§ Progresso senza avventure

Strategia nuova per le riforme




Gennaro Pistolese



Le cosiddette riforme istituzionali sono oggi più che mai all'ordine del giorno nel nostro Paese.
In effetti, gli aggiustamenti della nostra Carta Costituzionale sono da tempo sul tappeto. Basti pensare ai tanti suoi articoli tuttora elusi, oggetto di dibattiti da interi decenni, rivisitati successivamente più con ritocchi che con precise e pur doverose messe a punto, in sostanza resi inoperanti.
La tematica inerente ai lavoro. ad un fondamento cioè dichiarato per la stessa Repubblica, è elusa fra l'altro nelle formulazioni degli stessi artt. 39 e 40, mentre - altro esempio - il CNEL che, pur disponendo di normative costituzionali e legislative, vive in stato di ibernazione, nonostante le apparizioni, peraltro pregevoli, che fa sul piano delle indagini a sfondo sociologico e nel campo congiunturale. Ma in quest'ultimo campo c'è da dire che si tratta per lo meno di un più che andrebbe meglio coordinato con le altre autorevoli parti operanti in materia: dal Bilancio all'ISCO.
Proprio in considerazione di questi elementi, siffatta tematica ha sempre animato il dibattito politico, con colorazioni che hanno spesso riflesso il clima politico del momento, con la sottolineatura dell'aspetto ideologico o, quando questo non era così determinante, di quello tattico. Ora siamo nella fase della determinazione di riforme istituzionali, fondate più che sul soddisfacimento delle esigenze di radicale rinnovamento del Paese, sui rapporti di forza che ne possono derivare dai nuovi possibili sbocchi partitici.
Probabilmente si minaccia di andare incontro ad una Iottizzazione delle riforme istituzionali, nella ricerca della "cosa" - come dice il segretario del PCI - o delle "cose", come propongono gli altri, con scale di priorità che concernono la repubblica presidenziale, le autonomie locali, la riforma elettorale e così via.
Orbene, non si esclude, non si può escludere, che tutto ciò sia o possa essere utile, ma il fatto è che al Paese è indispensabile, per il rinnovamento e per il suo operativo inserimento nella realtà europea (si badi, non diciamo solo comunitaria) del '93, un'organica strutturazione istituzionale, nella quale anche le segmentazioni proposte trovino una precisa e funzionale collocazione.
Le riforme richiedono indubbiamente tante tessere di un mosaico, ma presuppongono un preciso disegno del mosaico stesso, che oggi certamentre non c'è. Ogni forza politica e sindacale immagina e pretende qualcosa, ma la sceglie in funzione del risultato immediato e più o meno prevalente rispetto agli altri che ne può conseguire.
D'altra parte c'è da dire che ruolo della politica, fisionomia dei partiti, identità dei sindacati attraversano tutti un travaglio, che ciascuno al vertice ed alla base riconosce, ma dal quale tutti non fanno ancora discendere conseguenze che per se stessi, e per gli altri, siano realmente valide ed affidabili.
Senza infingimenti la realtà ci appare questa, mentre due elementi di fondo incalzano questa panoramica: il sistema Italia che strutturalmente e funzionalmente - i cittadini lo riscontrano tutti i giorni, dietro gli sportelli pubblici, nella scuola, nell'assistenza, nella giustizia, nella viabilità, ecc. - non risponde alla domanda di un Paese che, con la Gran Bretagna, è al 50 posto nella graduatoria dei Paesi più avanzati, non può pretendere a pieno titolo di essere operativamente in questa avanguardia, non può in politica estera assegnarsi compiti di assistenza verso i Paesi del Terzo mondo -come dovrebbe - quando non ha assolto quelli interni in vaste aree nazionali ed ha molto cammino da svolgere per affrontare l'appuntamento conclusivo del 1993. E qui èbene sottolineare che non è solo il nostro forte disavanzo pubblico a suscitare, come giustamente avviene, le nostre ansie e preoccupazioni, ma vi è quest'Italia in molti aspetti arretrata prima ancora che in servizi in mentalità.
Va bene che in tutte le aree del mondo le civiltà si vengano ripensando, ma hanno a differenza dell'Italia alle proprie spalle nei maggiori Paesi occidentali, cui apparteniamo, strutture funzionali ed assetti che sono per essi tradizionali e che invece noi non abbiamo O, avendoli, abbiamo resi caduchi, fra l'altro per disattenta manutenzione ideale e pratica.

