiali vili, sotto l'azione degli artigiani longobardi, vengono nobilitati dall'inserto di altri più preziosi; il ferro si accompagna alle ageminature d'argento; l'argento è esaltato da una sottile veste d'oro.
I Longobardi, infatti, a tutto prediligono il metallo, in quanto con esso sono costruite le armi. Da barbari amano l'oro, ma esso appare nei monili piuttosto tardi, mentre nelle prime monete, di imitazione bizantina, è preminente. Destinato agli oggetti più preziosi, come le crocette, viene lavorato a sbalzo. La croce, nella sua forma essenziale, rappresenta il vessillo, la reliquia, l'emblema, ma ricorda anche l'impugnatura della "spatha". Le crocette ornano, all'altezza della fronte, i veli mortuari nei quali i guerrieri vengono. avvolti prima dell'inumazione, ma non è semplice stabilirne l'epoca. Le più antiche sono affatto lisce; poi sbalzate oppure bracteate e nel punto in cui si incrociano i bracci appare un agile cervo. Le crocette affidano la loro forza alla leggerezza della lamina; splendono più nelle monete che derivano da tipi del Basso Impero e si fissano, nel VII secolo nella zecca di Ticinum, sulla raffigurazione del San Michele stante, mentre le emissioni dei Duchi di Benevento, ultima roccaforte longobarda a cadere, si ricollegano alla tradizione bizantina del basileo visto di fronte. Il duca è atteggiato a una solenne e muta inespressività.
Qualcosa di analogo nei volti del piccolo corteo che accompagna festoso Agilulfo, sul frontale dell'elmo di Valdinievole, che tradisce, secondo noi, una dipendenza precisa dal solido dell'imperatore Focas, termine post quem, che consente di datarlo al VII secolo inoltrato.
L'oreficeria longobarda si dibatte quindi tra caratteri nordici e bizantini e, pur essendo in contatto con la cultura latina, sembrerebbe immune da influenze dirette. I Longobardi, infatti, devono la loro autonomia culturale al fatto che le loro radici nordiche sono così nodose da non cedere mai la presa.
L'allargamento dello spazio storico longobardo ha avuto luogo in quattro diverse direzioni. Si sapeva da sempre che i longobardi non venivano dal nulla. Paolo Diacono, abbiamo detto, ne è stato cronista coinvolto; ma, prima di lui, la Origo gentis Langobardorum fa largamente posto alla loro vicenda pre-italiana. Ma solo le ricerche archeologiche portate a termine negli ultimi decenni hanno fatto uscire la protostovia dei Longobardi dal dominio della mitografia etnogenetica. Certo, siamo ben lontani dal poter dire con qualche fondata speranza di approssimazione alla realtà in quali date precise e lungo quali itinerari i Longobardi si siano mossi dalle loro sedi originarie per giungere all'odierna Ungheria, da cui partirono la Pasqua del 568 alla conquista dell'Italia. Ma le incertezze che ancora permangono a tale riguardo non hanno impedito a questa fase plurisecolare di acquistare una consistenza, una corposità, che fino a ieri sarebbero state impensabili.
Siamo soliti dire che l'Italia è entrata nell'Alto Medio Evo solo nei 569, con la conquista longobarda di gran parte del suo territorio. Ma si avrebbe torto a pensare che l'Italia tornata romana, o imperiale, una quindicina d'anni prima, all'indomani della rovinosa guerra goto-bizantina, fosse la stessa della fine del IV secolo, quella gravitante su Milano capitale. All'appuntamento del 569 era giunta al termine di un lungo processo di destrutturazione della sua vita economica e sociale, che l'aveva modificata nel profondo.
E' alla luce di questa intuizione di base che oggi si affronta il problema dei rapporti fra Longobardi e Romani: chiedendosi cioè che cos'erano diventati i secondi quando i primi si abbatterono su di essi. Se a metà circa del VII secolo l'Editto longobardo di Rotari poté valere indifferentemente per tutti i liberi del regno, è perché nel frattempo i Romani si erano ridotti al punto di diventare inquadrabili entro le istituzioni giuridiche longobarde, per quanto primitive esse fossero.
