§ Rapporto Svimez 1990

Sblocco sociale per il Mezzogiorno




Maria Rosaria Pascali



Anche quest'anno, Pasquale Saraceno resta fedele a quel l'appuntamento con cifre e confronti che ha fatto del Rapporto Svimez uno scrupoloso bilancio consuntivo delle politiche seguite nel Sud del Paese.
Questa volta, il "grande vecchio" del meridionalismo abbandona il tono pacato che, da sempre, ha accompagnato l'esame delle connivenze "tra criminalità, clientelismo e flussi di spesa pubblica nel Mezzogiorno" e apre il Rapporto con una riflessione-denuncia severa e quanto mai necessaria, in un momento in cui i termini della "questione meridionale" battono la fiacca e la questione stessa soffre di una grave crisi di identità. Egli parla delle distorsioni e delle rigidità dei meccanismi politici, istituzionali e amministrativi come di mali che attanagliano l'Italia intera. ma che nel Sud assumono connotati di vera e propria emergenza. Qui, la modernizzazione è solo apparente, "non investe, cioè, le basi economiche, le strutture sociali, i modi di partecipazione alla vita collettiva". E' facile, pertanto, che con essa convivano "fenomeni di sopraffazione e di asservimento, di indistinzione tra pubblico e privato, di scambio di protezioni e fedeltà personali, le cui radici sembrerebbero invece appartenere a un lontano passato lazzaronesco e feudale". E' questa connivenza fra una modernizzazione apparente e, in realtà, mancata con questi, che Saraceno chiama, "residuati socio-culturali", humus favorevole per la proliferazione "dell'assistenzialismo, della corruzione e della criminalità". Ed è crisi della legalità, del meridionalismo, dello Stato. Una crisi che ha permesso a forze antiunitarie di riscuotere al Nord un successo imprevedibile e significativo, dando corpo. nel contempo, ad un'inedita "questione settentrionale". Al di la degli aspetti folkloristici che circondano il successo delle Leghe, si deve, secondo Saraceno, attribuire un significato più profondo a tale fenomeno: "il Nord, per gestire la sua integrazione con l'Europa, vuoi fare a meno di quello Stato inefficiente, dal quale, viceversa, il Mezzogiorno, in ragione della sua emarginazione dall'Europa, chiede di essere sussidiato".
Ma, se questo è il motivo, non è certo condivisibile la soluzione (separatista) di estremo opportunismo, che porta a rinnegare una catena di tradimenti e di politiche malate (ma finalizzate!) Che, nel passato anche recente, hanno fatto trarre lauti vantaggi ad un Nord, che oggi accusa. Dimenticare la storia, a volte, fa comodo, come dimostra Valerio Castronovo quando dice: "Per decenni, si è addebitata gran parte della questione meridionale alla mancata riforma agraria. Si immaginava che l'agricoltura del Sud fosse chissà che meraviglia. Che bastasse togliere di mezzo il latifondo ozioso e distribuire le terre perché l'economia fiorisse. Poi, quando nel secondo dopoguerra la riforma si è fatta, si è visto cos'è successo: le terre sono state abbandonate". Pagine tragiche della nostra storia vengono così riassunte in modo banale, fuorviante. Sbrigativamente vengono tratte le conclusioni, senza porre alcun accento sui modi e sui presupposti su cui si è basata la famigerata riforma agraria.
E' comodo, ora che il Sud comincia veramente a pesare, dire che la questione meridionale è diventata una questione dei meridionali. Ed è alquanto strano che la pensino in questo modo anche qualificati meridionalisti come Roberto Galasso, condirettore della rivista "Nord e Sud", il quale, anzi, dubita che si possa parlare di una revisione dei termini della questione e ricorda, a questo proposito, che già Salvemini e Nitti sottolineavano "la responsabilità primaria dei meridionali". Non c'è dubbio che la responsabilità sia anche dei meridionali, ma da qui a scaricare su di essi tutte le colpe e a far passare sottobanco le manovre a scapito del Sud consumate nel secondo dopoguerra a livello nazionale, corre una gran differenza. C'è, poi, chi ravvisa (N. Tranfaglia) nella capacità di integrazione dei meridionali emigrati al Nord una mancata volontà "di ribellarsi alle condizioni che affliggono il Sud": l'errore di fondo in cui si sono imbattuti i vecchi studiosi della questione meridionale è stata "l'idea che i cittadini del Sud non fossero attori della vita nazionale alla stregua di quelli del Nord".
Queste e tante altre tesi popolano oggi il dibattito meridionalista. L'impressione è che si stia rinnegando ciò che da quel dibattito in passato è emerso. Pochi sono coloro che restano fedeli alla storia e che guardano alle nuove emergenze poste dal Mezzogiorno come ad un'evoluzione graduale e inevitabile di scelte strategiche di politica nazionale. nonché di problemi trascinati nel corso degli anni, a cui sono state date solo risposte contingenti, mai soluzioni definitive. E oggi ci ritroviamo di fronte ad un "potentissimo blocco sociale", attuato fra coloro che detengono il controllo politico sulla gestione delle risorse pubbliche e gli imprenditori "a vario titolo dipendenti da tale gestione". L'effetto è la nascita, nel Sud, di una vera e propria cultura della corruzione, di un clima di sfiducia verso lo Stato da parte della gente comune, la quale preferisce perseguire i propri interessi in un'ottica individualistica e clientelare, stringendo patti con quei politici e con quegli imprenditori che, per esigenze di consenso e di profitto, quegli interessi si dichiarano disposti a soddisfare. Non è un caso che, dall'analisi delle fonti di reddito della popolazione meridionale, emerga che le entrate di una famiglia media del Sud siano costituite per il 38% da stipendi e prestazioni sociali elargiti dalla pubblica amministrazione, e per il 46% da redditi di industria e di attività private, a loro volta alimentati da committenze pubbliche.


