Da
più parti, e per più aspetti, le cronache di questi ultimi
tempi hanno spesso riproposto immagini e motivi dell'Italia di Guicciardini,
con i suoi particolarismi, i suoi settarismi, le sue insensibilità
all'unità nazionale. Si registra un'allarmante esplosione di
settorialismi, soprattutto in climi elettorali. Di qui l'opportunità
del richiamo del Capo dello Stato, contro tali immagini e tali motivi,
all'Italia di Francesco De Sanctis.
Non v'è dubbio che le parole di Cossiga, misurate eppur appassionate,
evochino l'Italia di De Sanctis. Anzitutto nei sentimenti. Sicché
può ben rilevarsi come il suo sia un discorso tutt'altro che
di parte, ma proprio "dalla parte dello Stato", nell'accezione
più degna del l'espressione. Coloro che considerano l'Italia
di De Sanctis "un'astrazione", e magari il suo Sud un peso
di cui conviene liberarsi, non si domandano quale credito concretamente
ne venga allo sforzo di integrarsi nell'Europa. Potrebbe capitare che
la stessa Italia di Guicciardini sia considerata dall'Europa un peso
di cui liberarsi, anche se alleggerita dall'amputazione del Sud, e magari
proprio per questo. Nella nostra storia unitaria, ed a maggior ragione
nel nostro futuro europeo, non c'è posto per privilegi dettati
da collocazioni geografiche. Né per egoismi di classe, o di corporazione.
Nella difesa della legalità repubblicana contro il terrorismo,
ha ricordato giustamente il Presidente della Repubblica, la classe lavoratrice
ha avuto il grande merito di agire come "classe generale",
interprete di valori e di responsabilità collettive della società
italiana. Ed in un senso pressoché analogo il Paese ha ancora
bisogno di un sindacato in grado di far valere quell'intreccio fra rappresentatività
sociale e identità politica, che costituisce l'originalità
e la fecondità del movimento sindacale nell'esperienza delle
democrazie occidentali.
Quello di Cossiga deve intendersi come il riconoscimento di un ruolo
tuttora importante e insostituibile del sindacato nella compagine nazionale.
Certo, a suo modo, esso è pure uno sprone perché le confederazioni
sindacali combattano, esse per prime, la tendenza al corporativismo,
che spesso le trasformazioni incessanti della realtà produttiva
e della vita economica sembrano alimentare.
Il proliferare di rivendicazioni e di movimenti, a beneficio di singole
categorie o di singoli gruppi, renitenti agli interessi generali della
comunità, è compatibile - ad esempio - con il significato
che il Primo Maggio ha ormai assunto nella coscienza nazionale, nella
storia del sindacalismo, nella prospettiva europea. Su questo terreno
esistono omertà da sradicare in seno alla società; ma
esistono pure abdicazioni e inadempienze dello Stato (basti pensare
alla legislazione sul diritto di sciopero) non più ammissibili.
Quale che sia il giudizio che ognuno di noi voglia dare del maggiore
o minore impegno con il quale i pubblici poteri quotidianamente fanno
fronte alla sfida dei particolarismi, non possiamo sottovalutare il
tessuto ideale e civile nel quale si è chiamati ad operare. Il
contenuto e le occasioni dei discorsi
di Cossiga mirano a rendere quel tessuto più forte, nelle commissioni
che oggi uniscono, assai più di quanto distinguano, mondo del
lavoro e responsabilità dello Stato. Si tratta di ricreare a
tutti i livelli un'effettiva e non retorica coesione nazionale. L'autorità
dello Stato democratico è cosa non solo diversa, ma antitetica,
rispetto allo Stato autoritario. Per chi continua a riconoscersi nell'Italia
di De Sanctis, l'autorità dello Stato è, da un, lato,
il presidio della libertà dei cittadini, e, dall'altro lato,
la condizione dell'efficienza dei pubblici poteri.
Al fondo dei moniti di Cossiga vi è una convinzione (di principio
e di fatto, verrebbe da dire) che per l'Italia moderna è irrinunciabile.