Terza direzione di "allargamento" dello spazio storico longobardo è il regno di Pavia. Con il suo sacrum palatium che non aveva riscontri nell'Europa del tempo, non ebbe fine con l'uscita di scena dell'ultimo re longobardo, ma continuò a vivere anche sotto i suoi successori carolingi, "italici indipendenti" e sassoni, prima di ridursi a poco più di una finzione giuridica all'inizio del secolo XI. Perciò, lo studio dei regnum longobardo, dei suoi meccanismi di funzionamento anche periferici, va intrapreso nella prospettiva di questa sua ulteriore durata, e non - come usava una volta - drammatizzando la censura del 774.
Infine, l'Italia meridionale longobarda. Se gli invasori germanici hanno trasmesso il loro nome prima alla Padania intera, poi al cuore di essa, è a sud di Roma che hanno dominato più a lungo, nel ducato, poi principato, di Benevento. Dalla bassa Elba, da dove presumibilmente aveva avuto inizio la loro avventura europea, al cuore del Mediterraneo, dove essa avrà fine, sotto i colpi di altri uomini del Nord, i Normanni, i Longobardi hanno avuto una storia molto più lunga, avvincente e intricata di quella intorno alla quale discutevano e scrivevano i nostri vecchi. Al di là della pompa ostentata dai duchi beneventani, dai principi che succedettero, dai principi di Capua e da quelli di Salerno, i Longobardi continuarono ad esistere anche in altre aree e con altre manifestazioni storiche. Sono forse un loro lascito gli scontrosi e cupi bufali delle campagne intorno al Garigliano e le carte d'archivio registrano nomi longobardi la dove si coltiva la canapa e greci là dove cresce il gelso. La canapa per il consumo interno e la seta per la grandi manifatture delle città bizantine della costa. L'avversione verso i Greci, che sullo scorcio del IX secolo avevano incominciato a colonizzare l'Italia del Sud e a reclutarvi soldati e a riscuotere tasse, fu l'ultimo tratto del patriottismo longobardo. Appunto un ribelle longobardo, Melo di Bari, fu così affascinato dalla vista di alcuni guerrieri normanni incontrati come pellegrini al santuario di San Michele sul Gargano, che li invitò a far guerra ai Bizantini. Cosa che fecero; e fu così che ebbe inizio la conquista normanna del Mezzogiorno. Questi barbari imprevedibili invitano lo storico alle interpretazioni più diverse. Forse non si è mai prestata un'attenzione particolare e rilevante al ruolo che nella società longobarda ebbero le donne, che furono le prime a convertirsi e, come si deduce dalle tombe. le prime ad adottare abbigliamenti mediterranei. Si da un peso forse eccessivo al polo che poté costituire la fede cattolica di Liutprando, mentre molti monumenti ritenuti d'età longobarda. dagli affreschi di Castelseprio agli affreschi e stucchi di Cividale del Friuli e di Brescia, sono con molta probabilità carolingi. Persino la fioritura dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno èspiegata dagli archeologi che vi hanno scavato come il frutto delle particolari tensioni create dall'insediamento carolingio nella penisola.
Il corredo d'immagini e di tecniche che i Longobardi portavano con sé era estraneo alle culture mediterranee; un mondo a parte, mostruoso e insondabile, che si rivela, fino al primo secolo d'insediamento in Italia, nell'evoluzione precisa di stili astratti e animalistici ben documentati nei corredi delle tombe. Così, se in una tomba longobarda, per esempio a Stabio, troviamo uno scudo con figure aggraziate e proporzionate, possiamo essere certi che il loro disegno viene da un non longobardo.
