§ Morte della questione meridionale

C'era una volta il Sud




M.C. Milo, F.Albini, A.Foresi
Collaborazione: Franco Potito, Antonio De Vitis, Elio Maria Caselli



"Ormai, una cosa è diventata ai miei occhi sempre più chiara e sempre più difficilmente confutabile: la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali". Questa affermazione Norberto Bobbio l'ha fatta il 5 maggio scorso; anzi, l'ha scritta, nell'editoriale "La democrazia a pallettoni", comparso su La Stampa e dedicato ai morti ammazzati per mano camorrista o mafiosa alla vigilia delle elezioni amministrative. Ed è suonato come una campana a morto per il movimento politico e culturale nato oltre un secolo fa sulla base di una tesi esattamente opposta: la questione meridionale è innanzitutto una questione nazionale.
La disgregazione del tessuto democratico, la delinquenza mafiosa e comune hanno scavato un abisso tale da vanificare ogni politica di solidarietà? Continuare a misurare i guasti del Sud sulla base delle responsabilità della gente del Nord non è diventato un alibi per la società meridionale? Ecco gli interrogativi che ha sollevato la dichiarazione di Bobbio.
Aveva scritto Cavour, alla vigilia dell'unità d'Italia: "L'Italia del Nord è fatta, non ci sono più né Lombardi né Piemontesi, né Toscani né Romagnoli: noi siamo tutti Italiani,- ma ci sono ancora i Napoletani". Garibaldi aveva appena consegnato a Vittorio Emanuele le Due Sicilie e già la questione meridionale si insinuava come una malattia congenita nel corpo della neonata nazione. Fin dal primo giorno convissero due ltalie, un Nord avviato allo sviluppo industriale e un Sud oppresso dal feudalesimo agrario e vessato dalla burocrazia "piemontese". le interpretazioni della frattura si stabilizzarono nei decenni fra le celebrazioni unitarie e la fine del secolo, ponendo le basi di una polemica che produrrà sia una cultura di altissimo livello sia le aberrazioni delle scritte murali "Forza Etna!".
Era il 1861. Allievo di De Sanctis, lo storico napoletano Pasquale Villari iniziò quelle "Lettere meridionali", poi raccolte in volume (nel 1875), che sono unanimemente considerate l'atto di nascita del meridionalismo, cioè del movimento d'opinione e di cultura politico-economica che vedeva nella questione meridionale una grande questione nazionale. "Finché dura lo stato presente di cose - scriveva Villari - la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte". E a proposito del brigantaggio: "Esso certamente può dirsi la conseguenza d'una questione agraria e sociale che travaglia quasi tutte le province meridionali". La tesi di Villari: i "forti" si assumano il patrocinio dei deboli. Vale a dire: il Nord trasferisca risorse a Sud. E' l'embrione della politica per lo sviluppo produttivo delle aree meridionali, che nei secondo dopoguerra ha avuto l'interprete più autorevole in Pasquale Saraceno.
Al meridionalismo liberale di Villari fa eco quello radicale di Giustino Fortunato, grande testimone della miseria dei contadini meridionali e dell'ingiustizia che rappresenta: "Qui si parla spesso e dovunque di democrazia, ma il più grande equivoco regna sul riguardo. Democrazia sì, ma nel significato spartano: democrazia per gli uomini, non per gli iloti; e qui gli iloti sono appunto i contadini". L'analisi di Fortunato ispirerà il meridionalismo della Sinistra italiana, dai "Quaderni" di Gramsci all'autunno caldo: il Sud sfruttato dal Nord capitalista. "I milioni dati in premio a un gran numero di fabbriche e di cantieri dell'alta Italia sono estorti, nella massima parte, alle povere moltitudini del Mezzogiorno". Leggeremo fra le righe cose analoghe nei nostri anni '80, in giorni di ristrutturazioni e di riconversioni industriali nell'"alta Italia".