Senso dell'identità nazionale, senso dello Stato unitario, senso
della comunità democratica, sono valori del nostro futuro, assai
più di quanto non sembrino radici del nostro passato.
Eresie di Pasolini
Il corsaro
e le leghe
L'ombra di un
profeta si delinea dietro il bubbone dei localismi esploso in questi
ultimi mesi. Una voce nel deserto ha avvertito con anticipo di anni
i lampi che preparavano il ciclone delle Leghe, le alte percentuali
del non-voto e il crollo del socialismo reale nel nostro Paese. E
al di là dei dati e delle percentuali, dei bilanci e dei commenti
dei partiti, un vate inascoltato, un "corsaro" isolato e
non certo amato dal Potere ha lasciato in eredità, a metà
degli anni Settanta, un patrimonio di scritti, analisi e intuizioni
che nonostante il trascorrere del tempo non hanno subito l'accumularsi
della polvere e sembrano essere scolpiti nella realtà di oggi.
C'è l'eredità di Pier Paolo Pasolini, di fronte agli
aggregati e ai reagenti chimici della miscela in cui si sono concentrati
stati d'animo, rabbia, reazioni del Paese.
Eppure, il profeta Pasolini, a partire dal '73 e fino al giorno della
sua tragica morte, due anni dopo, non aveva cessato di scrivere, di
ammonire, di urlare. Il mutare dei comportamenti collettivi sotto
la spinta del consumismo, gli squilibri dello sviluppo, l'universo
della vecchia Italietta travolto da nuove realtà, i valori
ribaltati, il Potere sordo e lontano dalla gente; e i politici, e
gli intellettuali, sempre più trincerati nelle arroganze del
Palazzo, capaci soltanto di ingabbiare il mondo nei soliti schemi
colorati di chiacchiere e ideologia, ostinati a non ascoltare, pronti
a compensare il vuoto di idee con l'occupazione delle copertine dei
rotocalchi e degli schermi della tv...
L'Italia della protesta, del non-voto e delle Leghe si preparava sotto
la cenere. E Pasolini intuiva che il malessere non poteva essere sbrigativamente
liquidato con le solite etichette. Che per spiegare le insofferenze,
i sussulti di insoddisfazione che germogliavano nella profondità
degli animi per poi esprimersi nel modo di essere e di pensare della
gente, ci voleva qualcosa di più che non le solite e vecchie
e logore lenti colorate. "C'è una destra sublime in ciascuno
di noi - scriveva -. Non una destra politica, ma una destra immaginaria
e mitica che sola può assumere il compito di difendere nella
memoria il patrimonio dei valori perduti: le culture particolari,
le piccole patrie, la lingua madre, il senso di appartenenza alle
radici. E' assurdo che queste cose diventino appannaggio dei fascisti;
sono valori, temi, problemi, amori, rimpianti; che in fondo valgono
per tutti; se ne sono appropriati i Fascisti per ragioni retoriche,
per sfruttarne il senso. In realtà sono temi di tutti",
(Volgar'eloquio). Tutti "egoisti e razzisti" (come li hanno
definiti i partiti) i milioni di voti finiti in tasca alle Leghe?
Solo bieca insofferenza nella protesta? "Nessun paese ha posseduto
come il nostro una tale quantità di culture "particolari
e reali", una tale quantità di "piccole patrie",
una tale quantità di mondi dialettali: nessun paese, dico,
in cui si sia poi avuto un così travolgente sviluppo",
(Scritti corsari). A metà degli anni '70, quando i comunisti
sembrano sul punto di sorpassare i cattolici e il marxismo riscuote
consensi importanti nel mondo della cultura, Pasolini, che pur non
esita a definirsi marxista, interpreta la realtà usando categorie
che gli rendono ostile la maggior parte degli intellettuali. L'Unità
lo accusa di "irrazionalismo" e di "estetismo";
Paese Sera gli rimprovera di non aver capito la società italiana
e di averla interpretata nel suo inconscio sentimentale di poeta.
