§ Le due Italie

Ritratto in nero




Aldo Bello



Quando il presidente della Camera, Nilde Iotti, commentando i risultati elettorali di maggio, conclude senza giri di parole che ormai è in discussione l'unità reale della nazione, coglie nel segno e dice a voce alta ciò che molti uomini politici si limitano solo a sussurrare. Ma nel momento in cui sostiene che alla crisi del sistema politico italiano si deve rispondere con la "realizzazione di un vero Stato regionale e delle autonomie", avanza una proposta che accelera quella disgregazione del Paese. A una diagnosi precisa corrisponde una cura che rischia di aggravare il male.
Commetteremmo un errore se, al di là delle beceraggini verbali colte in chi le ha votate, credessimo che all'origine delle Leghe ci sia il desiderio di affermare l'identità storica delle singole Regioni del Nord. La Lombardia non è la Slovenia, né ha verso il Lazio o la Campania i sentimenti di separatezza culturale che i cittadini di Lubiana provano per quelli di Belgrado. La Lombardia non chiede "autonomia" per essere "se stessa" (tentazione cui si lascia andare il Veneto: regione ad economia industriale, ma ancora di sostanziale cultura contadina) come i baschi in Spagna, gli irlandesi nell'Ulster o il Giura quando si batté per staccarsi dal Cantone di Berna. La chiede semplicemente per due motivi: perché è stanca di essere amministrata male dal governo centrale, e perché è stanca di pagare sprechi e inefficienze del Sud.
Di fronte a noi, due strade possibili. Possiamo dare una risposta reale al voto delle Leghe dimostrando che lo Stato è in grado di spendere con efficienza ed efficacia, al Nord e al Sud; o possiamo favorire la richiesta autonomistica delle Leghe per fare, come ha sostenuto la Iotti, "un vero Stato regionale". Difficile dire se la prima soluzione sia possibile, perché non si è ancora dato nella storia il caso di un sistema politico che commetta suicidio senza esservi costretto. Per rendere l'Italia pulita ed efficiente, i partiti dovrebbero tornare alle loro funzioni originarie e smetterla di amministrare potere. Ma anch'essi, come il partito comunista dell'Unione Sovietica, probabilmente scoprirebbero che sotto e dietro la cortina delle idee e dei progetti c'è solo ciò che si chiamava in Francia, al tempo della Terza Repubblica, "il traffico delle influenze", cioè il commercio dei voti e dei favori.
Non siamo in grado di appurare, quindi, se questa strada sia percorribile. Ma sappiamo che cosa accadrebbe se imboccassimo la seconda. dando alle Regioni italiane la maggiore autonomia che le Leghe pretendono. In primo luogo, dovremmo naturalmente conceder loro il diritto di usare il proprio denaro, cioè di levare imposte e di spendere in casa il gettito dei propri contribuenti. Vi è ancora qualcuno, in Italia, dopo quanto accade sotto i nostri occhi da almeno dieci anni, che possa nutrire dubbi sui risultati di una simile riforma? Il Nord godrebbe forse di una migliore amministrazione, ma il Sud diverrebbe ancora più povero, disperato e corrotto di quanto non sia. Avremmo, ancor più di quanto non si verifichi oggi, due Italie destinate a diventare col passare del tempo sempre più remote, estranee, ostili.
La classe politica italiana ha un vecchio vizio. Chiude gli occhi e nega l'esistenza di un problema fino al giorno in cui quel problema le viene posto in termini ultimativi. Ma quando si decide ad aprirli, si limita a cercare un compromesso, senza attaccare alle radici il male di cui dovrebbe occuparsi. E' accaduto con i Cobas, sta accadendo con le leghe. Si sente dire in giro, da qualche tempo, che è ora di farla finita con lo Stato prefettizio. Chi ha un minimo di dimestichezza con l'amministrazione italiana sa bene che lo Stato prefettizio è finito da un pezzo. Il vero problema, semmai, è quello di restituire ai prefetti qualche potere perduto, per renderli più efficaci e autorevoli nel quadro di una riforma diretta a restaurare lo Stato, non a pregiudicare una volta per sempre circa un secolo e mezzo di storia nazionale.
Ora, l'intera classe politica, anche se con diversità d'accenti, si dice convinta che così non può andare avanti. Almeno a parole, le riforme istituzionali sono al primo punto dell'ordine del giorno. Ma è lecito chiedere: riforme istituzionali per fare che cosa? Nessuno risponde sull'argomento, e si capisce perché. Si tratterebbe di definire modi, tempi e contenuti di una strategia di ricostruzione dello Stato e, di conseguenza, di reimpostare il "contratto" fra cittadini e Stato, oggi manifestamente in frantumi. Ma mettere a punto una strategia del genere è difficile, e forse impossibile, per tutti i maggiori partiti, di governo e di opposizione, perché ciò potrebbe mettere in discussione il loro rapporto con le rispettive clientele elettorali.
