La malattia del post-industriale




Giuseppe Galasso



Varrebbe la pena di non far passare immediatamente agli atti, con lo scorrere Inesorabile dell'attualità giornalistica, la diagnosi sulla condizione italiana avanzata ultimamente dal Censis. L'ente, di cui Giuseppe De Rita è il nume in ogni senso, inventa ed elabora ogni anno, con innegabile e ammirevole vivacità e continuità di fantasia sociologica e sociopsicologica, una formula, che immancabilmente colpisce l'opinione pubblica e che per qualche giorno occupa larghi spazi dei giornali, della radio e della televisione. Poi sopravviene, incalzante e ansiosamente perseguita, la nuova attualità, e anche il Rapporto dei Censis svanisce nella nebbia fatale di un passato che si misura addirittura in ore.
Non sarebbe però esatto affermare che del lavoro dei Censis tutto svanisca così. Ad esso dobbiamo alcune intuizioni e qualche apertura d'orizzonte, che non sono state soltanto invenzioni felici o formule fortunate. L'attenzione al "sommerso" nacque, ad esempio, in gran parte, dalle sue proposte interpretative. E ciò dovrebbe rendere più comprensivi o almeno più indulgenti nel casi in cui le indicazioni del Censis hanno potuto essere distorcenti o, addirittura, fuorvianti. Quest'anno la formula del Censis ha proposto l'immagine di un'Italia ricca e infelice. Gli italiani hanno raggiunto il benessere, si afferma; ma s'i sentono scissi, infelici, insoddisfatti, e la ricchezza non vale a compensare, e, semmai, accentua questa cattiva condizione di spirito. E di qui, una serie di commenti, volti fin troppo spesso a coltivare (bisogna dirlo) la poco ammirevole banalità per cui altro è la ricchezza, altro la felicità.
Si può obiettare che questa banalità è stata in qualche modo provocata dallo stesso Censis con una formula questa volta meno pirotecnica, benché non più inconsistente, di quelle di altre volte. E anche questo è vero. Il Censis aveva però almeno acceso una lampadina di allarme, avvertendo nel suo Rapporto che l'infelicità di cui esso parla non è quella Che, dal più al meno, tutti ci portiamo dentro per effetto della nostra condizione umana, bensì un'infelicità più specifica, legata ai modi di essere e di agire di quel mondo particolare, che è l'Italia d'oggi. Ed è proprio per ciò che il Rapporto presento questa volta un interesse politico sul quale non è bene scivolare col conforto dello scorrere cinematografico dell'attualità. Ed ecco, molto in breve, le due osservazioni che a questo riguardo sembrano opportune.
Innanzitutto, non prenderei sottogamba (come suoi dirsi) la diagnosi Censis. Solo, ne sposterei l'asse centrale, spogliandola di ogni connotazione sociologica o esistenziale. Il punto è che gli Italiani, se sono "Infelici", lo sono in quanto la loro Infelicità merita un'attenzione pubblica, per gli aspetti insoddisfacenti della convivenza italiana, in primo luogo, e per una ormai annosa crisi di valori civili e nazionali, in secondo luogo.
Criminalità, disservizi pubblici (e, in particolare, della giustizia), basso livello della classe e dell'azione politico-amministrative, carenza di serietà professionale e di rigore tecnico in moltissimi campi della vita civile, sensazione di netta inferiorità rispetto ad altri Paesi da questo punto di vista: ecco alcuni esempi di componenti del "complesso dì insoddisfazione" nazionale. Dall'altro lato, il regime di libertà è diventato un elemento scontato, i suoi rischi sono più negli eccessi frequenti di autonomia personale e di non-conformismo che nel contrario.
Ideali politici e sociali trascinanti come quelli dagli anni '40 agli anni '70 non se ne vedono. Il progresso materiale prende piede quasi da sé, e così pure quel grande fatto che è la crisi del comunismo e del marxismo: tutto troppo piatto, nonché troppo facile, per noi (anche se drammatico per altri). La secondo osservazione è che molto di tutto ciò non è affatto qualcosa di particolare e riservato dell'Italia. E' comune e diffuso in tutto il mondo avanzato, sono mali (se li si può definire così) della civiltà contemporanea o, se si preferisce, post-industriale. Non rendersene conto significa non percepire appieno né lo spessore né la qualità del fenomeno di cui si parla.
In conclusione, vi sarebbe molto da riflettere, anche e innanzitutto in sede politica, non tanto sulla specifica diagnosi del Censis, quanto sugli elementi di fondo della vita morale e materiale, sociale e culturale che quella diagnosi, esplicitamente o Implicitamente, tiene presenti o (soprattutto) ignora. Non si tratto di problemi marginali o astratti, da dottrinari o studiosi o "professori". Sono problemi concreti. Le conseguenze dell'ignorarli o sottovalutarli non si notano dall'oggi al domani, ma, quando esse si manifestano, possono riuscire addirittura dirompenti. Abbiamo dietro le spalle, in Occidente, la "contestazione" degli anni '70 e il terrorismo. Abbiamo sotto gli occhi la crisi sconvolgente dell'Est europeo.
Ci sono una classe politica, una cultura politica che vogliano e sappiano darsi pena anche di ciò?