Eppure Pasolini è il primo ad usare il termine Palazzo, il
primo ad associare l'immagine di un potere politico e intellettuale
aggrappato a se stesso, a quei settimanali patinati e liberai, che
del Palazzo, secondo lui, sono l'emblema e lo specchio. "...
Ho l'Espresso in mano, come dicevo.
Lo guardo e ne ricevo un'impressione sintetica: "Com'è
diversa da me questa gente che scrive delle cose che interessano a
me. Ma dov'è? Dove vive? E' un'idea inaspettata, una orazione,
che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: "Essa
vive nel Palazzo". Non c'è pagina o riga, parola, in tutto
l'Espresso (ma probabilmente in tutto Panorama, in tutto il Mondo
... ) che non riguardi solo ed esclusivamente ciò che avviene
dentro il Palazzo: tutto il resto è minutaglia, brulichio,
informità, seconda qualità. E naturalmente, di quanto
accade dentro il Palazzo ciò che veramente importa è
la vita dei potenti: i loro intrighi, le loro alleanze, le congiure,
le fortune... Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani;
sono sempre vissuti dentro il Palazzo. Ciò che avviene "Fuori
dal Palazzo": è infinitamente più nuovo, spaventosamente
più avanzato".
"Ecco perché - osserva Pasolini - i potenti e anche coloro
che li descrivono si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli
mortuari" (Lettere Luterane).
Anche della crisi del socialismo reale fu lucido profeta. Due settimane
prima della morte, il 21 ottobre 1975, fu invitato a un dibattito
dagli studenti del Liceo classico "Palmieri" di Lecce. Accettò
senza esitare, come faceva sempre. E uno dei bersagli dell'intervento
fu "la retorica di sinistra". " Penso che in Italia
si stia formando un nuovo tipo di chierico ed è il progressista...
Secondo me, questo nuovo chierico che comincia a diventare egemone
nella cultura nazionale è lui semmai l'antiquato. E' l'antiquato
perché non tiene conto dei cambiamenti totali dovuti a un nuovo
tipo di capitalismo. L'Arcadia è chi riposa sulle idee progressiste
di dieci anni fa, che gratificavano le coscienze di una grande pienezza
democratica, di grande tolleranza, e invece adesso si sono rivelate
vuote, svuotate. Vanno rivitalizzate in queste vecchie idee progressiste".
Quindici anni fa. L'89 e il '90 erano ancora lontani.
Quando viene
meno il senso dello Stato
E' in crisi
l'idea di partito
Il crollo del
comunismo, o socialismo reale. dopo quello dei nazismo, distrugge
il partito unico, cioè il partito forte, l'incarnazione rocciosa
del concetto di partito. Al tempo stesso, colpisce sottilmente tutta
una cultura politica.
I partiti nascono dalle lotte di religione e ne sono gli eredi laici.
Contengono l'ideologia, cioè una precisa visione del mondo
e della società, che si contrappone alle altre e cerca di imporsi.
A poco a poco, nel bagno tiepido della democrazia, in Occidente il
rigore ideologico dei partiti si stinge. Così anche, ormai,
nell'Est. Ma, come tutto ciò che invecchia e si attenua, l'idea
stessa di partito entra in crisi. Anzi, di volta in volta che i partiti
diventano più tolleranti, meno contrapposti, meno "filosofici",
perdono il loro fascino. Un conto è lottare per il Bene contro
il Male. un altro impegnarsi pro o contro la tassazione dei Bot. La
grandezza della posta in gioco è proporzionale all'impegno
umano.
Tutto ciò spiega la spaccatura politica fra le "due Italie":
mentre nel Sud la protesta contro i partiti si è espressa premiando
gli eretici all'interno dei gruppi politici, discutendo gli uomini
ma non il sistema stesso (casi di Palermo e di Catania, ad esempio),
al Nord hanno vinto coloro che agitano il vessillo del localismo.
Una vittoria che ha coinvolto soprattutto la Lombardia. Perché?