Su questo ruolo, certamente preminente, che ha lo Stato nelle regioni meridionali, si basa il potere del cosiddetto "blocco sociale", potere che si estrinseca nell'"intercettazione e allocazione dei flussi di spesa pubblica". E' all'interno del sistema politico e delle strutture statali operanti nel Mezzogiorno che le organizzazioni mafiose traggono proventi enormi, da riciclare, soprattutto fuori dal Meridione, attraverso il sistema degli intermediari finanziari.
Secondo i ricercatori della Svimez, bisogna frantumare questo blocco di stampo feudale tramite la creazione di un nuovo blocco sociale, basato, questa volta, sulla separazione "del potere politico dalla responsabilità gestionale" e sul potenziamento del sistema concorrenziale, quale fonte primaria di stimolo all'efficienza per la pubblica amministrazione.
Ma, ammonisce Saraceno, non ci sardi alcun risultato utile per il Sud se l'"obiettivo centrale della ripresa del processo di industrializzazione competitiva non è condiviso dall'intera società nazionale", se il Mezzogiorno non viene posto al centro della programmazione nazionale, se una riforma delle istituzioni, basata su regole trasparenti di gestione della spesa pubblica, non viene rivendicata da tutte le forze del Paese. In mancanza di questi presupposti, sarà inoltre molto difficile cambiare le rigide regole della Cee, con la conseguenza che il Mezzogiorno sarà trattato alla stregua di altre aree arretrate del Paesi membri, senza che sia data rilevanza alle peculiarità del sottosviluppo che contraddistinguono ciascuna zona.
Nodo centrale della "questione meridionale" resta quello del l'occupazione. Anche se, nel 1989, si è verificata al Sud una crescita occupazionale superiore all'aumento della forza lavoro. tuttavia permane il dato negativo di un tasso di disoccupazione pari al 20,1%, contro quello del 7,4% riscontrato nel Centro-Nord.
L'aumento di circa 36 mila unità della disoccupazione aperta è da ricondurre, per i due terzi, all'incremento delle persone in cerca di prima occupazione, mentre, per il restante terzo, "agli altri disoccupati". Le cause vanno da una insufficiente accumulazione di capitali ad una politica attiva del lavoro non conforme alle esigenze del Mezzogiorno.
La prima causa trae origine, come sappiamo, dal cattivo uso e dall'abuso che delle risorse destinate al Sud hanno fatto le amministrazioni centrali e locali e ad essa è direttamente collegata la seconda causa. Infatti, ricordiamo che la maggior parte delle politiche attive del lavoro furono elaborate, alla fine degli anni '70, per favorire la mobilità dei lavoratori, in occasione dei processi di ristrutturazione e di riconversione industriale avviati nel Centro-Nord. La conseguente normativa, anche se in via teorica doveva servire soprattutto a contenere il preoccupante tasso di disoccupazione esistente nel Mezzogiorno, in concreto, ha esplicato efficacia solo in presenza di una disoccupazione causata dal mancato incontro della domanda con l'offerta di lavoro, derivante, cioè, dai suddetti processi di ristrutturazione industriale. Nel Mezzogiorno, questi processi esistono, ma in misura molto circoscritta, mentre è prevalente una disoccupazione dovuta all'inadeguato sviluppo dell'accumulazione. Da qui l'esigenza di interventi differenziati di politica del lavoro che abbiano come presupposto nel Sud la rapida ripresa di quel meccanismo di sviluppo.

