§ Che Italia fa

Lettere dal razzismo




Ada Provenzano, Giorgia Cordier



Lettere dall'Italia peggiore: avida, sciacallesca. virulenta nell'aggressione anonima, quanto vile nel mostrarsi. Sono centinaia le missive cariche di insulti che il postino ha recapitato a San Luca, in Aspromonte. Gli sconosciuti mittenti, nascosti dietro una cortina di righe fittissime di turpitudini, sparano le loro invettive con una schietta volontà di umiliare fino alla morte i cittadini di questo paese indicato come la capitale dei sequestri. Mentalità da briganti, che fa di ogni erba un fascio, che suscita odio, che sprizza razzismo da ogni poro della pelle. Un'antologia della dissennata violenza, qual è riportata nella prefazione in Lettere a San Luca, di Corrado Stajano, volume curato da Diego Minuti e Filippo Veltri, per la memoria di chiunque voglia capire che cos'è l'inciviltà rozza, e che cos'è il pregiudizio infamante dell'Italia sgrammaticata e razzista.
"Vorrei che la vostra maledetta terra scomparisse dal mondo". "Ai sub-umani degenerati abitanti di San Luca, simbolo di barbarie e di vergogna". "La vostra razza dovrebbe essere estinta senza misericordia". "Siete la vergogna d'Italia, siete la peste bubbonica del nostro paese". "I cannibali erano meglio di voi sicuramente". "Hitler ha sbagliato: invece di prendersela con gli ebrei, doveva far fuori tutti i terroni, rovina d'Italia". "Siete degni della sedia elettrica"; "Morte chiama morte [ ... ]. L'avete voluto, ignobili criminali, esseri animaleschi, assassini di guerra, animali violentatori di esseri umani".
"Brutti, sporchi, puzzolenti, non solo nel corpo, ma anche nell'anima". "Si può almeno sperare che un provvidenziale terremoto copra pietosamente i vostri corpi obesi e maleodoranti, i baffi arcigni delle vostre donne, gli sguardi ferini e iniettati di odio ottuso dei vostri occhi".
Dice Stajano: uomini e donne [ ... ] auspicano bombe atomiche, lanciafiamme, il fuoco purificatore, il coprifuoco permanente: "A tappeto. Tutti i vermi che saranno catturati saranno legati ai pali disposti nelle piazze e saranno sputati da tutti i cittadini". Un genovese vorrebbe indossare di nuovo la divisa delle SS che portò da giovane, organizzare una spedizione in Calabria e non lasciar vivo nessuno; un ex partigiano vorrebbe imbracciare il mitra anche lui "per estirpare la gramigna del popolo calabrese"; gruppi di volontari avvertono di esser pronti per lo sterminio di massa; da Rosà, Ludwig annuncia che sta per cadere su San Luca "il fuoco vendicatore di Dio come per Sodoma e Gomorra": il "giustiziere" usa una specie di scrittura runica e appiccica alla busta anche un vecchio francobollo con la testa di Hitler. Per l'Italia c'è una sola speranza: "Che l'Etna e il Vesuvio esplodano simultaneamente senza preavviso". Tanto è certo: tutto ciò che di non buono accade nel Nord "porta la firma di qualche brutto, sporco, nero terrone (o comunque oriundo)", perché nessuno riesce a mondarsi dall'infamante marchio iniziale della nascita. Terroni, ma non solo, dunque. Anche "maledetti", "bestie", "parassiti", "bastardi", "mantenuti col lavoro che si fa da Firenze in su", "luride troie".