Proviamo a identificarne alcuni contenuti. Ciò a cui assistiamo oggi è il logoramento di un patto sociale, sul quale la Repubblica ha fondato il consenso per un quarantennio e che ha prodotto alla fine il dissesto dello Stato. A causa dei conseguenti effetti negativi, quel patto sociale non è più considerato remunerativo da gruppi crescenti di elettori, i quali quindi continuano a defezionare in quantità crescente.
Le tre aree cruciali e fra loro strettamente collegate sono quelle del fisco, dei servizi pubblici e del Mezzogiorno. Prendiamo il caso dell'evasione fiscale. Chi lo affronta con spirito di crociata mette forse a posto la coscienza ma non vede, o fa finta di non vedere, i veri termini del problema. Il consenso intorno alle istituzioni repubblicane venne costruito anche in forza di un patto tacito (e inconfessabile) da cui tanto il lavoro autonomo quanto il lavoro dipendente pubblico avevano da guadagnare. Al primo veniva applicato formalmente un livello elevato di tassazione, ma, in compenso, si garantiva di fatto un diritto all'evasione.
Al secondo, in cambio, si garantivano assunzioni svincolate da esigenze di servizio, il posto a vita e il diritto all'inefficienza produttiva (non è forse anche così, in realtà, che è stata affrontata la questione meridionale?). Ancora oggi, d'altra parte, si assiste alla sceneggiata di una politica fiscale che, non sapendo, o non volendo, o non potendo più varare un generale progetto moderno di prelievo, fa slalom fra microscopiche gabelle, con misure atte a tappare i buchi e non volte ad affrontare il problema del risanamento del bilancio pubblico e dell'efficienza dei servizi. Così, un Paese che in quarant'anni ha quadruplicato il proprio reddito tassa persino le acque cosiddette minerali, quando i libri di testo dell'economia ritenevano l'acqua un elemento del quale parlare solo per il "paradosso del valore": uguale a zero, perché non bene di consumo, e meno che mai bene di consumo di lusso. Gli alibi morali che l'evasione ha sempre potuto far valere di fronte a se stesso erano due: tasse troppo alte e servizi pubblici da Terzo Mondo.
Se così è, combattere efficacemente l'evasione fiscale (e quindi dichiarare superato quel patto con il lavoro autonomo) è possibile solo agendo simultaneamente su tutti i fronti. Perché è chiaro che nessun nuovo patto sociale può essere stabilito se chi paga fino in fondo le tasse non ottiene in cambio servizi pubblici all'altezza.
Occorrono dunque piani - di cui finora non si vede traccia - di bonifica della finanza pubblica, necessari per ridurre i livelli di tassazione; e lotta senza quartiere, oltre che all'evasione fiscale, anche all'"evasione da lavoro" nel settore pubblico. Nel quale, prima o poi, dovranno essere ristabiliti due principi: quello secondo cui le decisioni in materia di risanamento e di riorganizzazione dei servizi spettano, in regime di liberaldemocrazia, al governo, con conseguente eliminazione dell'attuale "potere di veto" sindacale; e quello secondo cui il licenziamento del personale improduttivo, dalle ferrovie alle poste e a tutto il resto, è necessario non solo per ragioni economiche e di efficienza, ma, prima ancora, per ridare alle istituzioni repubblicane, e di riflesso alla classe politica, un'autorevolezza morale che oggi senza dubbio non possiedono.
Tutto ciò si intreccia, ovviamente, con la questione meridionale. Il Sud rischia di essere. fra non molto, l'unico caso di "socialismo reale" (con tanto di mafie uzbeke e georgiane) ancora presente in Europa. Se si vuole, valgono per il Sud le analisi sui "circoli viziosi del sottosviluppo" registrati in tanti Paesi del Terzo Mondo e in particolare dell'America Latina. Il problema del Sud - con tutti i riflessi su finanza e servizi pubblici - è come fare a imporvi il passaggio da una stagnante economia assistita all'economia di mercato. Ciò di cui il Sud ha bisogno è l'esatto contrario dei sessantamila miliardi l'anno. E' invece una politica, non diremo "alla Thatcher". ma, fatte le debite proporzioni, alla Mazowiecki, l'attuale premier polacco: un programma di "lacrime e sangue", di colpi di piccone contro l'economia assistita. Dopo una prima fase di crisi senz'altro molto dura, (e che forse rimetterebbe in moto nuove ondate migratorie), una simile cura potrebbe favorire, in capo a pochi anni, uno spettacolare decollo economico del Sud.
