Tempi lunghi e piccole riforme




Napoleone Colajanni



Le polemiche sulla spesa pubblica nel Sud consentono di tornare su questioni che vanno ben oltre quelle della tecnica e delle procedure dell'intervento. La discussione è piena di tranelli e perciò dovrebbe essere condotta con rigore. Da una parte è lecito dire che non è con le tecniche dell'intervento che si esce dal fosso in cui si trova la politica meridionale. D'altra parte, però, le piccole riforme, se fatte con chiarezza di idee e soprattutto se portate avanti con convinzione, finiscono per Influire e contribuiscono a creare un clima nuovo. E' la vecchia contrapposizione tra patiti dei tempi lunghi e partigiani dei tempi brevi. I primi, tra i quali cerco di collocarmi, sono convinti che oggi più che mai la questione è nazionale, e che senza un cambiamento profondo nello Stato italiano non si potrà aprire una nuova prospettiva al Sud. Ma questa convinzione non dovrebbe far cadere nell'errore di disprezzare il contributo delle piccole riforme, rifugiandosi in una invocazione di cambiamenti che finirebbe per diventare velleitaria. I sostenitori della seconda linea finiscono troppe volte invece nel perdere di vista il quadro generale, sopravvalutando l'efficacia degli atti concreti, sperando di raggiungere risultati che alla prova degli eventi successivi appaiono illusori.
Il tempo delle grandi palingenesi, delle rivoluzioni meridionali, è trascorso irrimediabilmente, e l'unica azione possibile nel concreto, oggi, è attraverso le piccole riforme. Ai cambiamenti si può arrivare soltanto attraverso la somma continua dei loro effetti. Ma ciò comporta allora che le loro tecniche di intervento debbono avere una coerenza ferrea, pena la ricaduto nel tradizionale pantano della dissipazione. Per questo bisogna essere estremamente rigorosi nell'esame di queste tecniche, e, senza velleitarie contrapposizioni tra tecnica e politica, verificare la reale portata. Emergono allora i limiti gravi che ancora persistono per l'intervento straordinario, e che certo non potranno essere superati soltanto dall'impegno, per generoso che sia, di un ministro.
C'è una dispersione di risorse per il Sud che non viene solo dalla pratica clientelare. li male oscuro della pubblica amministrazione in Italia sta nella suo incapacità ad affrontare l'economia reale. Per la burocrazia tutto si riduce a procedura, a rapporti tra concetti astratti, tra poteri distinti e gelosi, anche quando questi si concretizzano in personaggi i cui uffici stanno porta a porta. Le conseguenze diventano aberranti quando si considerino la frammentazione e la sovrapposizione di questi poteri e la difficoltà di raggiungere un concerto.
Tutti concordano nel dire che le risorse debbono essere concentrate in pochi, grandi obiettivi. Usiamo come test un problema centrale, non solo di oggi, come ogni buon meridionalista sa bene: quello dell'acqua. Il ministro per il Mezzogiorno potrebbe dare una scossa all'inerzia se ponesse questa questione al primo piano delle priorità. Sarebbe un grande risultato se nel giro di dieci anni il problema dell'acqua potesse segnare apprezzabili modificazioni, e perciò in questa direzione occorrerebbe concentrare risorse e capacitò progettuale. A questo si oppongono non solo la pressione del clientes, ma anche l'arretratezza culturale della burocrazia. In questo modo si misura l'efficacia delle nuove procedure.