Una cartolina postale è stata spedita da RomaPrati "ai ragazzi di San Luca": "Ora - c'è scritto in bella grafia e con mano ferma - siete ragazzi. Tra poco sarete delinquenti e rapitori. Che bel futuro!". Da Milano, a tutte le mamme di San Luca: "Avete partorito tutti figli mostri. Siete solo bestie. Non siete neanche italiane. Non siete donne, non siete niente, neanche merda". Da Bologna, con una cartolina che raffigura la chiesa di San Luca, una donna si dice certa "che San Luca si vergogna di aver dato il nome del paese. Perché non vi chiamate Rapitoria?". Da Torino si è sicuri che "il 101% di laggiù è di mafiosi e rapitori". Da Verona sono ancora più certi: ci "vorrebbe il lanciafiamme" per "estirpare tutto". Per farlo, qualcuno da Cavenago Brianza annuncia la fondazione dell'Aivas (Associazione italiana volontari anti-sequestratori): gente svelta e con idee chiare, che propone di intervenire "con venti tonnellate di carburante" per "incendiare totalmente l'Aspromonte in modo che non resti traccia di esso per secoli". Da Torino, "un italiano" che indirizza: "San Luca di Calabria (terra di Giuda e Caino)" è lapidario: "Cari porci, sono a favore della caccia. ma a quella del calabrese specie San Luca". Dalle Marche in tre cartelle si spiega perché la Calabria, che "meglio sarebbe chiamare terronia", è"vergogna dell'Italia e dell'Europa e andrebbe distrutta". Si inveisce: "Voi siete dei bastardi, tra di voi gente onesta non ce n'è mai stata". Tutto colpa di Garibaldi, il quale "ha portato in Italia i terroni".
Le lettere sono, dicevamo, anonime; o hanno firme false; oppure sono siglate "Lega Lombarda", "Patrioti veneti", "Nordisti". Sono giunte anche lettere di solidarietà, scritte da gente inorridita per il linciaggio subito da un intero paese. Un bolognese afferma che le lettere spedite a San Luca "sono un piccolo infame monumento della perenne stupidità e volgarità, dei pregiudizi e dei luoghi comuni di cui si nutre il razzismo nazionale". Scrive anche: "Non lasciatevi intimidire dall'Italia sgrammaticata e ignorante. Proclamate altissima e irriducibile la vostra dignità di cittadini italiani, di esseri umani e di figli di Dio. Non permettete che si uccida la vostra speranza di uomini onesti".
Ma i conti non quadrano lo stesso. Perché, da quando si è compiuta l'unità d'Italia, questi sono gli anni di più acuta separatezza. Questa miserabile storia di lettere anonime è uno dei risultati ultimi di un'occasione storica scartata: quando, nell'Italia liberata dalla dittatura, dal fascismo continuatore del centralismo unitarista sabaudo, si poteva sperare fosse infine restituita ai popoli italiani tutta la dignità del loro stare insieme, pur essendo diversi, affratellati proprio in ragione dei patrimoni locali di specificità, che avrebbero dovuto e potuto farli ricchi sfruttando al meglio le vocazioni e l'ingegno di ogni singola comunità, si preferì continuare sotto altre forme la vecchia pratica della gestione centralista. In tutto il Sud si tollerò che poco per volta il potenziale d'iniziativa, individuale e comunitaria, si incanalasse sui traffici illeciti, sul contrabbando, sul taglieggiamento, e infine sui sequestri di persona e sul traffico di droga.
Piuttosto che incoraggiare l'evoluzione delle forme più idonee di imprenditorialità, di cooperazione, di sollecitazione collettiva alla solidarietà, si operò secondo una logica "razionale" fondata su modelli di sviluppo indifferenti alle particolarità regionali. Il risultato è questo rovesciamento nella società civile, dove dettano legge micro-e-macro-criminali, interessati a mantenere le condizioni per cui il valore della comunità è degenerato in spirito di cosca, la fedeltà alla propria cultura è scaduta nell'omertà, mentre l'angoscia dello sradicamento è canalizzata a trovare come unico sbocco l'aggressività, diretta contro lo Stato, contro gli industriali del Nord, mentre i razzisti settentrionali fungono da elementi catalizzatori di tutti i mali secolari che continuano ad infierire sul Sud.