Cosicché, una zona assai estesa dell'arte che è detta longobarda è il prodotto dell'attività di chi viveva in territori dominati dai Longobardi. L'imperizia che a volte alcuni oggetti rivelano, come ad esempio il cosiddetto elmo di Agilulfo, che fra l'altro poté essere altra cosa da un elmo, probabilmente non è dovuta al tentativo di un artefice longobardo di impadronirsi del linguaggio aulico dell'impero, ma ad uno stato di effettiva decadenza delle officine italiane cui Agilulfo si era rivolto. Purtroppo, però, le categorie d'imperizia, di inadeguatezza tecnica ed espressiva che definiscono la crisi dovuta all'interrompersi dell'attività delle botteghe italiane con la relativa trasmissione dei saperi, entrano difficilmente negli schemi della storia dell'arte, tesa ad individuare in ogni testimonianza del passato la manifestazione di un indirizzo estetico consapevole e malvolentieri pronta a riconoscere un/autentica inadeguatezza di mezzi. Così, il discorso sui Longobardi si amplia a dismisura, in cerca di analogie irlandesi, siriache, copte; in un "esperanto" che permette di sfuggire a quello specchio tremendo del nostro tempo che può essere l'Alto Medioevo.

Con altri occhi

Oggi, menti criticamente libere da qualunque forma di etnocentrismo ci insegnano finalmente che nessuna civiltà è "barbarica", come la nostra scuola (e persino l'Università) ci aveva abituato a credere; e che, nel caso dei Germani, e comunque dei popoli del Nord europeo, si è di fronte a forme di cultura straordinariamente elaborate, articolate e complesse. Ormai nessuno più, salvo forse qualche sprovveduto manuale, attribuisce alle "invasioni barbariche" la caduta dell'impero romano. Anzi, non più "invasioni barbariche" vengono chiamati i grandi spostamenti di nuclei etnici nomadi o seminomadi nell'Eurasia fra IV e VI secolo (in realtà, poi, iniziati molto prima e culminati molto dopo tali periodi), bensì Völkerwanderungen, "migrazioni di popoli". E ammettiamo che molto abbiamo imparato da questi "barbari".
La comune sensibilità di chi ha però incontrato i Longobardi sui banchi di scuola non è comunque ispirata a questi moderni sensi di gratitudine e di rispetto. Su quelle lontane genti pesano le fosche memorie di re Alboino, leggendario collezionista di teschi di congiunti ridotti a suppellettili da tavola ("Bevi, Rosmunda"): e soprattutto grava la mistificazione risorgimentale, il distorto messaggio neoguelfo e manzoniano - anche se, intendiamoci, il Manzoni si era informato accuratamente sulla realtà storica e aveva scritto sui Longobardi, oltre all'"Adelchi", un solido saggio. E tuttavia nella memoria italiana postunitaria i Longobardi sono rimasti "la rea progenie degli invasor", su cui gravava anche la colpa di aver dato moltissime noie al papato.
Non che in una visione del genere non vi fosse una parte di verità. Lo stesso Paolo Diacono non tace nulla della durezza della conquista d'Italia, dove multi nobiles romani interfecti sunt e dove l'archeologia ci parla di rovine e d'incendi. E Gregorio Magno, che nello scorcio fra VI e VII secolo ci parla pur con simpatie di parecchi popoli germanici -primi fra tutti gli Angli: non Angli, sed Angeli -, non nasconde il suo astio nei confronti della nefandissima gens Langobardorum, ostinata nell'eresia ariana e in molti casi neppure dimentica dei suoi antichi culti politeisti.

Il popolo dalle lunghe barbe

Fino a qualche decennio fa, si sosteneva che con l'ingresso in Italia dei Longobardi avesse avuto inizio il Medioevo, come culmine della massima barbarie. Gli invasori erano i terribili "uomini dalle lunghe barbe" che in tempi lontani avevano mosso dalla Scandinavia, "un'isola", secondo Paolo Diacono, "che anziché situata in mezzo al mare si direbbe, dato il carattere pianeggiante della costa, quasi immerso nei flutti dell'oceano che tutto la circonda".
La ricerca storico-archeologica ha corretto questo concetto. Dalle foci dell'Elba, dove sorge Amburgo, all'Ungheria, all'Italia: il percorso è quasi chiaro. Ma ci fu la famosa invasione della penisola. Dice il massimo specialista, Amerio Tagliaferri: "Sì, ma ormai ci siamo resi conto che i Longobardi sapevano già dove andare. Avevano già avuto contatti, quando erano in Pannonia, con i cristiani e con l'impero d'Oriente, che li aveva chiamati in Italia a combattere i Goti. Perciò, quando sono entrati in Italia non si sono diretti verso Aquileia, grande città orientale che però era già stato saccheggiato dagli Unni. Sono venuti a Cividale, che era l'unica città fortificato della regione".