Chi replica che questa è solo ingenua fiducia nelle virtù benefiche del mercato e della sua "mano invisibile" nulla sa degli ultimi quattro secoli di storia economica occidentale. Soprattutto, rivela di essere afflitto da prevenzioni, queste sì razziste, nei confronti delle culture meridionali. L'economici di mercato ha dimostrato di essere capace di adattarsi alle più svariate tradizioni culturali. Non è un problema di cultura, ma di meccanismi incentivanti lo sviluppo (i quali sono spesso in grado di modificare gli stessi atteggiamenti culturali). Naturalmente, ripetiamo, occorrerebbe un Mazowiecki. Mentre per ora, si tratti di Sud. di fisco, o di servizi pubblici, da qualsiasi parte ci si giri, si vedono soltanto dei piccoli Peron.
Uno studio della Business International ha avuto il merito di mettere nero su bianco quello che nessun politico e pochissimi economisti hanno avuto il coraggio di dire: esiste un fattore M che impedisce lo sviluppo del Sud. "M", naturalmente, sta per Mafia, in senso lato, e ha un potente effetto disuasivo su tutte le multinazionali straniere, oltre che su moltissime società italiane, che considerano la possibilità di investire nell'Italia meridionale. Di fatto, se si escludono l'Abruzzo e il Basso Lazio, che non fanno parte del Sud vero e proprio, gli investimenti esteri nell'Italia meridionale negli ultimi anni sono stati pressoché inesistenti. L'immagine disastrosa del Sud travolge anche antiche aree sane, come quelle pugliesi, lucane e molisane.
Col perenne stillicidio dei delitti, col blocco di fatto di opere pubbliche che non siano gestite col sistema dei subappalti, il fattore M ha avuto sulla società meridionale un'influenza nefasta e di dimensioni probabilmente sottovalutate; se lo sviluppo è in qualche modo proseguito in senso quantitativo, appare tuttavia inceppato sotto il profilo qualitativo. Gli indicatori sociali che più contano, quelli relativi a consumi più elevati, da terziario avanzato, e alle attrezzature relative, mostrano quasi ovunque nel Sud un impressionante degrado. In questo senso, è probabile che l'Italia non sia mai stata così spaccata come in questi ultimi anni. I divari si allargano la dove più contano. E c'è il rischio, forse remoto ma certamente reale, che essi compromettano l'unità politica di un Paese che già sente e sempre più avvertirà l'attrazione dell'"onda di piena" nascente dal processo di unificazione europea. Cioè: nel momento in cui il ritardo del Sud fosse avvertito come un peso eccessivo e un freno insopportabile allo stare in Europa con pari dignità; quando, come è avvenuto di recente in Grecia, la Commissione Europea dovesse chiarire che certi comportamenti non sono compatibili con la partecipazione alla Comunità, è facile prevederlo, una tensione violentissima si creerebbe fra le due parti del Paese. Per questo è lecito pensare l'impensabile, fino a porsi una domanda che sa persino di lesa maestà: sopravviverà l'Italia fino al 2010?
Nel 1882, Filippo Turati pubblicò un libro, "Il delitto e la questione sociale: appunti sulla questione penale": un duro atto d'accusa all'Italia di allora, che nella "sciagurata materia" della criminalità aveva conquistato "un vero primato che non è quello sognato da Gioberti". Oggi, la constatazione e la congiunta deprecazione di questo poco invidiabile primato ricorrono insistenti, sorrette da accurati rilievi statistici. Quelli dell'Istat. Ma anche i Rapporti del Censis, condotti dal 1985. L'ultimo, di Gino Martinoli, è "Il peso dell'illecito sul Paese Italia".
E' una lettura agghiacciante. E' ovvio che l'entità del fenomeno si sottrae, per la sua natura occulta e mascherata, alla possibilità di un esatto esame scientifico, e relativa quantificazione, secondo le regole rigorose degli accertamenti statistici; e deve piuttosto ricavarsi da intuizioni induttive, da dati anche opinabili. Ma il quadro che emerge dall'analisi è convincente, e soprattutto deprimente. Il numero complessivo dei trasgressori della legge penale oscilla fra gli 800 mila e il milione; e il corrispondente flusso economico ascende a circa 100 mila miliardi l'anno. li campo di osservazione si estende dalle forme più allarmanti della criminalità organizzata (mafia, camorra, 'ndrangheta, estorsioni, sequestri di persona, lotte di sterminio fra bande rivali, ecc.) a settori meno vistosi come l'evasione fiscale. il lavoro nero, l'abusivismo edilizio, fino alla "zona grigia" dello spaccio della droga, del gioco d'azzardo clandestino, dell'intermediazione più o meno torbida fra imprese e amministratori locali, delle tangenti ormai assurte a sistema, e degli infiniti ripieghi della disonestà che rasenta o infrange la legge penale sotto simulacri di apparente legittimità.