Inutilmente, ancora nel 1948, Luigi Sturzo aveva avvertito: "La soluzione unitaria non poteva cancellare né cancellò mai la regione italiana, come non cambiò l'indole e le caratteristiche delle singole popolazioni, plasmate da secoli di civiltà con varietà notevoli di fattori geografici e ambientali indistruttibili". Il tentato appiattimento, la perseguita omologazione, l'indifferenza riservata alla specificità delle culture regionali italiane, è una colpa che si è pagata e si paga in termini di costi umani elevatissimi. Un secolo prima del siciliano Sturzo, un altro grande italiano, il dalmata Nicolò Tommaseo, si era mostrato altrettanto conscio della complessità di un processo di unificazione, che avrebbe potuto risolversi positivamente per tutte le culture italiane solo entro un disegno di relazioni armoniche, nel riconoscere il giusto peso alle tradizioni regionali, nel costruire un sistema di autonomie "educatrici di sé", per una società ricca delle sue varietà, antidoto contro le tentazioni macro-e-micro-nazionaliste, liberata dai localismi di coloro che altro "non vogliono se non quella porzioncella ov'egli abitano, e in quella stessa si sequestrano, e fanno chiostro e carcere a sé di se stessi". I localismi e le meschinerie di chi viene diseducato alla responsabilità individuale e collettiva, che attende tutto dagli altri e lo sente come un diritto, una sorta di risarcimento alle ingiustizie presenti e passate: ingiustizie vissute sulla propria pelle, senz'altro; ma non per questo da considerarsi perpetue nella memoria. Il Sud non ha bisogno di compassione e tanto meno di istigazione allo scontro. Merita semmai di essere aiutato a riflettere sulle sue vocazioni storiche e culturali, per indirizzare il suo orgoglio di appartenenza sulle vie di uno sviluppo congeniale. La Calabria è, come le altre del Mezzogiorno e del Nord, una regione d'Europa, come la Westfalia o il Borinage o la Provenza, ma non è uguale a loro. L'Europa unita o si farò nella pienezza di riconoscimento delle particolarità di cui è costituita, di quelle trecentotrenta culture regionali che ne formano il mosaico unitario tra Atlantico ed Urali, o nascerà con gli stessi virus incorporati nel processo di unificazione italiana, da cui verrà una catena di malattie sociali, impossibili da guarire con la sola medicina repressiva. Il tracollo culturale è ben più grave e difficile da curare delle crisi economiche, che spesso ne sono la consequenza. Richiede analisi pazienti, poco compatibili con le frettolosità politiche o con le volgarità demagogiche, e soprattutto comporta convalescenze lunghe, sulle quali incombe sempre la ricaduta. Le lettere dei grafomani razzisti sono solo prodotti sterili di una sub-cultura arcaica, civilmente sottosviluppata, ma conseguirebbero un loro torbido risultato se venissero usate per alimentare altre strumentaIizzazioni, magari politiche.
Sull'ingresso del comune di San Luca èriportata una frase di Corrado Alvaro, che in questo paese ebbe i natali. Dice: "La disperazione più grande che possa impadronirsi di un uomo è la convinzione che vivere rettamente sia inutile". Non una sola lettera èpartita da San Luca, è stata spedita dalla gente onesta di San Luca verso i sindaci, i carabinieri, i parroci, gli uomini. le donne, i ragazzi dei paesi d'origine dei sequestratori nordisti di Patrizia Tacchella. Che lezione di comportamento!

