Egoismi senza futuro




Antonio Maccanico



Da più parti, e per più aspetti, le cronache di questi ultimi tempi hanno spesso riproposto immagini e motivi dell'Italia di Guicciardini, con i suoi particolarismi, i suoi settarismi, le sue insensibilità all'unità nazionale. Si registra un'allarmante esplosione di settorialismi, soprattutto in climi elettorali. Di qui l'opportunità del richiamo del Capo dello Stato, contro tali immagini e tali motivi, all'Italia di Francesco De Sanctis.
Non v'è dubbio che le parole di Cossiga, misurate eppur appassionate, evochino l'Italia di De Sanctis. Anzitutto nei sentimenti. Sicché può ben rilevarsi come il suo sia un discorso tutt'altro che di parte, ma proprio "dalla parte dello Stato", nell'accezione più degna del l'espressione. Coloro che considerano l'Italia di De Sanctis "un'astrazione", e magari il suo Sud un peso di cui conviene liberarsi, non si domandano quale credito concretamente ne venga allo sforzo di integrarsi nell'Europa. Potrebbe capitare che la stessa Italia di Guicciardini sia considerata dall'Europa un peso di cui liberarsi, anche se alleggerita dall'amputazione del Sud, e magari proprio per questo. Nella nostra storia unitaria, ed a maggior ragione nel nostro futuro europeo, non c'è posto per privilegi dettati da collocazioni geografiche. Né per egoismi di classe, o di corporazione.
Nella difesa della legalità repubblicana contro il terrorismo, ha ricordato giustamente il Presidente della Repubblica, la classe lavoratrice ha avuto il grande merito di agire come "classe generale", interprete di valori e di responsabilità collettive della società italiana. Ed in un senso pressoché analogo il Paese ha ancora bisogno di un sindacato in grado di far valere quell'intreccio fra rappresentatività sociale e identità politica, che costituisce l'originalità e la fecondità del movimento sindacale nell'esperienza delle democrazie occidentali.
Quello di Cossiga deve intendersi come il riconoscimento di un ruolo tuttora importante e insostituibile del sindacato nella compagine nazionale. Certo, a suo modo, esso è pure uno sprone perché le confederazioni sindacali combattano, esse per prime, la tendenza al corporativismo, che spesso le trasformazioni incessanti della realtà produttiva e della vita economica sembrano alimentare.
Il proliferare di rivendicazioni e di movimenti, a beneficio di singole categorie o di singoli gruppi, renitenti agli interessi generali della comunità, è compatibile - ad esempio - con il significato che il Primo Maggio ha ormai assunto nella coscienza nazionale, nella storia del sindacalismo, nella prospettiva europea. Su questo terreno esistono omertà da sradicare in seno alla società; ma esistono pure abdicazioni e inadempienze dello Stato (basti pensare alla legislazione sul diritto di sciopero) non più ammissibili.
Quale che sia il giudizio che ognuno di noi voglia dare del maggiore o minore impegno con il quale i pubblici poteri quotidianamente fanno fronte alla sfida dei particolarismi, non possiamo sottovalutare il tessuto ideale e civile nel quale si è chiamati ad operare. Il contenuto e le occasioni dei discorsi
di Cossiga mirano a rendere quel tessuto più forte, nelle commissioni che oggi uniscono, assai più di quanto distinguano, mondo del lavoro e responsabilità dello Stato. Si tratta di ricreare a tutti i livelli un'effettiva e non retorica coesione nazionale. L'autorità dello Stato democratico è cosa non solo diversa, ma antitetica, rispetto allo Stato autoritario. Per chi continua a riconoscersi nell'Italia di De Sanctis, l'autorità dello Stato è, da un, lato, il presidio della libertà dei cittadini, e, dall'altro lato, la condizione dell'efficienza dei pubblici poteri.
Al fondo dei moniti di Cossiga vi è una convinzione (di principio e di fatto, verrebbe da dire) che per l'Italia moderna è irrinunciabile. Senso dell'identità nazionale, senso dello Stato unitario, senso della comunità democratica, sono valori del nostro futuro, assai più di quanto non sembrino radici del nostro passato.

