§ Rapporto Unioncamere 1990

Ma le questioni ora sono quattro




Nello Wrona



Altro che dualismo Nord-Sud e questione meridionale. le Italie, da luglio, sono quattro, economicamente distanti, reciprocamente impermeabili, con vore e forre incolmabili, e devianze sociali da casbah mediterranea. L'Italia si fa in quattro, e lo smembramento è stato puntualmente registrato dall'Unioncamere e dall'Istituto Guglielmo Tagliacarne in un rapporto denso di cifre, dove non mancano le sorprese e le contraddizioni di un Paese che stenta a legittimare il proprio cambiamento.
La prima Italia marcia decisamente e fortemente verso il Nord del Nord: Milano, Cremona, Mantova, Brescia, Pavia, Bergamo, Corno sono le punte avanzate della penetrazione in Europa, con redditi pro-capite superiori ai venti milioni (24 milioni per la città meneghina) e con un processo massiccio di de-industrializzazione che non ha eguali nel Vecchio Continente. Sulla scia della Lombardia, il Piemonte, la Liguria - ma in surplace - e l'Emilia Romagna, regione cuscinetto tra il boom economico (ma ormai pregresso) della dorsale adriatica e l'accelerazione del terziario avanzato, modello anni Novanta, del triangolo finanziario Nord-Occidentale.
La seconda Italia guarda inevitabilmente ad Est. Trieste, Gorizia, Treviso, Pordenone, Udine, in maniera e con impulsi diversi, sono ormai nell'orbita danubiana e balcanica. Crollati i muri, il Piave e l'Isonzo da monumenti nazionali all'inviolabilità del territorio si sono trasformati in camere di compensazione, canali naturali per il traffico commerciale da e con gli ancora inesplorati mercati della cortina di ferro: Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia. Trieste come Amburgo, nuova città anseatica al di sotto dell'invalicabile e fatidico 46° parallelo, con un asse preferenziale (tariffario e doganale) Rostock-Gorizia, e con Trieste centro direzionale al posto di Vienna. la ricchezza, nell'Est italiano, segue proprio questi sbocchi naturali, quasi obbligati, e si concentra laddove più rapidamente avvengono i processi di internazionalizzazione delle imprese. Il 1993 potrebbe già realizzare il sogno di Strauss: Trieste porto fisiologico della Baviera per lo scambio commerciale con Paesi orientali e con il Giappone.
La terza Italia non si discosta sostanzialmente dalla linea adriatica dello sviluppo che, nei primi anni Ottanta, coagulò da Pescara a Bari i cespugli e le macchie della pelle di leopardo. Ascoli Piceno, Terni, Teramo, Pescara, Termoli, Bari, Brindisi. Le medie e piccole imprese non sono decollate, non hanno creato indotto, hanno espulso forze attive, sottratte all'agricoltura, per affrontare una concorrenza basata soprattutto sulla tecnologia applicata, sulla riconversione delle strutture, sulla specializzazione della manodopera. Erano i comuni "canguro" del Censis, oggi sono i postulati di una crescita bloccata.
La strozzatura ha coinvolto anche le cinque province pugliesi. Bari, città mercantile e vagamente tecnocratica, è al settantesimo posto nella classifica del reddito pro-capite (con un gap del 53,77% rispetto a Milano); Foggia, al settantaseiesimo (49,62%); Brindisi, all'ottantatreesimo (47,85%); Lecce, all'ottantanovesimo (44%, con la perdita di quattro posizioni rispetto al 1980). Perde una posizione anche Taranto (55,44%), proprio quando Ilva, governo e sindacati tentano una difficile mediazione per evitare l'abbattimento di centinaia di unità lavorative. Classifiche opinabili, certo. Non tengono conto, per esempio, del sommerso, dei subappalti, dei traffici illeciti, delle truffe organizzate alla Cee, ma aprono circostanziati interrogativi. Uno su tutti: che strada percorrerò lo sviluppo pugliese, ora che chimica e siderurgia non sono più settori protetti e intoccabili? E ancora: che prezzo aggiunto si dovrò pagare - al territorio, alla società, alla memoria storica - se quarant'anni di ciminiere hanno lasciato in eredità a Brindisi e a Taranto solo una dichiarazione governativa di aree ad elevato rischio ambientale?
la quarta Italia ha l'Appennino e l'Aspromonte nel cuore. Napoli, Salerno, Avellino, Cosenza, Reggio Calabria, Palermo, Catania, Messina, Agrigento, Cagliari, Nuoro... Sono le ultimissime città di un Paese pietrificato e cieco al futuro. Non hanno e non subiscono i poli d'attrazione, non hanno orbite e nemmeno satelliti. Sono il nadir dello zenith europeo, telematico e postindustriale. Delle 35 province che chiudono la classifica Unioncamere, ben 22 appartengono al triangolo della mafia, della camorra e della 'ndrangheta. Che sono fonti di ricchezza alternativa e sostitutiva. La coincidenza non è, in questo caso, opinabile. Opinabili, semmai, sono le proposte avanzate per rilanciare questa sacca di Mezzogiorno che sembra produrre solo emorragie di sangue. Ultima proposta, avanzata da un ministro meridionale, Misasi: un rifinanziamento del Sud, possibilmente attraverso un massiccio prestito internazionale. Come se non ci fossero ancora 60.000 mila miliardi da investire. E, peggio ancora, come se la guerra fosse finita ieri.


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