Antimeridionalismo e mass media

Col muro nel cuore

"Giovanni Re, mio nonno materno, venne spedito dal re Vittorio Emanuele, padre della patria, in Calabria per la repressione del banditismo nel 1863. Di lui, degli altri soldati piemontesi e di chi li mandava si disse che non avevano capito il Mezzogiorno e usato la cura meno adatta ai suoi mali, la forza militare": in un intervento di qualche tempo fa su "Repubblica", Giorgio Bocca - analizzando quella che in due parole definisce l'anomalia meridionale - osserva che, nonostante i profondi rivolgimenti verificatisi in Italia da quando il nonno andò a reprimere il banditismo ad oggi, il distacco tra Nord e Sud, non solo non scompare ma aumenta, ed il "fiume di miliardi" da anni dati al Sud non solo non produce ricchezza, ma rinvigorisce la malavita.
Allora, a quale meridionalismo guardare con fiducia? "Al meridionalismo da burletta - dice Bocca - che si diverte a costituire associazioni e comitati che poi querelano le leghe lombarde o le famiglie piemontesi come diffamatrici del Mezzogiorno"? Ovviamente, no. E ci sia consentita a questo punto una piccola disgressione sulle leghe lombarde: ben sette anni fa, mostrando quindi attenzione e sensibilità particolari al problema, proprio Bocca aveva annotato sul suo taccuino di viaggio nell'Italia antimeridionale: "Il volantino è firmato da una Lega lombarda fin qui ignota ed è un decalogo allucinante di antimeridionalismo: non parlare con il meridionale, ti mente; non assumerlo, ti ruba dalla cassa; non riceverlo a casa, dà informazioni ai rapitori di tuo figlio,. non concedergli la residenza, nella sua valigia ci sono la Malia e la Camorra; non fidarti della sua onestà, dietro c'è sempre un parente delinquente".
Riprendendo il filo del discorso: il rilancio del Sud non potrebbe essere avviato dal meridionalismo colto? "Ma non vale molto di più il meridionalismo colto - sostiene sempre Bocca - ministeriale, partitico, che dopo avere per decenni coltivato l'alibi del Nord capitalista succhiatore del sangue meridionale ora contempla ammutolito il perdurante e incancrenito problema del Mezzogiorno senza avere neppure il coraggio di analizzarlo, di pesarlo, e di prevederne la metastasi". leggendo tutto questo, affiora un senso di grande disagio.
Perché Bocca finge di non sapere che il massimo beneficiario del "fiume di miliardi" è proprio il capitalismo del Nord (pensiamo alla motorizzazione selvaggia imposta al Paese, soprattutto alle aree metropolitane e al Sud) e che i proventi dei traffici illeciti trovano la loro sede elettiva presso le grandi società finanziarie del Nord Italia e d'Europa? Non ha mai sentito parlare della "Milano-connection", e delle "Brescia e Torino e Verona e Firenze connections"?
Le parole sono pietre, e forse andrebbero usate con maggior rigore. Anzi, le parole sono "macigni", diceva Umberto Eco: "Non ci siamo ancora resi conto del potere sociale della parola [ ... ], di quanto le parole siano già fatti. Non gli unici fatti (ci sono anche i terremoti, il petrolio, le bricolle dei finanzieri felloni), ma certo, tra i fatti, i più pesanti, e quelli che danno sapore e colore ai fatti allo stato brado [ ... ]. Si è partiti da una discussione quasi magica del potere che ha la parola (della preghiera) di mutare il corso del destino [ ... ] per arrivare a riconoscere, con Ida Magli, il valore giuridico e fattivo del discorso che la moderna filosofia del linguaggio chiama performativo".
Ecco allora il motivo del disagio: nel nostro Paese l'antimeridionalismo ha radici profonde, lontane, forse nutrite proprio da parole come quelle. Nell'odio montante contro il Sud, forse i mass media hanno giocato un ruolo da non sottovalutare. Forse ancora troppo spesso, parlando di Mezzogiorno, la comunicazione è stata marcata dal segno negativo; e sempre forse da interventi di opinion-makers è emerso troppo spesso un disprezzo che pian piano si èinsinuato dentro di noi, fino a diventare convinzione diffusa, mentalità comune, che a sua volta ha rappresentato il terreno fertile perché attecchisse l'aggressività, perché si approfondisse negli anni una vera e propria cultura della violenza.
Passiamo al "Corriere della Sera" e a Saverio Vertone. Il quale indica quelle che, a suo giudizio, rappresentano le cause di una vera e propria spaccatura tra il Nord e il Sud del Paese: "Il dissesto economico e sociale del Mezzogiorno borbonico; l'arretratezza politica e culturale della grande e media borghesia lombarda, l'unica potenziale classe dirigente [ ... ] che non ha assolto il suo compito perché, abituata a farsi fare lo Stato da altri, lo ha appaltato alla piccola borghesia meridionale; il perverso clientelismo dei partiti ed infine il massimalismo della sinistra settentrionale che [ ... ] negli anni Settanta si è incontrata con il lazzaronismo plebeo del Sud, saldando violenza terroristica e camorra e dunque rivoluzione e malavita sul lato della sensibilità popolare [ ... ]. La società meridionale (o quel che ne resta) deve prendere atto che l'uscita di tre regioni dalla legalità pubblica, i massacri endemici, la sensazione (non arbitraria) di un'inesorabile risalita della peste mafiosa, i sequestri continui, le ricorrenti spedizioni di orecchie, l'inaudita franchigia criminale dell'Aspromonte generano e genereranno contraccolpi sempre più gravi". L'economia moderna si sta spostando a Sud, ma - dice Vertone - "Campania, Calabria e Sicilia non godranno i frutti di questa migrazione [ ... ]. La ricchezza delle nazioni sta diventando nomade, come i cavalieri di Gengis Khan. Ma non andrò a insediarsi nelle discariche urbane e nei poligoni di tiro".