Eresie di Pasolini

Il corsaro e le leghe

L'ombra di un profeta si delinea dietro il bubbone dei localismi esploso in questi ultimi mesi. Una voce nel deserto ha avvertito con anticipo di anni i lampi che preparavano il ciclone delle Leghe, le alte percentuali del non-voto e il crollo del socialismo reale nel nostro Paese. E al di là dei dati e delle percentuali, dei bilanci e dei commenti dei partiti, un vate inascoltato, un "corsaro" isolato e non certo amato dal Potere ha lasciato in eredità, a metà degli anni Settanta, un patrimonio di scritti, analisi e intuizioni che nonostante il trascorrere del tempo non hanno subito l'accumularsi della polvere e sembrano essere scolpiti nella realtà di oggi. C'è l'eredità di Pier Paolo Pasolini, di fronte agli aggregati e ai reagenti chimici della miscela in cui si sono concentrati stati d'animo, rabbia, reazioni del Paese.
Eppure, il profeta Pasolini, a partire dal '73 e fino al giorno della sua tragica morte, due anni dopo, non aveva cessato di scrivere, di ammonire, di urlare. Il mutare dei comportamenti collettivi sotto la spinta del consumismo, gli squilibri dello sviluppo, l'universo della vecchia Italietta travolto da nuove realtà, i valori ribaltati, il Potere sordo e lontano dalla gente; e i politici, e gli intellettuali, sempre più trincerati nelle arroganze del Palazzo, capaci soltanto di ingabbiare il mondo nei soliti schemi colorati di chiacchiere e ideologia, ostinati a non ascoltare, pronti a compensare il vuoto di idee con l'occupazione delle copertine dei rotocalchi e degli schermi della tv...
L'Italia della protesta, del non-voto e delle Leghe si preparava sotto la cenere. E Pasolini intuiva che il malessere non poteva essere sbrigativamente liquidato con le solite etichette. Che per spiegare le insofferenze, i sussulti di insoddisfazione che germogliavano nella profondità degli animi per poi esprimersi nel modo di essere e di pensare della gente, ci voleva qualcosa di più che non le solite e vecchie e logore lenti colorate. "C'è una destra sublime in ciascuno di noi - scriveva -. Non una destra politica, ma una destra immaginaria e mitica che sola può assumere il compito di difendere nella memoria il patrimonio dei valori perduti: le culture particolari, le piccole patrie, la lingua madre, il senso di appartenenza alle radici. E' assurdo che queste cose diventino appannaggio dei fascisti; sono valori, temi, problemi, amori, rimpianti; che in fondo valgono per tutti; se ne sono appropriati i Fascisti per ragioni retoriche, per sfruttarne il senso. In realtà sono temi di tutti", (Volgar'eloquio). Tutti "egoisti e razzisti" (come li hanno definiti i partiti) i milioni di voti finiti in tasca alle Leghe? Solo bieca insofferenza nella protesta? "Nessun paese ha posseduto come il nostro una tale quantità di culture "particolari e reali", una tale quantità di "piccole patrie", una tale quantità di mondi dialettali: nessun paese, dico, in cui si sia poi avuto un così travolgente sviluppo", (Scritti corsari). A metà degli anni '70, quando i comunisti sembrano sul punto di sorpassare i cattolici e il marxismo riscuote consensi importanti nel mondo della cultura, Pasolini, che pur non esita a definirsi marxista, interpreta la realtà usando categorie che gli rendono ostile la maggior parte degli intellettuali. L'Unità lo accusa di "irrazionalismo" e di "estetismo"; Paese Sera gli rimprovera di non aver capito la società italiana e di averla interpretata nel suo inconscio sentimentale di poeta.
Eppure Pasolini è il primo ad usare il termine Palazzo, il primo ad associare l'immagine di un potere politico e intellettuale aggrappato a se stesso, a quei settimanali patinati e liberai, che del Palazzo, secondo lui, sono l'emblema e lo specchio. "... Ho l'Espresso in mano, come dicevo.
Lo guardo e ne ricevo un'impressione sintetica: "Com'è diversa da me questa gente che scrive delle cose che interessano a me. Ma dov'è? Dove vive? E' un'idea inaspettata, una orazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: "Essa vive nel Palazzo". Non c'è pagina o riga, parola, in tutto l'Espresso (ma probabilmente in tutto Panorama, in tutto il Mondo ... ) che non riguardi solo ed esclusivamente ciò che avviene dentro il Palazzo: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità. E naturalmente, di quanto accade dentro il Palazzo ciò che veramente importa è la vita dei potenti: i loro intrighi, le loro alleanze, le congiure, le fortune... Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti dentro il Palazzo. Ciò che avviene "Fuori dal Palazzo": è infinitamente più nuovo, spaventosamente più avanzato".
"Ecco perché - osserva Pasolini - i potenti e anche coloro che li descrivono si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari" (Lettere Luterane).
Anche della crisi del socialismo reale fu lucido profeta. Due settimane prima della morte, il 21 ottobre 1975, fu invitato a un dibattito dagli studenti del Liceo classico "Palmieri" di Lecce. Accettò senza esitare, come faceva sempre. E uno dei bersagli dell'intervento fu "la retorica di sinistra". " Penso che in Italia si stia formando un nuovo tipo di chierico ed è il progressista... Secondo me, questo nuovo chierico che comincia a diventare egemone nella cultura nazionale è lui semmai l'antiquato. E' l'antiquato perché non tiene conto dei cambiamenti totali dovuti a un nuovo tipo di capitalismo. L'Arcadia è chi riposa sulle idee progressiste di dieci anni fa, che gratificavano le coscienze di una grande pienezza democratica, di grande tolleranza, e invece adesso si sono rivelate vuote, svuotate. Vanno rivitalizzate in queste vecchie idee progressiste". Quindici anni fa. L'89 e il '90 erano ancora lontani.