La legge 64 si era riproposta l'obiettivo della concentrazione, riferendosi ad azioni organiche e ad intese di programma tra varie branche dell'amministrazione. L'aggiornamento del problema triennale di sviluppo prevede per il piano annuale di attuazione 13.600 miliardi. 4.900, pari al 36% del totale, sono per agevolazioni finanziarie. 8.700 sono destinati ad azioni organiche ed al progetti strategici. Ma da questi bisogna sottrarre 3.090 miliardi, pari quasi al 25% dell'intero intervento, destinati ad oggetti Inesistenti e privi di significato come i piani regionali di sviluppo, per cui dette somme non fanno che ripetere gli interventi a pioggia. La spesa che potrebbe essere utilizzata in modo concentrato si riduce quindi a meno della metà della spesa programmabile. E qui c'è la prima dispersione. Ma i progetti strategici che hanno già l'intesa di programma sono solo due: quello per l'ambiente e quello per le università. Quello per le acque è ancora lontano. D'altra parte, Il contenuto delle intese è quanto mai generico. In quella per l'ambiente, che con l'acqua avrebbe a che fare, si parla di "interventi organici di iniziativa centrale", ma si dice contemporaneamente che gli interventi saranno "finanziati con le risorse dell'intervento ordinario e dell'intervento straordinario attraverso le procedure e le metodologie di ciascuna amministrazione interessata", e quindi le cose restano come prima. L'oggetto di tali interventi centrali copre l'universo: "riqualificazione delle risorse idriche; bonifica dei suoi[; disinquinamento, riqualificazione e salvaguardia delle coste; parchi nazionali", (art. 7 dell'intesa di programma), significano tutto e quindi nulla. La concentrazione della spesa non esiste. Quanto alle azioni organiche, quella numero 4, destinata alla "realizzazione e sviluppo della risorsa idrica" si realizza, secondo il terzo piano annuale di attuazione, in 49 proposte per complessivi 1 .088 miliardi.
Appare chiaro quindi che le azioni organiche possono legittimamente essere considerate come un semplice contenitore di disparati finanziamenti. Il finanziamento a carico dell'intervento è 208 miliardi, ed ètutto quello, salvo quanto in qualche modo dovrebbe ritrovarsi nel cosiddetti piani regionali di sviluppo, che viene destinato dal programma annuale al problema-acqua. Non mi pare perciò infondata la preoccupazione che si finisca per ripercorrere il vecchio cammino, e che le azioni organiche e le intese abbiano già fatto la fine dei progetti speciali. E converrà certo ritornare sul modo con cui si finanziano le attività produttive.
Che cosa concludere? Nessuno vuole gettare la croce addosso al ministro per il Mezzogiorno. Solo che se non comincia a prendere consistenza un'azione per la riforma dell'amministrazione, tutto sardi sempre destinato a ridursi entro gli steccati imposti dalla burocrazia.
Sarebbe troppo pensare che un ministro può dare un aiuto notevole assumendosi responsabilità e facendo battaglie in questo senso?
Nel 1989, la Lombardia ha versato allo Stato 74.985 miliardi di lire, e ne ha ricevuti 32.083; il Veneto, 20.201, contro 6.804; il Piemonte, 30.008, contro 10.313; la Toscana, 16.568, contro 7.099. Sono le regioni con le maggiori perdite nette, Per converso, la Sicilia ha versato alle casse statali 4.987 miliardi, e ne ha ricevuti 8.895; la Campania, 11.984, contro 14.952; la Calabria, 2.685, contro 3.044. La Puglia ne ha versati 7.976 e ne ha ricevuti 7.847. Il Lazio è caso a parte, coprendo da solo circa un terzo del totale generale delle entrate e delle uscite: 170.997 miliardi in direzione casse del Tesoro, 168.705 miliardi in flusso contrario. Per i dati Inps, solo in Lombardia c'è un piccolo saldo attivo (circa 260 miliardi); le altre 19 regioni sono in rosso, con particolare riferimento alle regioni meridionali (la Calabria è da primato: 590 miliardi versati, 3.593 ricevuti). Artigiani e commercianti danno alla provvidenza più di quanto ricevano (artigiani: 3.033 miliardi contro 2.523; commercianti: 2.668 contro 2.317), mentre i coltivatori diretti sprofondano nel passivo, versando 461 miliardi e ricevendone 7.944: in testa, l'Umbria, con un rapporto di 242 miliardi a 5; poi, la Calabria (262 a 6), il Molise (169 a 5), la Toscana (595 a 22) e la Valle d'Aosta (26 a 1).


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