Dal centro della città si vede il Monte Maggiore, dall'alto del quale Alboino, secondo Paolo Diacono, guardò per la prima volta l'Italia. Alboino si impadronì della "città o piuttosto borgo militare di Cividale" e lo cedette al nipote Gisulfo. Questi ottenne altre tre cose: il titolo di duca, la presenza al suo fianco delle migliori famiglie longobarde e una mandria di cavalli di razza. Da allora, Cividale rimase uno dei primi fra i trentacinque ducati longobardi, insieme con quelli di Spoleto e di Benevento. Fu anche uno degli ultimi a resistere alle armate di Carlo Magno.
"Certo - sostiene Tagliaferri - non si può negare che i Longobardi fossero solo guerrieri, non erano portatori di civiltà, non avevano nemmeno una lingua scritto, fino a quando non impararono il latino. Per il ducato di Cividale si ha un solo documento, una donazione del 762. E infatti di loro si sa quanto hanno scritto gli storici Franchi e quelli bizantini, e Procopio di Cesarea. Come per i reperti archeologici: In fondo, dei rimasugli".
Bisogna aspettare il 6,43 per avere l'Editto di Rotari, con il quale per la prima volta i Longobardi misero per iscritto (in latino) le leggi che per consuetudine lì governavano.
Che tipo di società vien fuori da queste norme? Una società rigidamente diviso in liberi, semiliberi e schiavi, governati da un re, le cui decisioni dovevano però essere approvate dall'assemblea dei liberi guerrieri. A fianco di ciascuno dei 35 duchi c'era un gastaldo, rappresentante del re.
Non era una società particolarmente feroce, tanto che la pena di morte era riservata solo al' delitti politici. Prevedeva il giudizio di Dio, che poteva essere chiesto con un duello o con la prova del vomere arroventato (se si voleva essere considerati innocenti). Le donne non erano particolarmente rispettate: "Chi abbia percosso una vacca gravida", diceva il codice, "deve pagare un soldo al proprietario. Se ha colpito una schiava gravida, tre soldi". La conversione dei Longobardi al cattolicesimo avvenne sotto Teodolinda, moglie di Autari, poi nel 590 di Agilulfo, e infine reggente. Per due secoli la vita dei re longobardi fu dominato dalla rivalità con i Bizantini di Ravenna e dai difficili rapporti con i papi. Ad Ovest c'erano i Franchi, ad Est gli Avari provenienti dall'Asia. Il culmine della potenza lo raggiunsero con Liutprando, che conquistò Ravenna e giunse davanti a Roma. Poteva impadronirsi dell'Italia, ma esitò e tornò indietro. Era il 7.43. Meno di dieci anni dopo, i Franchi cominciarono a calare nella penisola, chiamati dal papa, fino a che Carlo Magno, che pure aveva sposato una principessa longobarda, sconfisse definitivamente Adelchi e re Desiderio.
Ma che cosa hanno lasciato in eredità i Longobardi? Risponde Tagliaferri: "I Longobardi non sono come i Goti, che vennero cacciati dall'Italia. Loro sono rimasti, sono gli italiani. E ci hanno lasciato molte parole della nostra lingua, come bara, baruffa, faida, federa, panca, schiaffo, stamberga,
stucco... E anche nomi di luoghi: Salo, che è il nome del luogo dove sto, fisicamente, l'autorità (Sala Consilina); Farra, che vuoi dire clan (Farra d'Isonzo); e anche Guardia, da "vaida", il nome dei presidii che i Longobardi tenevano in montagna (Monte della Guardia". Dal punto di vista storico, un'eredità vitale. Si deve tener presente che l'Italia che trovarono era un paese semiabbandonato, rovinato dalla fame, dalle malattie, dall'anarchia, da Teodorico e dai Goti. I Longobardi diedero un ordine a tutto questo, crearono un'organizzazione. Quando giunse Carlo Magno, il nostro era un paese governato, relativamente prospero, con una popolazione in aumento. E i Longobardi salvarono, in un certo senso, le istituzioni.


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