§ Il corsivo

L'Utopia Possibile




Gianni Del Mastro



C'è, oggi più di ieri, un deficit di rappresentanza nei confronti dell'universo giovanile e dei suoi bisogni; bisogni che spesso rimangono inespressi proprio per le difficoltà delle tradizionali organizzazioni politiche giovanili e dei partiti a dar loro corpo e voce.
Serve, in luogo del ricorso stantio al discorso sui "nuovi soggetti" (in cui tutto parrebbe coesistere), una politica rinnovata nei presupposti e negli sbocchi, una motivazione di fondo che sappia riconnettere all'idea del miglioramento o della trasformazione della società settori scarsamente influenzati dalle vecchie "idee-forza".
E' essenziale un'impostazione rovesciata rispetto a quella che sembra dare qualche attenzione ai giovani, richiamandone canonicamente l'importanza soprattutto in vista di appuntamenti elettorali, operando, però, in tal modo, un puro accostamento. Alla vecchia politica si aggiungono, sovrapponendosi, i "nuovi soggetti", resi concetto astratto, opportuno ad estendere l'immagine della propria linea, piuttosto che ad arricchirne i presupposti. Incredibilmente, quando sembra che sui "giovani" si sia rotto il velo e si sia usciti dal ghetto in cui si era rinchiusi, torna la tentazione "storica", annacquando progressivamente ciò che la domando di rapporti politici e sociali, emersa da settori avanzati del mondo giovanile, pone. E', in ultima istanza, l'incapacità di rappresentare la contraddittorietà dell'universo giovanile e di scomporne i tratti significativi che provoca sbandamenti, chiusure o strumentali aperturismi. C'è un divario di parole. Non servono dizionari preconfezionati per colmare quel divario. Serve un'autentica audacia di sperimentazione dentro un nuovo cimento collettivo. Le parole sono come lucciole, la cui intermittente lucentezza ora illumina ora oscura il nostro cammino: le parole sono cose, materia corpuscolare, gestualità, macchie di passato oppure macchie di futuro che colorano (o scolorano) il nostro presente. Le parole sono veicoli di senso. E sono anche frammenti di senso. E allora, ecco il punto: si può costruire una operazione sul bisogno di "parole nuove", usando le "parole vecchie"? Certo, si può. Ma è esattamente questo che bisogna evitare, non fare.
Nei movimenti che hanno attraversato il nostro Paese negli ultimi anni, da ultimo quello degli studenti universitari, sempre più di frequente si sono incrociati bisogni diffusi di appartenenza e di identità. Appartenenza e identità che, evidentemente, non possono definirsi solo in negativo, nella critica dei modelli tradizionali, nel "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" del cupo verso di Montale. No, la domanda frequente, anzi, era ed è: cosa siamo? Cosa vogliamo? Sono state abbozzate molte risposte e analisi che partono da forti elementi di critica e che vale la pena riprendere e raccontare.
Proviamo a partire dalla metafora dello specchio e dai verbi specchiare e specchiarsi. In "Biancaneve e i sette nani", la regina cattiva riceve dallo specchio la notizia, davvero insopportabile per la sua vanità, che la più bella del reame non è lei, bensì Biancaneve. Diciamo che in questo caso lo specchio è una sorta di medium, di agente della comunicazione, di ritrasmettitore di notizie, dentro le semplificate dinamiche del sistema-Fiaba. La regina cattiva, in generale, può reagire al disagio di una verità irriverente che rimbalza sul suo specchio, o rompendo lo specchio stesso, dunque provocando un vero e proprio black-out dell'informazione, oppure sopprimendo il soggetto del messaggio, cioè l'oggetto della notizia, cioè Biancaneve. Nella nostra civiltà delle immagini, laddove spesso il fatto c'è nella misura in cui se ne ha notizia, e laddove il medium pare sovrapporsi alla realtà fino a sostituirla, gli specchi sono, per così dire, "programmati" alla restituzione di immagini tranquillizzanti, artificiali, deformanti, sublimanti. Tra un ragazzo o una ragazza e il suo specchio c'è un filtro di distorsione ottica, una pellicola di falsa coscienza. Le regine cattive contemporanee in genere non hanno bisogno né di rompere specchi né di sopprimere fanciulle. Basta animare quella densa zona di confine che separa ciascuno di noi dal suo specchio, insediandovi miti, eroi, forme di coscienza, mode, ammiccamenti, valori o dis/valori, modelli di comportamento: ognuno potrò essere Mr. Tymberland o Miss Madonna, Charlie Brown o Superman, Topolino o Rambo. Noi siamo tutti un po' prigionieri del mondo dello specchio, come la piccola Alice di Lewis Carrol. Siamo tutti dentro un Paese delle meraviglie, irrimediabilmente di cartapesta. Altro che meraviglie: quel Paese è invece un fornitissimo Mercato delle coscienze e delle conoscenze, anzi un Supermercato dove noi compriamo/produciamo/ siamo omogeneizzati: barattoli di omologazione.