Il discorso di Bocca non è sovrapponibile a quello di Vertone. Nel primo prevale, come di consueto, una visione colonialista del problema meridionale: il Sud è ormai il cancro italiano inestirpato; occorre una sorta d'intervento missionario. Non più i "cattivi" piemontesi in divisa del 1863, ma i nuovi "angeli tecnocratici", espressione di un capitalismo sano e cioè - ovviamente - "nordico": questi angeli caleranno nella terra dei barbari per provvedere al loro sviluppo, per tentare di rendere produttiva una realtà stagnante, di inetti e di parassiti. Vertone, dal canto suo, lancia un monito drammatico: meridionali italiani, fate attenzione; se continuerete ad essere una gigantesca discarica e un poligono di tiro, resterete tagliati fuori dall'economia moderna, dall'Europa, dallo sviluppo.
Tuttavia, c'è un filo che lega i ragionamenti di uno e dell'altro: una visione "schizofrenica" dell'Italia, basata sulla convinzione che questo Paese sia realmente spaccato in una parte buona, sana, produttiva, e una cattiva, marcia, corrotta. Visione a sua volta basata sull'idea del Sud come di un blocco omogeneo, in cui ogni differenza è annullata: interno e coste, città e campagna, paesi e metropoli o "megalopoli"; e così, vittime e oppressori, uomini che lavorano e mafiosi, ricchi e poveri, assassini e onesti: tutti insieme, appassionatamente, tutti indiscriminatamente l'altra cultura. La cultura meridionale. Un'idea del Sud, e un disamore per il Sud, che vengono da lontano.
Nell'84, tentando ancora una volta di spiegare il crescente diffondersi in Italia dell'antimeridionalismo, Bocca scriveva: "Certo, il mio amico Forattini ha sbagliato nettamente misura con la vignetta della Sardegna a forma di orecchio mozzato, ma i sequestri feroci di persone nella Toscana e nel Lazio li hanno portati i pastori sardi, cioè una cultura barbaricina silvo-pastorale che in quarant'anni la classe dirigente dell'isola non è riuscita evidentemente a cambiare".
Poi, però, commentando l'assassinio a Verona (definito "stupido" e "feroce") del sottufficiale dell'aeronautica di origine meridionale, Bocca ritiene che non si tratti di un fatto di razzismo, "che si fonda su pregiudizi biologici di presunte diversità del sangue. del cervello, del sesso, che nei rapporti fra settentrionali e meridionali sono inesistenti [ ... ]. Diciamo piuttosto che è cresciuto in questi anni il sentimento regionale delle piccole patrie, sostitutive di una grande patria sempre più evanescente, sempre meno tenuta assieme dal nazionalismo e dal nemico esterno: e che queste piccole patrie si vanno costruendo un loro patrimonio, che consiste nel recupero della tradizione e della cultura locale e nella loro imposizione ai forestieri".
Forse che, forzando non più di tanto questo discorso, dovremmo ritenere che le tradizioni culturali venete esprimano anche il costume d'ammazzare a pugni e a calci il forestiero, in questo caso il meridionale? Che, quindi, si tratterebbe di una cultura barbaricina non meno di quella "silvo-pastorale" del banditi sardi?
Nell'86, Vertone aveva definito Napoli la capitale della cultura della furberia: "Un'antica parabola semitica certifica che il mondo ha un suo fondamento nell'acqua, l'acqua nella sabbia, la sabbia nell'ippopotamo chiamato ßahamut, Bahamut nella nebbia. La nube che sostiene il castello delle incongruenze napoletane - e cioè il software sopra l'ippopotamo chiamato camorra, la camorra sopra i disoccupati organizzati, 150 mila immigrati di colore sopra i disoccupati, il traffico impastato sopra la città e l'immondizia spalmata sopra il traffico, città e camorra - è forse una nube di lacrime [ ... ]. Si chiama cultura del cuore [ ... ], estratta con la stessa facilità con cui i pistoIeros tirano fuori il revolver [ ... ]; esser napoletani non bastava più: bisognava fare i napoletani [ ... ]. La politica come mediazione di mediazione [ ... ], il cuore [ ... ]: sono stati e sono un incentivo e un avallo a questo cieco istinto di conservazione che si nasconde sotto la corazza dei porci comodi.
Sebbene De Filippo non possa più ascoltarci forse bisogna cominciare a dire che è umano anche non eludere le proprie responsabilità, non intascare i trenta denari e almeno qualche volta non piangerci sopra".
Ma un Paese spaccato in due non può andare avanti in alcuna delle sue parti; approvare - e farsene bandiera - la cultura della separazione non servirà a nessuno, neanche al Nord. E scagliare parole come queste - e tante altre -nel fondo delle nostre coscienze crea soltanto lacerazioni e malanimo, che certo ci fanno regredire. Tutti insieme.