Le ricerche si spingono fino al punto di accertare la struttura e le dimensioni dell'impresa criminale, l'attivo e il passivo dei suoi bilanci, l'impressionante livello dei profitti illeciti che carsicamente si tramutano in investimenti apparentemente leciti, generando squilibri sul piano generale dell'economia, dei rapporti sociali e del costume. Non è catastrofismo moralistico dire che più grave di ogni altro è il danno che "colpisce l'anima profonda della collettività e che, come un'alterazione genetica, potrebbe trasmettersi alle generazioni future, inquinandole forse senza scampo". Alcune considerazioni in proposito ci sono suggerite da un libro di John A. Davis, "Legge e ordine. Autorità e conflitto nell'Italia dell'Ottocento". Uno sguardo al passato ci può aiutare a comprender meglio quel che fosse allora, e sia oggi, nelle sue caratteristiche e nei suoi limiti, l'Italia criminale.
Nelle polemiche dei primi decenni dopo l'unificazione, quando alle lotte del Risorgimento era subentrata la scoperta della nostra arretratezza e della nostra miseria, e l'ancora fragile compagine dello Stato liberale doveva fronteggiare l'assalto congiunto delle opposizioni reazionarie e clericali e di quelle repubblicane e radicali e dell'incipiente socialismo, era diffusa la tendenza, nel linguaggio stesso delle violente accuse e repliche, a bollare come "delinquenti" e "mafiosi" e "camorristi" gli oppositori. La devianza criminale faceva tutt'uno con quella politico-sociale. La specificità di fenomeni come la mafia e la camorra conduceva addirittura a grossolane e insultanti semplificazioni razziste - magari attinte alle teorie lombrosiane allora in voga - per dedurne l'inferiorità e gli aspetti degenerativi dei meridionali.
Altri scrittori, turbati e fuorviati dal dilagare della corruzione e dell'affarismo, ne attribuivano l'origine morale e politica al primo, minaccioso avanzare del socialismo (come Pasquale Villari) o alla "tirannia della borghesia" (come Pietro Ellero). Sullo sfondo, incombeva lo spettro della Comune parigina del 1871. La bieca figura del "petroliere, dell'anarchico scardinatore di ogni rapporto sociale si identificava con quella del rivoluzionario, e persino del risoluto riformatore di un regime antiquato. Studiosi seri come Messedaglia e Garofalo sostenevano, cifre alla mano, che l'Italia aveva la più alta percentuale di crimini violenti in Europa, e che da noi gli assassinii erano sedici volte più frequenti che in Inghilterra. Esagerazioni, certamente; ma indicative di un profondo disagio del nostro Paese, e di scarsa fiducia nella saldezza dello Stato, ad onta del suo ricorrente autoritarismo e degli eccessi polizieschi.
Sotto questo profilo, la situazione dell'Italia di oggi è senza dubbio migliore di quella di un secolo fa. La consapevolezza della necessaria distinzione fra la criminalità e gli schieramenti politici e sociali è ben più netta e chiara di allora, e non solo fra gli studiosi, ma nell'opinione della gente, anche se collusioni ci sono, in aree meridionali e altrove, con conseguenze devastanti. E inoltre può almeno indurre a una visione più equilibrata della nostra realtà nazionale la considerazione che nel passato anche i Paesi anglosassoni, prima l'Inghilterra, poi gli Stati Uniti, hanno conosciuto, nei periodi di più intenso e rapido trapasso da un sistema prevalentemente agricolo ad un grande sviluppo industriale, fenomeni non molto dissimili da quelli che tanto impressionarono nel secolo scorso.
Attenzione, però. Questi più pacati raffronti con altri tempi e con altri Paesi non possono attenuare lo sgomento per la tragica realtà che oggi ci affligge e ci indigna. Più di un secolo fa, Cesare Lombroso poté intitolare un suo celebre saggio, che fece rumore ma non scandalizzò più di tanto, "L'uomo delinquente". Sarebbe una sciagura se dovessimo tranquillamente accettare, di fronte al dilagare di tanta criminalità nelle forme più scaltre e sofisticate, la definizione del nostro Paese come di un'Italia delinquente.
Quel che comunque ci assilla - in un'area di civiltà industrializzata, sia pure con squilibri, come la nostra, nella quale più del 10 per cento del prodotto interno lordo, forse addirittura il 12 per cento, è costituito dai profitti illeciti - sono l'indifferenza, l'insensibilità di troppa gente che continua a sostenere (votandoli) uomini moralmente indegni; è l'incosciente protervia di una certa classe politica, come l'ha definita Galante Garrone, una classe più o meno presente e influente nei partiti, unicamente sollecita dei giochi di potere, dell'arraffamento delle cariche, e del proprio tornaconto. Fino a quando sarà ancora possibile dare a questa gente, cinicamente, carta bianca?


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