§ Cafagna e la storia d'Italia

Meridionalisti che illusione




Massimo L. Salvadori



Luciano Cafagna è uno studioso notevole sia per l'acuta "sensibilità" intellettuale sia per l'ampiezza dei riferimenti culturali. lo si vede bene anche dal suo ultimo libro, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, dove raccoglie studi, i primi dei quali datano dal 1956. Il nesso che lega questi studi è costituito dai problemi dello sviluppo economico e sociale italiano dal Risorgimento in poi e dalle riflessioni sul rapporto tra Nord e Sud.
Vi è molta Lombardia nel libro; e così analizzata da far ben risaltare la tesi che domina ed è ad un certo punto espressa in questo modo: "Nell'Italia contemporanea, nata dal moto risorgimentale, si sono sviluppati due tipi di società, obbedienti a due logiche sensibilmente diverse di evoluzione, e scarsamente comunicative tra loro". La conclusione di Cafagna è che "la caratteristica più drammatica" dello sviluppo italiano sta nel fatto che i rapporti tra Nord e Sud sono risultati privi di feconda complementarità.
A differenza di studiosi come Rosario Villari, Galasso, Villani e altri, Cafagna questi rapporti li vive intellettualmente partendo non dal Mezzogiorno, bensì dal Nord. E nel procedere per tale versante egli si è collocato dalla stessa parte in cui si era posto anche Rosario Romeo, seppure da lui differenziandosi.
Trovo che il libro di Cafagna sia uscito nel momento giusto. Perché alla vigilia dell'ingresso nella nuova Europa comunitaria degli anni '90, l'Italia unita ha più che mai bisogno (ancora una volta!) di misurarsi con le relazioni tutt'altro che ben risolte tra Nord e Sud. Cafagna sostanzialmente si oppone alla teoria, che ha avuto un ruolo essenziale nella storia del meridionalismo, secondo la quale il Nord ha costruito il proprio sviluppo sullo sfruttamento del Sud tramite anzitutto i meccanismi messi in atto dallo Stato. E sottolinea, invece, la quasi separatezza del Nord nel mettere in atto il suo sviluppo in senso moderno rispetto alla vicenda meridionale.
Cafagna non manca di mettere in evidenza come il processo storico abbia mostrato l'illusorietà delle ipotesi (e speranze) tanto di Romeo quanto dei meridionalisti "gramsciani". Secondo il primo, il Nord industrialista, una volta rafforzatosi anche grazie alla subalternità del sud, avrebbe potuto e dovuto infine allargare l'area della propria modernizzazione: al punto da riassorbire il Sud. Secondo i "gramsciani" sarebbe stato il Nord proletario a guidare la rinascita meridionale. In questo cimitero di speranze bisogna aggiungere quelle di teorici come Pasquale Saraceno, il quale, all'intervento dello Stato repubblicano ha creduto e su di esso ha puntato le sue carte.
Sono serie, e convincenti, le ragioni di Cafagna nel fare il censimento delle illusioni "meridionalistiche" cadute. E occorre ammettere che la realtà dei fatti risulta pesantemente deludente; poiché il Sud, pur avendo "isole" ampie e robuste di dinamica economica, continua per troppa parte ad essere una zona di "disgregazione" sociale prima ancora che economica.
Mi pare che Cafagna possa alimentare un'ipotesi interpretativa - della scarsa comunicatività tra Nord e Sud -, che può essere fatta valere efficacemente, entro una certo misura, per il piano delle relazioni economiche; ma non può servire per analizzare la storia complessiva delle relazioni tra le due parti: le quali hanno finito per essere invece strette, determinanti, piene di nodi. il libro di Cafagna ha rinfocolato in me i pensieri e le tematiche riversati in un libro di quasi trent'anni or sono sulla storia del meridionalismo. E devo dire che mi induce ad un bilancio che esito ad esprimere, tanto mi appare negativo.
E' sinora sostanzialmente fallita la speranza riposta da Romeo nell'industrialismo settentrionale: per molti complessi motivi, ma certamente anche perché esso non ha prodotto una classe dirigente di respiro nazionale. La speranza dei "gramsciani" a sua volta è risultata essenzialmente un mito ideologico. Il nobile "statalismo" del Saraceno si è troppo largamente rovesciato nella pratica dell'assalto al denaro pubblico. La storia del denaro pubblico nel Sud è in larga misura storia della corruzione politica e di quanto vi cresce intorno. L'idea che dall'aiuto e dal dirigismo dello Stato potessero derivare un nuovo spirito di imprenditorialità e una profonda rinascita civile del Sud è un'idea che ha più perso che vinto.
La realtà ha ingarbugliato le carte. In un certo senso si può dire che il Sud non rinnovato abbia "conquistato" lo Stato. Avendo di fronte un industrialismo settentrionale che ha sentito il problema della modernizzazione economica ma soltanto marginalmente quella della modernizzazione della società, il Sud ha operato seguendo due direttrici fondamentali. la prima è stata la "conquista" dell'amministrazione pubblica ad opera di una piccola borghesia in cerca di impiego (quella descritta in maniera classica da Salvemini), priva di professionalità e mentalità moderne, che nell'amministrazione ha immesso un costume coerente con le proprie caratteristiche (diventate poi largamente caratteristiche nazionali). La seconda, in relazione alla debolezza dello sforzo di risanamento civile e politico, è stata l'azione delle forze clientelistiche, affaristiche e criminali (anche queste dilatatesi su scala nazionale) per utilizzare in maniera distorcente le risorse immesse nel Sud dallo Stato. Ma tanto la prima quanto la seconda operazione non sarebbero state possibili senza il costante appoggio di influenti settori dei partiti, specie di governo. E oggi siamo al punto che forze della criminalità organizzata, con le loro basi principali in un Sud non "rinato", inquinano in modo preoccupante - si pensi all'allarme lanciato da Ciampi - il mondo della finanza nazionale, fanno i loro giochi con la magistratura e tutte le molte altre note cose.
Così emerge come la "separatezza" economica del Nord sia stata una delle cause essenziali per lo stabilirsi di uno scambio sociale notevolmente negativo fra le due parti dell'Italia. E vi è seriamente da chiedersi a questo punto se la definitiva integrazione economica dell'Europa negli anni '90 non finisca da un lato per stimolare il Nord d'Italia a far lega con i Paesi europei più sviluppati e dall'altro per favorire la caduta definitiva di buona parte del Sud nell'area dell'arretratezza euro-arabo-mediterranea: secondo quelli che paiono essere gli auspici di quel partito "mediterraneo" che trova da tempo fautori e interlocutori in tutti i nostri maggiori partiti ufficiali.


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