L'idea di Cattaneo

Stati Uniti d'Italia

Cattaneo aveva un'idea preciso di quella che poteva essere la struttura politica dello Stato italiano. E la suo idea era appunto quella federalista, che vedeva realizzata, a suo parere, del tutto felicemente sia in piccoli modelli (piccoli come ambito geografico, quale la Svizzera) sia nei grandi (come gli Stati Uniti d'America). Quanto all'Italia, il suo era un discorso decisamente anticipatore.
Il federalismo era per lui un modo di affermare che l'articolazione politica istituzionale concreta, quotidiana, della libertà deve essere molteplice, varia, plurima. L'ordinamento federalistico, garantendo la presenza di più poteri sullo stesso territorio - di più poteri diversi e autonomi, anche se ovviamente congiunti e coordinati tra loro - era una dimostrazione vivente, un'applicazione esemplare della sua noto frase, secondo la quale "la libertà è una pianto di molte radici". Il federalismo è uno degli aspetti per cui con la libertà, quando c'è, affonda sempre molte rodici istituzionali e sociali nel terreno storico in cui fiorisce.
Si è parlato, d'altra parte, di un "positivismo" di Cattaneo, che sarebbe il presupposto e il riflesso del metodo e del pensiero, ispirati a realismo e concretezza, che lo contraddistinguono nella storia culturale italiano. Ma anche qui occorre precisare: non "positivistico" è il metodo di Cattaneo, ma "positivo"; e questa è una precisazione che non va fatto solo sul piano lessicale. E', infatti, una differenza di sostanza, in quanto il positivismo è congiunto a dottrine logiche e perfino metafisiche lontane dallo spirito di Cattaneo. Invece, la positività (e non il positivismo) del suo metodo sta nel riferimento concreto al carattere storico della realtà e alla possibilità di ricostruire, con attente e appropriate indagini, la genesi sostanziale della realtà stessa.
Per intendere Cattaneo è necessario del resto intendere Vico e la grande idea dello stesso Vico, secondo cui l'essere delle cose è il loro nascimento, la loro genesi, la loro storici. Questa intuizione vichiana non è la sola nel pensiero di Cattaneo, poiché si accompagno alla ripresa, in lui, di intuizioni di altri grandi classici italiani ed europei; ma è, tuttavia, quella che forse in un certo modo determina di più la suo ispirazione. Su quell'intuizione vichiana, comunque, è poi fondato lo svolgimento del metodo cattaneano in generale, che è appunto un metodo di carattere storico. Beninteso, non storicistico: come non lo si può definire positivistico, così non lo si può definire storicistico in senso proprio. E' un metodo solo positivo e storico. Oggi c'è tutto da imparare da una concezione che vede nella realtà un processo, e un processo non univoco, monolitico, indifferenziato, bensì molto ramificato, articolato, dialettico, contraddittorio a volte; da una concezione che ritiene un processo tanto più ricco di senso e di grandezza storica quanto più di articolozioni istituzionali, sociali, umane, riesce a comprendere in sé. Perciò Cattaneo dice, circa il rapporto tra politica e società, che grande politica è quella che riesce a dare soddisfazione al maggior numero di interessi e di forze sociali presenti sul campo. Per [or questo, occorre operare mediazioni complesse, bisogna conoscere la grande arte della politica non nel suo aspetto di impostazione e di forza, bensì anche e soprattutto nel suo aspetto di costruzione del consenso, delle convergenze, delle condizioni morali e materiali, oggettive, del consenso e delle convergenze. E questa è davvero una grande lezione.
La concezione federale del potere politico in grandi e piccoli spazi dò poi, in particolare, a noi europei di oggi una sensazione immediata di attualità di Cattaneo. Si tratto infatti di una concezione che da un lato è espressa da fasi anteriori, lontane nel tempo, ma non nei problemi, di quelle stesse vicende politiche che oggi viviamo; e che si lega, d'altra parte, alla prospettiva che da tali vicende deriva.
Va inoltre detto che l'attualità di Cattaneo si estende in generale alle sue teorie economiche, sociologiche, storiografiche. Esse presentano tutte aspetti e punti, sui quali sarebbe troppo lungo intrattenersi in questa sede, ma che hanno già avuto influenza, e ne potrebbero avere molta di più, in un tipo di cultura come quella di oggi, che si vuole rifugiare, dalle proclamazioni di carattere generale, nella concretezza di indicazioni specifiche e nella -almeno presunto - sicurezza del particolare. E se si considera bene questa influenza, si ha forse anche modo di rendersi conto che la "sfortuna" di Cattaneo nella cultura italiana, di cui tanto si parlo, sussiste per un verso. Ma per altro verso non ha impedito una sua reale e costante - per quanto, magari, latente - azione sui settori più importanti e creativi di circa un secolo e mezzo di vita culturale italiana.