Quando viene meno il senso dello Stato

E' in crisi l'idea di partito

Il crollo del comunismo, o socialismo reale. dopo quello dei nazismo, distrugge il partito unico, cioè il partito forte, l'incarnazione rocciosa del concetto di partito. Al tempo stesso, colpisce sottilmente tutta una cultura politica.
I partiti nascono dalle lotte di religione e ne sono gli eredi laici. Contengono l'ideologia, cioè una precisa visione del mondo e della società, che si contrappone alle altre e cerca di imporsi. A poco a poco, nel bagno tiepido della democrazia, in Occidente il rigore ideologico dei partiti si stinge. Così anche, ormai, nell'Est. Ma, come tutto ciò che invecchia e si attenua, l'idea stessa di partito entra in crisi. Anzi, di volta in volta che i partiti diventano più tolleranti, meno contrapposti, meno "filosofici", perdono il loro fascino. Un conto è lottare per il Bene contro il Male. un altro impegnarsi pro o contro la tassazione dei Bot. La grandezza della posta in gioco è proporzionale all'impegno umano.
Tutto ciò spiega la spaccatura politica fra le "due Italie": mentre nel Sud la protesta contro i partiti si è espressa premiando gli eretici all'interno dei gruppi politici, discutendo gli uomini ma non il sistema stesso (casi di Palermo e di Catania, ad esempio), al Nord hanno vinto coloro che agitano il vessillo del localismo. Una vittoria che ha coinvolto soprattutto la Lombardia. Perché?
La Lombardia è la regione che ha forse. fra tutte, il minor senso dello Stato. E' la regione che ha dato all'Italia unita il minor numero di dirigenti, di funzionari, di burocrati. Si fa fatica a trovare un ambasciatore o un generale milanese: sono per lo più piemontesi (la tradizione della burocrazia sabauda), meridionali (la burocrazia borbonica), con l'innesto romano dopo Porta Pia. I lombardi hanno sempre sognato una propria burocrazia, rifuggono dall'idea nazionale. Non la Francia o la Germania e neppure l'Inghilterra sono il loro ideale, ma la Svizzera. Denaro, laboriosità, efficienza, sicurezza. E' una faccenda che ha radici lontanissime. Capitale dell'Impero Romano con Diocleziano, ribattezzatasi "Roma secunda", Milano non ha più dimenticato quel potere e quella libertà. Del resto, si era sempre un po' contrapposta a Roma: quando Augusto l'aveva visitata, era montato in collera vedendo nel Foro di Milano la statua di Bruto, l'uccisore di Cesare. Più tardi, l'imperatrice Giustina avrebbe comminato l'enorme ammenda di 200 libbre d'oro agli imprenditori milanesi che non intendevano pagare le tasse: era meglio spendere quel denaro - sostenevano - per la loro città. E i dipendenti accorsero a dar loro man forte. Il severo vescovo Ambrogio, amatissimo dal popolo, tuonava contro i commercianti: "Voi gemete sempre quando i granai sono ricolmi, vi lamentate quando la messe è abbondante. la vostra ricchezza si edifica sulla disgrazia dei molti".
Vecchia storia, dunque. In fondo, in molti a Milano sognano sempre di marciare su Roma. La motivazione è sempre quella: Roma, capitale corrotta e parassita, assorbe e sperpera quanto è guadagnato dagli altri. In Lombardia, l'idea del "mio denaro" è radicata come mai altrove. Di che meravigliarsi, allora?

Ricordate l'Uomo Qualunque?