E' possibile frapporre una distanza d'ironia conoscitiva tra noi e i nostri eroi, tra noi e i modelli artefatti, tra noi e le immagini? Ma davvero il mondo è tutto in questa girandola di spot, di scoop, di rumorosa celerità tecnologica, di rumori e velocità e immagini che, nella Babele della loro sovrapposizione frenetica, polverizzano e annullano il ritmo degli uomini e delle donne, il respiro della storia, il tempo del conflitto, i tempi delle differenze e delle diversità? Ecco: l'impossibile innocenza dello specchio: e se lo guardi bene, quello specchio non è che un video, una macchinetta immaginifica oppure una membrana di memorie non neutre. E' la sfera di cristallo di una chiromanzia, grigia, ipertecnologica. Dove la moralità è un detersivo' dove l'amore è una tecnica finanziaria, dove gli uomini sono tubi digerenti (forse lo diceva già Feuerbach).
Nella descrizione c'è un elemento consapevole di forzatura, di connotazione negativa dell'universo mass-mediologico e dei suoi eroi: ma si sente il bisogno di questa forzatura così controcorrente, per liberare capacità critica, autonomia intellettuale, ironia. E si vuole anche dire che lo snobismo intellettualistico di chi considera un vezzo retrò e pedante la decodifica dei messaggi dei media, ecco questo snobismo è proprio la caricatura del senso critico e della capacità ludica: è solo subalternità culturale.
Si sente il bisogno di ricominciare collettivamente a leggere i codici culturali di quella capillare e dispotica pedagogia consumistica che confina le esistenze individuali nel circuito merce-mercato-mercante. Le esistenze di tutti noi. Noi. Soli, nelle dure compatibilità di quel circuito, cercando consolazioni nella epopea di plastica e vernice di un eroe. di un superuomo che per un attimo ci riscatti dal fardello della mediocrità quotidiana. Soli, anche quando l'eroe è Parcival, con i suoi feticci stranianti, con il suo lontano Dio, con il suo integralismo spinto fino al limite di una integrale e sprezzante e feudale solitudine: eroe di una mitologia che certo mostra le sue piccole Crepe. quando al moralismo astratto di Parcival si sostituisce la moralità particolare di motti nostri uomini politici. Soli, anche quando i miti riposano in nicchie preziose di citazioni colte, di "bustine di Minerva", di piccole ribellioni in salotto, e di estremismo da "anime belle". un estremismo lirico, lontano dalla prosa brutto della politica, della militanza, dell'incontro e dello scontro con altri.
Già, gli altri! Il fastidio e la noia degli altri!
Soli, anche quando i modelli sono gli yuppies, i novelli emergenti, i "saranno famosi" senza falsi pudori, gli acchiappa-successo, i tutto-firmati (dagli occhiali alle Mutande, alla coscienza: perché la mistica della modernità conosce anche questo genere di miserie!). Ma guardiamoli in faccia, questi yuppies: essi sono i figli di un benessere che non valica mai confini rigidamente di classe e di casta, un benessere che costa un immenso malessere sociale. Che costa precarietà di massa, disperazione, "modernissima" alienazione. E dunque, solitudine. Con gli yuppies torna a risorgere la vecchia idea che la ricchezza è un valore in sé, che l'avere è più importante dell'essere, che il successo e la carriera sono vocazioni da coltivare con meticoloso cinismo. Perdere è brutto e chi perde diventa brutto (la bellezza è prerogativa dei vincenti, talvolta anche contro le evidenze estetiche ... ). E lo sterminato esercito di tutti quelli che non possono neanche gareggiare, dei "bruttissimi" cui è negata in partenza qualunque chance di partecipazione al gioco dell'inserimento sociale, della ricerca di lavoro, della invenzione di un proprio dignitoso futuro? Che ne è di loro?
Le lamentazioni del disoccupato certo non valgono le emozioni scintillanti dell'ultimissima avventura dello yuppie, di questo dannunziano del look e del guardaroba.
Soli, e con il rischio costante che anche questa solitudine precipiti nel circuito mercificante, dove trovare una folla di merci a farci compagnia: barbiturici invece di amicizie, cocaina invece di passioni, telenovelas invece di amori.
Ecco, se lo specchio specchiasse, e tutta intera, anche questa solitudine, e specchiasse tutta intera la vita (questo dipanarsi di vicende, emozioni, incontri, fughe, vuoti) allora, quanta soddisfazione si troverebbe nell'identificarci con surrogati di umanità, con eroi finti e improbabili, con una esistenza artificiale?