Nello scontro di un secolo fa si ritrovano anche i prodromi della polemica razzista. Citiamo per tutti il criminologo (siciliano!) Alfredo Niceforo, per il quale l'arretratezza del Sud era dovuta alla "qualità, per così dire cristallizzabile, della razza che popolò quei paesi, razza assolutamente priva di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza sociale". Ma non c'era bisogno delle idiozie della scuola positivista per giungere a questo: i pregiudizi erano esplosi a poche ore dall'incontro sul ponte di Teano. E si sarebbero radicati nella contrapposizione tra la legge e l'ordine portati dalle baionette dei bersaglieri e la fame e la ribellione dei "briganti", poi sfociate in un genocidio che non ha mai avuto un suo "Spoon River". Nel nostro secolo verranno Salvemini, Ciccotti, De Viti De Marco, Colajanni, Gramsci, Dorso, Di Vittorio, Zanotti Bianco, Levi, Dolci, Rossi Doria, Compagna... Molte cose cambieranno. Nascerà il Sud "a pelle di leopardo"; sul territorio abbandonato dallo Stato prenderanno piede i tentacoli delle piovre. Ma un ammonimento rivolto ai "nordisti" dal moderato Pasquale Villari continuerò a suonare sinistramente profetico: "Non avete più scampo; o voi riuscirete a rendere noi civili, o noi riusciremo a rendere barbari voi".
Dice l'antropologo calabrese Luigi Lombardi Satriani: "Io credo che non si possa sostenere che il meridionalismo classico abbia fatto il suo tempo. Se significa che risolvere i problemi del Sud spetta innanzitutto a chi da anni vive in queste condizioni terribili, questo è giusto. Se significa che si deve uscire dal paternalismo, sono d'accordo. Ma se si tratta da parte dei settentrionali di chiamarsi fuori dalle responsabilità, è una posizione che nega lo sviluppo storico della società italiana. Perché la realtà meridionale è stata resa così per un processo in cui il Nord, innanzitutto Torino, ha grandi responsabilità".
E Vincenzo Consolo, scrittore siciliano: "Capisco il senatore Bobbio. Più di vent'anni fa, presi un treno per trasferirmi da Palermo a Milano. Ma non posso condividere la sua affermazione. Essere meridionalista, vale a dire conoscere gli annosi problemi che affliggono la parte meridionale dell'Italia e contribuire a risolverli, ciascuno secondo il proprio ruolo e col proprio lavoro, questo credo sia dovere di ogni cittadino, meridionale o settentrionale che sia". E aggiunge: "Quando negli anni '50 conobbi a Partinico il triestino Danilo Dolci e vidi sulla parete del suo ufficio una lettera minatoria con su disegnata una pistola dalla cui bocca veniva fuori un rosario di pallottole; quando vidi, una notte del gennaio '69, per il primo anniversario del terremoto del Belice, tra le macerie di Gibellina, Carlo Levi arringare i contadini e rivolgere loro parole di conforto e di speranza; quando vidi in Sicilia tantissimi altri intellettuali del Nord attivamente operare, pensavo che essi fossero doverosamente e naturalmente meridionalisti, cioè cittadini di questo Paese; e poi, se si vuole, anche persone generose".
Il dibattito meridionalista ha registrato un appannamento nell'ultimo quindicennio e la stessa questione meridionale non è più da tempo un tema all'ordine del giorno. Non ne parlano più né politici né sindacalisti. la stessa questione, poi, è diventata un problema così complesso che non si riesce ad ingabbiarlo in uno schema e non si presta più alle semplificazioni ideologiche. Se era uno specchio deformante delle contraddizioni del nostro sviluppo, questo specchio oggi si è rotto in mille frammenti, ciascuno dei quali riflette un pezzo diverso di realtà.
La massa di miliardi andata al Sud ha potuto cancellare in gran parte la miseria materiale, anche se il reddito pro capite è pari al 60-65 per cento di quello medio del Paese. Ma le distorsioni politiche e culturali dell'intervento straordinario hanno prodotto forse danni maggiori dei benefici. Sotto il suo effetto, fra Il altro, sono esplosi gli squilibri interni: Puglia e Calabria sono fra loro assai più lontane di Puglia e Lombardia. Se la conurbazione di Napoli fa il paio con quella di Reggio, l'Irpinia post-terremoto si modella invece su Marche e Veneto. Ma il cartello del crimine e il clientelismo politico continuano a restare cardini delle società meridionali.