Nel 1946 un partito che si batteva in difesa dello "Stato amministratore", esaltando la neutralità tecnica della burocrazia statale contro l'invadenza sopraffattrice dei "politici" ottenne alle elezioni politiche 1.211.956 voti, il 5,3%, con ben 32 seggi. Era l'Uomo Qualunque, il movimento fondato dal commediografo Guglielmo Giannini, più volte citato a proposito dei successi delle Leghe.
A rendere plausibile l'accostamento concorrono anzitutto alcune cifre. A Bergamo (26,2%), Brescia (25,5%), Corno (22,9%), e in altri grandi centri della Lombardia, i "lumbard" ottengono percentuali del tutto simili a quelle conquistate dai qualunquisti: il 20,7% a Roma, il 47,1% a Lecce, il 34,6% a Foggia, il 23,5% a Palermo, il 19,7% a Napoli. Quanto alla volgarità, i giochi di parole di Giannini (Ferruccio Parri diventava Fessuccio Parmi) non avevano nulla da invidiare agli slogan dei leghisti di oggi. Inoltre, anche allora lo scontento raggrumatosi intorno alle liste dell'U.Q. segnalava una fase di transizione del sistema politico, il difficile passaggio dalla dittatura alla democrazia parlamentare, il disagio psicologico nel confronti di una competizione politica finalmente libera e aperta e una pluralità di voci diverse.
Ma le somiglianze sembrano finire qui. La prima diversità riguarda l'ambito territoriale. Su 1 .300 consiglieri comunali ottenuti dall'U.Q., 1.200 erano infatti dislocati al Sud.
L'U.Q. era un'impossibile sfida per fermare il tempo. Rappresentava una sopravvivenza del passato non solo nella concezione della politica ma soprattutto per quel suo elettorato costituito da una piccola borghesia a reddito fisso, economicamente stremata dall'inflazione, orfana di quelle poche certezze d'i status e di privilegio ricevute dal Fascismo. Niente a che vedere con l'efficienza modernizzante della Lega che ha colto i successi più significativi proprio nelle zone industriali più solide. I "lumbard" si sono mossi sul mercato della politica con un'organizzazione e uno spirito di iniziativa imprenditoriali. Imprenditori, tecnici, pubblicitari, uomini della comunicazione, sprigionano una carica di dinamismo indubbiamente superiore a quella dei notabili agrari e degli avvocati di provincia del vecchio qualunquismo meridionale. E' difficile quindi pensare alle Leghe come a una meteora, immaginare un loro rassicurante e indolore riassorbimento nell'ambito dei partiti tradizionali, come nel '46 riuscì a fare la DC nel confronti dei qualunquisti. Non si tratta di un fenomeno effimero, ma di un aspetto della crisi del sistema politico i cui contenuti vanno interpretati senza eccessive sopravvalutazioni.
Si è parlato di una diffusa voglia di federalismo. Magari! In realtà, alcuni dei movimenti più autenticamente autonomisti sono usciti dalle recenti elezioni lievemente (la Volkspartei) o rovinosamente (il Partito Sardo d'Azione) sconfitti. No, la scelta autonomista presuppone un altro tipo di sedimentazione teorica; nella Lega ritroviamo invece uno frammentazione dell'identità nazionale in mille realtà separate e contrapposte. Non è solo xenofobia, razzismo, egoismo particolarista: è l'azzeramento di ogni riferimento ideale, comunitario e collettivo.