Oltre lo schermo opaco delle ideologie, oltre la cortina fumogena delle mitologie, c'è, in quello specchio finalmente veritiero, l'immagine complessa, prosaica, meno eroica ma più nobile, meno tragica ma più triste, meno sublime ma più bella, della vera vita, delle vere cose del cammino quotidiano, dell'incontrarsi e perdersi senza tregua.
Vedere, scrutare, capire, rispecchiare, rispecchiarsi, udire il nuovo, cambiare, "conoscere per trasformare". non "aderire alle cose" (come dice il personaggio di un romanzo di Drieu De La Rochelle) ma stare dentro alle cose, sondarle nel profondo, penetrarle in ogni più piccola piega, governare il loro movimento.
Ha portato lontano, il nostro specchio. Sovente porta lontano, in un altrove - cioè lontano dalle altre creature, tutto immerso nel culto della propria immagine - trovò solo il nulla e la morte.
Certo fu tramutato in fiore. Però noi preferiamo essere qui, con tutti gli altri, a condividere gioie e fatiche.
Ma, tolta la maschera dell'eroe. diradata la nebbia dei luoghi comuni, qual è il volto di un giovane, di una ragazza? Le condizioni materiali di vita delle giovani generazioni sono come una fotografia sfocata e movimentata. I dati di questa materialità di esistenze sono sfocati e movimentati, sono cioè in continua oscillazione o in metamorfosi, dentro un margine sociale (e anche psicologico), al di qua o al di la di questo margine, spesso ambigui, svagati o apocalittici, integrati o disintegrati. Quei dati sono vecchie e nuove contraddizioni, vecchi e nuovi bisogni. Sono bisogni che nascono da contraddizioni, e contraddizioni che nascono da bisogni.
Lavoro, ambiente, pace, sessualità, solidarietà, socialità, cultura. Sono la geografia di un "bisogno umano ricco" e di uno stratificato estendersi. e sovrapporsi, di contraddizioni. Su questa frastagliata geografia si è levato, nel corso dell'ultimo decennio, il vento del reaganismo e della deregulation, che ha falcidiato risorse e speranze, disseminando il pianeta di nuovi steccati, di nuove minacce, di nuove ingiustizie.
Era il vento del Mercato, motore primo e fulcro della nostra galassia sociale. Il mercato, ovvero il pendolo dispotico di tutto il nostro tempo, il regolatore incontrollato degli ingranaggi dell'economia, della politica, della scienza, della cultura, dell'intera società. E' stata un'epoca di grande ferocia. L'onda neoliberista ha riclassificato spazi e vincoli sociali, trasferendo ricchezza dal lavoro al capitale, divaricando ulteriormente la forbice delle sperequazioni di classe, investendo massicciamente nella industria bellica. Al conseguente e dilagante malessere sociale si è risposto con una poderosa offensiva ideologica, di ricompattamento di un senso comune moderato, di riorganizzazione di gerarchie tradizionali dei valori e delle forme di coscienza, di grintoso neo-conservatorismo. Ai mille dialetti del fermento sociale si è risposto con la lingua del neo-decisionismo, della semplificazione della complessità, della "modernità" spesso senza democrazia.
Monetarismo più Dio-patria-famiglia: questa è parsa essere la cifra selvaggia del reaganismo.
Anche in quella forma particolarmente accattona che è stato il reaganismo all'italiana, dal decreto di S. Valentino all'intesa sull'ora di religione, dall'accanimento anti-operaio al confessionalismo più arrogante. Ed è stata un'epoca in cui è venuta esplicitandosi la dimensione transnazionale delle questioni cruciali del vivere collettivo, con la conseguente crisi dell'idea stessa di Stato-nazione: i processi rapidissimi di mondializzazione dell'economia, della scienza, dell'informazione, la contrazione in sedi sempre più ristrette degli apparati del "comando", dunque la corposa riclassificazione della morfologia dei poteri, e insieme la complicazione caotica dell'anatomia sociale; tutto ciò, in questi anni, ha completamente sfigurato i termini classici della lotta politica.
Cresceva il tasso di alienazione nella vita del più, ma aumentava anche il tasso di consapevolezza, individuale e collettiva, di questa alienazione, della sua storicità e della sua pervasività. Alienazione è davvero una parola chiave. E' la misura di una distanza, di una separazione, non solo tra l'uomo e il suo lavoro ma anche, come osserviamo oggi con spaventosa nitidezza, distanza e separazione tra me e me, tra me e te, tra me e le cose, tra me e le parole, tra me e l'ambiente e la pace e la vita, tra me e i corpi e i luoghi della mia esperienza. Come una spirale schizofrenica di progressiva sottrazione di risorse, di possibilità, di bisogni.