Il frutto più duraturo del meridionalismo è certamente la polemica con lo Stato, anzi la polemica sull'essenza dello Stato: si è trattato di uno snodo rilevante. Poi, ha scritto Bobbio, la situazione è radicalmente cambiata in seguito "alla progressiva meridionalizzazione della classe politica": cioè, sempre meno lo Stato è rappresentato da amministratori del Nord. Accusa Bobbio: "Non si capisce perché spesso la gente del Sud interpellata alla televisione continui a dare la colpa allo Stato, quando questo maledetto Stato è sempre più governato da uomini del Mezzogiorno". Bobbio non si chiede perché la gente del Nord non ha mai avuto voglia di fare i concorsi per la pubblica amministrazione; perché ha sempre disertato gli uffici statali; perché può dare la croce addosso alla burocrazia meridionale e persino rimpiangere quella austro-ungarica, ma non può fare altrettanto con una burocrazia lombarda di respiro nazionale o europeo, visto che quel respiro, al più, lo ha avuto locale. Allora, che cos'è meglio: che i meridionali facciano da sé, o che i settentrionali comincino a fare meno degli altri? Una cosa e l'altra, senza dubbio: ma in un concerto nazionale, che escluda l'assistenzialismo clientelare come regime o sistema per il Sud. ma anche l'assistenziaIismo bancario, postale, finanziario come regime o sistema per il Nord.
"Preoccupato dai bassi corsi dei titoli italiani alla Borsa di Parigi, il presidente del Consiglio Francesco Crispi chiese aiuto alla Germania per il tramite di Bismarck, il quale si rivolse ai suoi banchieri. Ci fu un contatto nell'aprile e inizialmente l'assistenza consistette nell'acquisto da parte dei tedeschi di titoli italiani a Parigi. Il ruolo centrale fu svolto da Bleichroeder, il banchiere personale di Bismarck, in base a considerazioni più politiche che economiche. Fu il preludio alla formazione di nuove banche, a cominciare dalla Banca Commerciale da parte di un consorzio di istituti tedeschi e svizzeri e dalla Creditanstalt austriaca". Correva l'anno 1889, racconta Charles Kindleberger, uno dei maggiori storici dell'economia. Adesso che il debito pubblico è diventato il problema economico numero uno, questa pagina del nostro passato può insegnarci qualcosa, anche sotto il profilo del mancato sviluppo del Sud.
Le differenze, certamente, sono profonde. la "Rendita" (così si chiamava) era collocata soprattutto all'estero, sui mercati finanziari di Parigi e di Londra. Oggi, invece, è per il 63 per cento in mano a famiglie italiane che non pensano di speculare contro lo Stato. Ma i pericoli non sono affatto minori. Allora il debito non era arrivato a superare l'intero prodotto nazionale lordo, né l'Italia aveva raggiunto il poco invidiabile primato di maggior debitore tra i Paesi industrializzati, superando persino gli Stati Uniti. Siamo il Re Nudo d'Europa, e d'Occidente. E Bismarck non c'è più.
C'è, almeno, un Quintino Sella? Il problema. dice Andreatta, è "chiudere la casa di tolleranza della finanza pubblica". Ma basterà questo? Pare di no. Il Tesoro prevede di ridurre dall'attuale 11% al 7,4% del prodotto interno lordo il fabbisogno di cassa (cioè il buco che si determina sottraendo le spese realmente effettuate alle entrate erariali). Un risparmio non da poco: da 35 a 40 mila miliardi. Nonostante ciò, il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo sale dal 100% al 103,6%. L'iperbolica cifra di un milione di miliardi sarà ampiamente superata. Dunque, il debito non si ferma, neanche se si realizzerà lo scenario virtuoso dipinto dal governo: una crescita stabile superiore al 3% e un'inflazione in discesa al 3,5%. Condizioni tutt'altro che scontate. L'ultimo Rapporto Prometeia prevede che i prezzi difficilmente scenderanno sotto il 5,6%; e un calcolo più realistico fa collocare il fabbisogno del Tesoro a 140 mila miliardi quest'anno, invece del 133 mila programmati, e a 150 mila nei 1991: in sostanza, gli analisti bolognesi sono più d'accordo con il Fondo monetario che con il governo.