Cattaneo

A sproposito

Coloro che in vita avevano dedicato a Carlo Cattaneo odio tenace, una volta morto lo vollero riportare in Italia, dall'esilio di Castagnola, presso Lugano. E i milanesi che gli avevano voluto bene vennero lasciati fuori dai cancelli del cimitero.
Per tutta la vita Cattaneo aveva bistrattato professori "ignoranti", politici "bambini", diplomatici' "impossibili", generali "incapaci", operai "inesperti", agricoltori "patriarcali". Aveva avuto a che fare, ovunque, con "la retorica che ci rode le ossa". Grande sconfitto del Risorgimento, era del parere che la palestra migliore del cittadino fosse la scuola, non il campo di battaglia. Una scuola che mirasse soprattutto a realizzare "la connessione tra gli studi e la vita". Diceva: "Abbiamo visto le scuole pubbliche italiane influire più presto a prostrare il carattere nazionale che a formarlo, trattenendolo solo nelle soddisfazioni indecise e nelle inquietudini morbose di una scienza di parole e di date, di servili declamazioni o di ammirazioni codarde".
In un'Italia che contava due milioni di ragazzi su tre senza scuola (in Lombardia un alunno su undici abitanti; in Sicilia uno su 108), Cattaneo sosteneva: scuola per tutti. L'istruzione, diceva, "è la più valida tutela della libertà". Mentre gli altri dicevano "concordia", Cattaneo diceva "autonomia". Diceva "regioni", mentre gli altri dicevano "unità". Temeva che l'accentramento avrebbe portato ad anteporre la potenza nazionale alla libertà personale, a rendere naturale la disposizione alle guerre, a "militarizzare" la società.
Non era un uomo politico. "Non tiratemi in politica", raccomandava. "Non voglio mescolarmi di politica attiva. Non sono nato agitatore". Si sentiva destinato a "cose più alla mano e destinate a friggere". Solo una volta venne meno al suo proposito. "Mi vi tirò per i panni quel buttafuori di Cernuschi e mi mise in punto di fare l'eroe per 48 ore". Fu quando si schierò col popolo di Milano, dopo che aveva sperato nella trasformazione dell'impero austriaco in un grande Stato federale. Tornato Radetzky, andò a Parigi a chiedere aiuto alla seconda Repubblica e a raccontare la verità su certe calunnie divulgate dagli agenti piemontesi: che cioè i milanesi fossero tanto austriaci da tirar fucilate alla schiena dei soldati dei Savoia.
Cattaneo morì quando l'Italia compiva otto anni, questa nuova Italia che - diceva - "sulle cose vecchie ha dato una mano di bianco". Lui si era battuto perché gli italiani' diventassero "responsabili delle proprie sorti, sicché non possano più lagnarsi che di se stessi". Magnanima illusione. Il 5 febbraio '69 nessuno si' ricordò che quel giorno cadeva il centenario della sua morte. Adesso la sua ombra ritorna, trascinata arbitrariamente in nome del federalismo sul carroccio dei leghisti. Che gli tocchi ancora di fare l'eroe "per 48 ore", come "durante il diavolezzo dei cinque giorni"?


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