Proviamo a mettere assieme, in una azzardata addizione, eventi diversi: Chernobyl e uno stupro, Bophal e le reazioni isteriche all'AIDS, un cancro polmonare e i lampi di guerra nel Mediterraneo: la somma non potrà che essere una cifra globale di alienazione.
Questa alienazione incrocia, ridislocandone di continuo la collocazione, il genere, la classe, la specie. I codici del sapere e i codici del potere non sono mai neutri o neutrali: esprimono sempre una parzialità di sesso (il genere) o di selezione sociale (la classe) o di arroganza antropocentrica (la specie).
Ma è tutta una storia del sapere e del potere che oggi i nuovi bisogni stanno conoscendo criticamente, stanno interrogando violentemente, per conto di tutti quelli che, certo non per scelta, non hanno saputo, non hanno potuto, o hanno saputo e potuto assai poco perché erano donne o bambini, operai o disoccupati, handicappati o creature sole, piante o animali, erano cioè altra cosa dal Maschio proprietario (proprietario della donna. della prole, della manodopera, della flora e della fauna; nonché proprietario di quel cumulo antico di sapienza sociale che gli consente di stabilire proprietà e di autoeleggersi, per i secoli del secoli, Proprietario). Questi giovani chiedono il sapere, chiedono di potere. Ed è una interrogazione che infrange pregiudizi, svela menzogne. Ci pone finalmente a occhi aperti. Parafrasando il celebre finale delle "Memorie di Adriano" di M. Yourcenar, si potrebbe dire che "cercano di entrare nella vita ad occhi aperti".
Vogliono pensare e costruire un sapere e un potere il cui paradigma non sia più una forma di dominio, degli uomini sulle donne, della merce sugli uomini, del prodotto sui produttori, della tecno-sfera sulla bio-sfera, della specie umana su tutti gli altri viventi che abitano il nostro pianeta. Un sapere e un potere che sappiano e possano liberare dalle barriere e dai recinti di compatibilità coatte nella produzione e nella riproduzione: per un lavoro che sia luogo di umanizzazione ricca e cosciente dei rapporti sociali, per una sessualità che esprima e valorizzi tutti i colori del gioco dei corpi e sia dialettica delle differenze e curiosità e donazione e le infinite diversità di possibili incontri senza paura, senza etichette, senza violenze, senza che questo gioco divenga, come accade, un gioco al massacro; per un pianeta dove si possano respirare molecole di ossigeno e non radionuclidi, che sia luogo di una simbiosi continua tra specie viventi, che sia spazio di attraversamento amoroso (e non più di devastazione e rapina) di ogni possibile geografia: dal deserto alla giungla, alla cordigliera, dalla metropoli al villaggio, in un viaggio di riconquista di tempi e di spazi più a misura degli uomini e delle donne; per fare pace con la terra, con il cielo, con il mare.
Un sapere e un potere fondati su una nuova coscienza del limite che possa responsabilizzare tutti e ciascuno: "limite" fisico della quantità di risorse disponibili sul pianeta, "limite" come argine e punto di svolta rispetto al primato selvaggio dei "valori di scambio" sui "valori d'uso", "limite" come fondamento di un inedito e fecondo equilibrio tra sviluppo e ambiente, di dialettica composizione tra "ecologia del lavoro" ed "economia della natura"; "limite" etico-politico sui confini e sui fini della scienza, della tecnologia, dell'innovazione; "limite" come nuova frontiera di senso, come bussola di un viaggio (il pensiero corre al viaggio fascinoso dell'Ulisse dantesco) nel quale coesistano, contaminandosi, qualità troppo spesso incomunicanti e nemiche (qualità sociale, umana, economica, morale, scientifica, ecc.): un "limite", dunque, gravido di nuove ricchezze e di nuove chances per tutte le creature del mondo.
C'è un volto, anzi c'è una sterminata moltitudine di volti, variamente segnati, dietro le parole: sessismo, industrialismo, militarismo, capitalismo: ma non sono queste le coordinate di quello che Pasolini chiamava universo orrendo?, di quell'universo orrendo - diceva il poeta corsaro con una struggente metafora ecologica - che ha soppresso le lucciole?
Veniamo da stagioni difficili. Dagli "Anni di piombo" al "Tempo delle mele", e al meno frizzante tempo delle pere, dalla militarizzazione del conflitto alla sua rimozione, dalle febbri convulse dei gesti disperati alla "febbre del sabato sera". Ora è tempo di pensare ad un conflitto che si esprima "umanamente", che sia una battaglia da vincere senza annullare nemici, senza distruggere e saccheggiare il campo avversario, senza uccidere il "diverso da sé". Che sia una critica sociale di tutti i codici, di tutte le violenze.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000