Per venir fuori dal baratro, si avanzano tutte le ipotesi: stringere i cordoni della borsa; far ricorso ad altre misure impositive. Oppure, vendere i gioielli di famiglia, come fanno le aziende quando debbono abbattere i loro debiti: lo Stato ha un patrimonio immobiliare immenso e del tutto sottoutilizzato, al quale vanno aggiunti i pacchetti azionari delle banche e delle imprese a partecipazione statale; ma si potrebbe arrivare all'Enel, alle Poste, alle Ferrovie, una volta trasformate in SpA. Oppure, ancora, emettere warrant scambiabili con titoli di Stato, grazie ai quali il risparmiatore otterrebbe il diritto di opzione sulle imprese pubbliche, una volta che fossero realmente immesse sul mercato. Ipotesi, dicevamo. Difficilmente percorribili, perché gli interessi politici degli stessi partiti al governo sono contrapposti. E nessuno avanza il progetto più rivoluzionario: spezzare la spirale fra assistenzialismo e inefficienza, e puntare simultaneamente al risanamento del bilancio dello Stato.
Strane cose accadono nel nostro Paese. Ad esempio: lo stesso giorno in cui il vertice dei partiti di maggioranza dava via libera alla manovra finanziaria per il 1990, in un clima di ritrovata concordia e quasi di euforico ottimismo, il presidente del Consiglio rispondeva alla Camera a interpellanze e interrogazioni sulla situazione di degrado economico e morale del Sud. Grande risalto e attenzione per la cosiddetta "manovra"; disinteresse pressoché generalizzato per il dibattito sul Mezzogiorno. Eppure, tutti sanno qual è il nodo irrisolto della società italiana. Ma si preferisce parlar d'altro, quasi per esorcizzare il problema. Dei Sud si devono occupare i meridionalisti, il ministero per il Mezzogiorno e le rispettive agenzie, lasciando in pace il resto della società italiana. Ma la posta in gioco è troppo importante per lasciarla agli interventi straordinari. Con gli interventi straordinari si incrementa solo la "diversità" del Sud, in un intreccio inespugnabile di bisogni, affari, gruppi di potere, delinquenza organizzata. Chi è senza peccato - partiti, grandi imprese, burocrazie del Sud e del Nord - scagli la prima pietra.
Cominciamo col ricordare alcune evidenze. Prima: gli squilibri Nord-Sud non sono in grado di originare dinamiche di mercato compensative. I meccanismi sui differenziali di produttività (alla Lewis) sono bloccati. Un solo esempio: nonostante l'eccesso di domanda di lavoro al Nord e il parallelo eccesso di offerta al Sud, non si registrano negli anni '80 fenomeni migratori interni di qualche rilievo. Si è stabilizzato un mismatch crescente quali-quantitativo, sostenuto dalle politiche assistenziali e dai redditi sommersi. Seconda: nonostante l'enorme travaso di spesa pubblica straordinaria, nel Sud si continua a vivere e a produrre male. Certo, non in maniera uniforme ed omogenea. Ma la logica dei trasferimenti inutili è penetrata perversamente dappertutto, aumentando le disuguaglianze e spiazzando gli spiriti imprenditoriali. Terza: anche la spesa pubblica ordinaria è di gran lunga meno efficiente al Sud che nel resto del Paese. A parità di finanza derivata ordinaria, il cittadino del Sud ha meno servizi e di minor qualità. Quarta: al Sud si consuma più di quanto si produce. In termini di bilancio commerciale dell'area si evidenzia un disavanzo che dal 1951 ad oggi è compreso tra il 15 e il 25% del prodotto lordo; in cifra assoluta, siamo nell'ordine di 50 mila miliardi nel 1987 (ultimo dato consolidato disponibile). Tale disavanzo è in larga misura coperto da risorse finanziarie indirizzate nell'area a titolo di trasferimenti. Questo perverso equilibrio porta a far sì che una parte dei trasferimenti ritorni nel resto del Paese sotto forma di domanda; che i livelli dei consumi siano non tanto distanti da quelli del Centro-Nord; e che l'intensità di accumulazione per unità di valore aggiunto sia più elevata che nelle altre regioni, come ha lucidamente chiarito l'ultima relazione del governatore della Banca d'Italia. Quinta ed ultima: negli ultimi anni, i divari di produttività nell'industria hanno continuato ad accentuarsi. Nel Sud il valore aggiunto per occupato è oggi inferiore di circa 20 punti rispetto al Centro-Nord, nonostante la maggiore intensità di accumulazione. Ne deriva che i problemi dell'area non sono (più) legati ai volumi delle risorse disponibili, ma soprattutto all'efficienza dei processi produttivi, pubblici e privati. Queste evidenze empiriche non sono altro che le basi del "compromesso meridionale" che ha mantenuto sin qui con buona pace di tutti l'equilibrio duale tra un Nord sviluppato e un Sud assistito. Il modello, nella sua perversità, è in qualche maniera efficiente: il Nord, in fondo, non ci rimette molto; mentre la borghesia "compradora" del Sud, con reddito disponibile crescente, prospera, e insieme con essa gran parte della classe politica meridionale. I costi del modello sono sopportati dal mare magnum del debito (Sud compreso) e - socialmente - dalle popolazioni marginali e ancora purtroppo silenziose delle aree meridionali. Lo Stato resta il bersaglio di molta pubblicistica meridionale, anche se è fin troppo evidente che il degrado dei centri urbani, l'inquinamento, il mediocre livello dei servizi ospedalieri, dell'assistenza e delle scuole sono in gran parte attribuibili ai governi locali.