Forse stiamo registrando il fallimento del secolare e suggestivo progetto di "fare gli italiani". Una delle funzioni più tipiche assunte dallo Stato unitario nei confronti della società civile fu di unificare e compattare sul terreno amministrativo e burocratico tutto quanto era diviso (le coppie Nord/Sud, città/campagna, proletariato/borghesia) nei diversi ambiti geografici, sociali, culturali. Il processo di formazione dello Stato italiano può reggersi infatti, secondo un modello in cui il centro è sempre definito in termini normativi e di valori, tutelati dalle élites nazionali, amministrative e politiche; il suo sviluppo si presenta quindi come una contraddizione permanente tra chi vuole espandere il sistema dei valori centrali e chi vi si oppone. I termini del conflitto sarebbero anche storicamente fondati, contrapponendo un centro relativamente recente, formatosi solo nel 1861, ci una periferia segnata da una identità storica molto più definito, restia per questo a rinunciare a privilegi e sovranità propri. Questa funzione di collante di un'identità nazionale spappolata fu il risvolto positivo dello "Stato prefettizio" criticato dai democratici.
Nell'Italia repubblicano, allo Stato si sono affiancati i partiti di massa, svolgendo il suo stesso ruolo sul terreno dell'ideologia. L'ideologia è stato lo strumento "impositivo" per superare le differenze regionali e formare un elettorato e una leadership omogenea, il veicolo per trasformare i partiti da specifiche entità subculturali, territorialmente delimitate, in entità a base nazionale. La forte carica idealogica ne ha garantito - pur [n presenza di momenti di degenerazione parossistica della lotta politica - una funzione pedagogico e protettiva in senso forte della società civile. La speranza di un radicale mutamento sociale, la difesa dei valori cristiani, sono stati comunque progetti collettivi in grado di disintegrare le incrostazioni di familismo amorale che ancora segnavano i nostri comportamenti individuali. Oggi per la Dc, ma soprattutto per il Pci, questi riferimenti non valgono più. Distruggere il modello pedagogico-autoritario di partito non pone solo a repentaglio il radicamento popolare dei comunisti, ma ingenera fenomeni di destabilizzazione per tutto il quadro politico. Dallo sgretolarsi dello zoccolo duro affiora un fondo melmoso non più "protetto" dal mantello dell'ideologia. Il crollo dei grandi paradigmi ideali e delle identità forti ci toglierà ogni possibilità di mimetizzazione. Potremo finalmente guardarci allo specchio, senza veli. E non è detto che sarà una bella esperienza.


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