Rapporto Svimez 1990

Andamenti settoriali

Secondo l'analisi svolta dalla Svimez, il 1989 non è stato un anno particolarmente proficuo per l'economia meridionale.
L'agricoltura ha continuato a perdere colpi. La protratto assenza di piogge, infatti, non ha permesso alcun recupero delle perdite subite nel 1988 dalla produzione agricolo. Anzi, secondo dati provvisori, questa produzione si sarebbe ulteriormente ridotta dello 0,3%.
I maggiori danni sono stati subiti da quelle colture che già lo scorso anno avevano rivelato segni di debolezza: olivo, uva da tavola, vino, frutta in guscio e, soprattutto, grano duro, il cui raccolto è risultato inferiore del 30% rispetto al 1988.
E' cresciuto, inoltre, il divario tra l'andamento dei prezzi agricoli e la media generale dei prezzi. I primi aumentati solo del 2,7%, la seconda del 6,3%, con un'erosione del potere d'acquisto solo in parte compensata da tagli occupazionali.
Danno il colpo di grazia alla già critica situazione del settore le politiche di riduzione dei prezzi messe in moto dalla Cee e atte a penalizzare proprio i prodotti tipici del Mediterraneo.


Il dato più positivo che emerge dal quadro dell'economia meridionale per il 1989 riguarda il settore industriale. La voglia di combattere e di recuperare in qualche modo il tempo perduto è evidenziato da un incremento degli investimenti fissi lordi pari al 9,8% in termini reali, contro il 7,4% riscontrato nel Centro-Nord.
Dall'analisi comparativa dei dati, peraltro, il fenomeno esce alquanto ridimensionato: infatti, rispetto al 1980, gli investimenti nell'industria della trasformazione sono aumentati al Sud solo del 5%. Diversamente al Centro-Nord, dove il tasso di crescita ha raggiunto il 22%.
Per quanto concerne l'andamento della produzione, nel 7989 si è verificato un rallentamento del precedente trend espansivo, non solo nel Mezzogiorno, ma in tutto il Paese. Lincremento medio della produzione è passato, infatti, dal 5, 9% del 1988 al 2,9% del 1989.
"Tirano" più al Sud che al Nord le produzioni tessili, dell'abbigliamento, delle calzature, metallurgiche, della carta. Ma, osserva lo Svimez, rispetto al Nord perdura il divario nella produttività del lavoro che porto a "neutralizzare il vantaggio di cui l'industria gode, in termini di sgravio degli oneri fiscali".
Bilancio in rosso anche per l'innovazione tecnologica. Dal 1982 al 1989, solo il 24% del fondo per la ricerca applicata, facente capo all'Imi, è andato al Mezzogiorno. Situazione analoga per il fondo speciale gestito direttamente dal Ministero per l'industria: tra il 1983 e il 1989, la quota media che ha raggiunto il Sud è stato dell'8%, percentuale Che, nel biennio '88/89, si è ulteriormente ridotta al 5%.
Settore decisamente in attivo è quello turistico. Anche quest'anno, infatti, le coste meridionali sono state meta privilegiato del pubblico di vacanzieri, stranieri e non. E questo a fronte di una situazione che, nel resto del Paese, ha toccato punte bassissime di affluenza, a causa soprattutto della mucillagine che, nei mesi estivi, ha invaso tutto l'Alto Adriatico. Maggiori (21,2%) le presenze italiane rispetto a quelle straniere (14,3%). Le coste preferite dagli stranieri sono state quelle della Campania e della Sardegna.
In piena crisi, invece, l'edilizia. Nell'anno, numerosi cantieri sono stati chiusi, quasi 13 mila lavoratori licenziati, mentre si è ridotto, rispetto al 1988, il numero degli alloggi di nuova costruzione, nonché delle costruzioni di edifici industriali e a destinazione agricola.


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