La Lombardia è la regione che ha forse. fra tutte, il minor
senso dello Stato. E' la regione che ha dato all'Italia unita il minor
numero di dirigenti, di funzionari, di burocrati. Si fa fatica a trovare
un ambasciatore o un generale milanese: sono per lo più piemontesi
(la tradizione della burocrazia sabauda), meridionali (la burocrazia
borbonica), con l'innesto romano dopo Porta Pia. I lombardi hanno
sempre sognato una propria burocrazia, rifuggono dall'idea nazionale.
Non la Francia o la Germania e neppure l'Inghilterra sono il loro
ideale, ma la Svizzera. Denaro, laboriosità, efficienza, sicurezza.
E' una faccenda che ha radici lontanissime. Capitale dell'Impero Romano
con Diocleziano, ribattezzatasi "Roma secunda", Milano non
ha più dimenticato quel potere e quella libertà. Del
resto, si era sempre un po' contrapposta a Roma: quando Augusto l'aveva
visitata, era montato in collera vedendo nel Foro di Milano la statua
di Bruto, l'uccisore di Cesare. Più tardi, l'imperatrice Giustina
avrebbe comminato l'enorme ammenda di 200 libbre d'oro agli imprenditori
milanesi che non intendevano pagare le tasse: era meglio spendere
quel denaro - sostenevano - per la loro città. E i dipendenti
accorsero a dar loro man forte. Il severo vescovo Ambrogio, amatissimo
dal popolo, tuonava contro i commercianti: "Voi gemete sempre
quando i granai sono ricolmi, vi lamentate quando la messe è
abbondante. la vostra ricchezza si edifica sulla disgrazia dei molti".
Vecchia storia, dunque. In fondo, in molti a Milano sognano sempre
di marciare su Roma. La motivazione è sempre quella: Roma,
capitale corrotta e parassita, assorbe e sperpera quanto è
guadagnato dagli altri. In Lombardia, l'idea del "mio denaro"
è radicata come mai altrove. Di che meravigliarsi, allora?
Ricordate l'Uomo
Qualunque?
Nel 1946 un partito
che si batteva in difesa dello "Stato amministratore", esaltando
la neutralità tecnica della burocrazia statale contro l'invadenza
sopraffattrice dei "politici" ottenne alle elezioni politiche
1.211.956 voti, il 5,3%, con ben 32 seggi. Era l'Uomo Qualunque, il
movimento fondato dal commediografo Guglielmo Giannini, più
volte citato a proposito dei successi delle Leghe.
A rendere plausibile l'accostamento concorrono anzitutto alcune cifre.
A Bergamo (26,2%), Brescia (25,5%), Corno (22,9%), e in altri grandi
centri della Lombardia, i "lumbard" ottengono percentuali
del tutto simili a quelle conquistate dai qualunquisti: il 20,7% a
Roma, il 47,1% a Lecce, il 34,6% a Foggia, il 23,5% a Palermo, il
19,7% a Napoli. Quanto alla volgarità, i giochi di parole di
Giannini (Ferruccio Parri diventava Fessuccio Parmi) non avevano nulla
da invidiare agli slogan dei leghisti di oggi. Inoltre, anche allora
lo scontento raggrumatosi intorno alle liste dell'U.Q. segnalava una
fase di transizione del sistema politico, il difficile passaggio dalla
dittatura alla democrazia parlamentare, il disagio psicologico nel
confronti di una competizione politica finalmente libera e aperta
e una pluralità di voci diverse.
Ma le somiglianze sembrano finire qui. La prima diversità riguarda
l'ambito territoriale. Su 1 .300 consiglieri comunali ottenuti dall'U.Q.,
1.200 erano infatti dislocati al Sud.
L'U.Q. era un'impossibile sfida per fermare il tempo. Rappresentava
una sopravvivenza del passato non solo nella concezione della politica
ma soprattutto per quel suo elettorato costituito da una piccola borghesia
a reddito fisso, economicamente stremata dall'inflazione, orfana di
quelle poche certezze d'i status e di privilegio ricevute dal Fascismo.