Ogni incremento di spesa pubblica straordinaria di volta in volta deciso dal Parlamento finisce col rafforzare questo modello perverso e le stesse oligarchie politiche, imprenditoriali e affaristiche, che dal "compromesso meridionale" traggono consenso, potere e impunità. Occorre dunque rompere in qualche punto il circuito vizioso. In passato si è fatto ricorso al cosiddetto "capitale fisso sociale" (infrastrutture, strade, grandi opere); poi si è cercato di localizzare nel Mezzogiorno grandi realtà produttive (col sospetto che di esse volesse liberarsi il Nord: impianti siderurgici e petrolchimici in particolare). Che fare, oggi? Esattamente il contrario di quanto previsto dal "compromesso meridionale". Al Sud non mancano le risorse finanziarie, ma quelle umane qualificate: la spesa pubblica (anche straordinaria, o soprattutto questa, se ancora ci sarò) nel medio periodo va indirizzata alla formazione del capitale umano locale, evitando nello stesso tempo che quello qualificato se ne vada, e all'importazione - opportunamente incentivata - di quadri specializzati. Questo investimento in capitale umano dev'essere finalizzato al miglioramento dell'efficienza del sistema economico-sociale meridionale: qualità-quantità dei prodotti e dei servizi, manutenzione urbana e ambientale, legalità, qualità-quantità delle classi dirigenti, e via dicendo. Nel breve periodo si deve incentivare il processo di mobilità (anche Nord-Sud). Ogni politica per il Sud va programmata e gestita con criteri privatistici, coinvolgendo il meglio delle strutture accademiche, produttive e formative esistenti in Italia, e non solo in Italia. Queste sono le autentiche pre-condizioni perché investimenti produttivi, italiani ed europei, si possano localizzare nelle aree meridionali, seguendo le logiche (quelle più sane e creative) del mercato (organizzazione sociale adeguata, capitale umano formato, costo del lavoro per unità di prodotto competitivo), senza bisogno di tradizionali incentivi sul capitale, che fino ad oggi hanno prodotto scarsi risultati. Per questa strada ci si avvierebbe anche verso la soluzione del problema del l'occupazione, come conseguenza del rinnovamento indotto dal mercato e non come artificiale premessa drogata della logica degli incentivi e dei trasferimenti. E' stato calcolato che un travaso di occasioni di lavoro dal Nord al Sud di circa 1,5 milioni di unità appare attuabile nell'arco di un decennio, riallocando rispettivamente il 5% e il 20% del ricambio dello stock di capitale delle produzioni metalmeccaniche e delle attività manifatturiere attualmente localizzate in un Nord sovraffollato, senza modificare in nulla i fattori allocativi delle nuove attività tra regioni, e lasciando inalterato il tendenziale riequilibrio territoriale delle produttività settoriali, in una sorta di internazionalizzazione delle imprese del Nord (non solo italiano) nelle aree del Mezzogiorno. Così la questione meridionale si avvierebbe finalmente a soluzione, buttando a mare le inutili strategie sprecone, apparentemente progressiste, ma di fatto funzionali solo agli egoistici equilibri dei soliti basilischi. E ci sarebbe, come i meridionali più intelligenti vogliono assai più dei settentrionali, un Sud senza compromessi.

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