Quando soffiano le bore del Nord

Torna il vento del Nord. Nell'immediato dopoguerra, Pietro Nenni, grande giornalista primo ancora che leader politico, coniò l'espressione per significare il respiro democratico, l'orizzonte vasto e civile che la lotta per la liberazione aveva aperto allo Stato. Oggi, il vento del Nord che sembra mettere in pericolo il sistema e che ha catalizzato, con crescente e preoccupato attenzione, l'interesse di politici' e di studiosi, è lo bora o l'insieme di bore che hanno gonfiato a dismisura le vele delle scialuppe leghiste.
Tutte le analisi sono state già fatte. E in ogni caso, la tentazione da respingere è quella di svilire il fenomeno ad espressione di protesta contingente. C'è una componente culturale del leghismo che, rozzamente contrabbandato come riscoperta del federalismo di Cattaneo, ha comunque radici vere nell'opinione delle regioni forti del Paese. E' la cultura della separatezza: un vangelo laico dell'egoismo, che, praticamente, rifiuta le strutture dello Stato unitario non solo per le carenze obiettivamente esistenti e generalmente deprecate, ma soprattutto in forza di un teorema che non esige dimostrazioni. La ricchezza resti integra dove si produce: ogni trasferimento, ottenuto con Ia leva fiscale e la redistribuzione centralizzata, è una rapina.
Dal teorema, i corollari: vogliamo la restituzione del maltolto, il Sud brucia inutilmente risorse, la malavita ne intercetta tangenti corpose, ognuno torni nel perimetri' delle proprie regioni a decidere i destini della proprio rozza.
Sarà un discorso rozzo, ma non è privo di una suo proprio livido suggestione. Ciò che va sottolineato è che l'esplosione in forme politicamente consistenti, del teorema del separatismo è stato lungamente e pervicacemente preparato, negli anni, dal grandi organi' d'informazione, dallo saggistica spicciola del' loro opinion-leaders. E' un quindicennio ormai che il Sud è presentato come terra da recintare, come palude da bonificare, come peso da scaricare. E' dall'epoca dello ristrutturazione e dello riconversione dell'apparato industriale, che dirottarono al Nord flussi enormi di risorse, che si è andato consolidando la prospettiva di un'Italia, quella al di qua del Garigliano, destinato a marcire nell'inefficienza e nell'incapacità di Sviluppo.
E' il trionfo, come dice Stefano Rodotà, della cultura del produttivismo come unica misura delle cose. Ma è anche - ha ammonito Pasquale Saraceno - una pericolosa illusione. In ogni caso, è una frattura profondo non solo tra zone forti e aree deboli, ma anche tra le regioni civili di uno sviluppo ormonico del Paese e le pretese cieche dello conservazione del privilegio particolaristico.
La questione meridionale riacquista forme vecchie d'un secolo. E riguadagna una centralità che nessuno aveva auspicato.


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