Niente a che vedere con l'efficienza modernizzante della Lega che
ha colto i successi più significativi proprio nelle zone industriali
più solide. I "lumbard" si sono mossi sul mercato
della politica con un'organizzazione e uno spirito di iniziativa imprenditoriali.
Imprenditori, tecnici, pubblicitari, uomini della comunicazione, sprigionano
una carica di dinamismo indubbiamente superiore a quella dei notabili
agrari e degli avvocati di provincia del vecchio qualunquismo meridionale.
E' difficile quindi pensare alle Leghe come a una meteora, immaginare
un loro rassicurante e indolore riassorbimento nell'ambito dei partiti
tradizionali, come nel '46 riuscì a fare la DC nel confronti
dei qualunquisti. Non si tratta di un fenomeno effimero, ma di un
aspetto della crisi del sistema politico i cui contenuti vanno interpretati
senza eccessive sopravvalutazioni.
Si è parlato di una diffusa voglia di federalismo. Magari!
In realtà, alcuni dei movimenti più autenticamente autonomisti
sono usciti dalle recenti elezioni lievemente (la Volkspartei) o rovinosamente
(il Partito Sardo d'Azione) sconfitti. No, la scelta autonomista presuppone
un altro tipo di sedimentazione teorica; nella Lega ritroviamo invece
uno frammentazione dell'identità nazionale in mille realtà
separate e contrapposte. Non è solo xenofobia, razzismo, egoismo
particolarista: è l'azzeramento di ogni riferimento ideale,
comunitario e collettivo.
Forse stiamo registrando il fallimento del secolare e suggestivo progetto
di "fare gli italiani". Una delle funzioni più tipiche
assunte dallo Stato unitario nei confronti della società civile
fu di unificare e compattare sul terreno amministrativo e burocratico
tutto quanto era diviso (le coppie Nord/Sud, città/campagna,
proletariato/borghesia) nei diversi ambiti geografici, sociali, culturali.
Il processo di formazione dello Stato italiano può reggersi
infatti, secondo un modello in cui il centro è sempre definito
in termini normativi e di valori, tutelati dalle élites nazionali,
amministrative e politiche; il suo sviluppo si presenta quindi come
una contraddizione permanente tra chi vuole espandere il sistema dei
valori centrali e chi vi si oppone. I termini del conflitto sarebbero
anche storicamente fondati, contrapponendo un centro relativamente
recente, formatosi solo nel 1861, ci una periferia segnata da una
identità storica molto più definito, restia per questo
a rinunciare a privilegi e sovranità propri. Questa funzione
di collante di un'identità nazionale spappolata fu il risvolto
positivo dello "Stato prefettizio" criticato dai democratici.
Nell'Italia repubblicano, allo Stato si sono affiancati i partiti
di massa, svolgendo il suo stesso ruolo sul terreno dell'ideologia.
L'ideologia è stato lo strumento "impositivo" per
superare le differenze regionali e formare un elettorato e una leadership
omogenea, il veicolo per trasformare i partiti da specifiche entità
subculturali, territorialmente delimitate, in entità a base
nazionale. La forte carica idealogica ne ha garantito - pur [n presenza
di momenti di degenerazione parossistica della lotta politica - una
funzione pedagogico e protettiva in senso forte della società
civile. La speranza di un radicale mutamento sociale, la difesa dei
valori cristiani, sono stati comunque progetti collettivi in grado
di disintegrare le incrostazioni di familismo amorale che ancora segnavano
i nostri comportamenti individuali. Oggi per la Dc, ma soprattutto
per il Pci, questi riferimenti non valgono più. Distruggere
il modello pedagogico-autoritario di partito non pone solo a repentaglio
il radicamento popolare dei comunisti, ma ingenera fenomeni di destabilizzazione
per tutto il quadro politico. Dallo sgretolarsi dello zoccolo duro
affiora un fondo melmoso non più "protetto" dal mantello
dell'ideologia. Il crollo dei grandi paradigmi ideali e delle identità
forti ci toglierà ogni possibilità di mimetizzazione.
Potremo finalmente guardarci allo specchio, senza veli. E non è
detto che sarà una bella esperienza.
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