Fame di cose vere e realmente nuove
Pur con queste premesse tutt'altro che incoraggianti il Paese sta crescendo. L'importante è che, a differenza di altre fasi della nostra storia, l'Italia non solo domanda, ma anche propone.
Sullo stesso tema delle riforme istituzionali, ad esempio, le varie categorie hanno formulato suggerimenti articolati di apprezzabile dimensione e visualità. Così, ad esempio per la Confindustria con i suoi 15 punti programmatici a valere per il prossimo biennio, così è ancora per le altre organizzazioni di categoria, e fra l'altro per la UIL, la quale immagina il Sindacato dei cittadini, che non sarebbe altro che l'appropriazione della funzione dei partiti.
La crescita del sistema, fin qui richiamata, tuttavia avviene in un quadro di efficienza che non corrisponde nella maniera più netta e risolutiva a quelle che sono le esigenze di sopravvivenza, di sviluppo e di competitività. Fra l'altro, abbiamo a che fare con un indirizzo ed una destinazione di tutto ciò che è "pubblico" non nella misura adeguato, socialmente ed economicamente, ma con amplissimi vuoti che ci costano, senza il vantaggio di una corrispondente e doverosa controprestazione.
Probabilmente in tutto ciò non manca soltanto una strategia innovatrice, ma anche una coerente filosofia, che ci appare quella che dovrebbe sottrarci alla pratica delle scelte fatte giorno per giorno, prescindendo da una progettualità compatibile, convergente, risolutiva. Oggi come oggi, abbiamo difficoltà a fare la somma dei vari addendi: si parla di disoccupazione, di problema del Sud, di violenza, di droga, di scuola, di USL, di casa e l'elenco continuerebbe a lungo. Ma non si determina un preciso quadro di risposte, con i relativi presupposti di ordine istituzionale, quando necessario, o legislativo, il quale ultimo delude la generalità dei cittadini perché la sua prassi più che incerta è ormai inaffidabile in tutta la sua genesi ed in tutti i suoi iter.
Alla base di ciò non vi sono solo i tanti conclamati regolamenti, ma la volontà politica, che è inutile ricercare sul piano formale quando è flebile. come attualmente avviene, su quello decisionale. La riforma istituzionale deve tradursi in stabilità, una stabilità costruita da chi sarà realmente più forte, e cioè dalla maggioranza del Paese, e non già da chi crede di poter prevaricare gli altri: in democrazia.
Fatte queste rapide premesse, c'è dunque da dire che alla radice della crisi delle istituzioni (crisi, come si è detto, prima ancora di principii che di strutture, con implicazioni reciproche di cause e di effetti) è tutta una lunga serie di fattori, palesi e latenti, che è dinanzi alla mente di ognuno.
Non serve qui tentennare un'ennesima articolata panoramica, che d'altra parte sarebbe incompleta (ristabilendo anche indebite priorità di piani e sotto valutazioni di altri). Serve invece anche per ciascuno di noi uno sforzo di enucleazione nella vasta tematica di singoli elementi, approfondendoli il più possibile, così che poi sul loro incontro con altre verifiche si possano fondare più generali compatibilità e convergenze e quindi le condizioni per quel discorso unitario e globale al quale prima si accennava. Dei tanti impatti collegati a questa tematica in questa sede è a quello economico che vogliamo indirizzare queste rapide notazioni - indicative di semplici spunti - non per affermare una prevalenza, ma solo per tentare di richiamarne il peso ed i riflessi.
D'altra parte è proprio a questa tematica (capitalismo selvaggio, lotta al monopolio, mercato libero contaminato dalla iniziativa privata, ecc.) che spesso si tenta di imputare le maggiori responsabilità che si rifletterebbero anche sul funzionamento delle istituzioni, con il ricorso ad uno Stato guardiano. Che in molti casi, quando è necessario, non c'è.

Obiettivo di fondo
Si è parlato e si parla dei guasti provocati dal consumismo (meglio, si può dire delle sue espressioni immature, che lo portano ad annullare nel benessere altri valori e non ad inquadrarlo in essi); di improvvisa e disordinata crescenza industriale; di carenze di un valido modello di sviluppo; della persistenza di parassitismi clientelari (ed oggi come non mai sono cresciuti enormemente, contaminando spesso la stessa sfera politica), di egoismi corporativi di questa o quella categoria, da cui è derivata la rottura di rapporti e di ruoli, e così via. Conseguenza ne è stata anche una domanda privata disordinata di beni di consumo ed anemica - nella possibilità di sbocco e di orientamento pure territoriale - di investimenti; come una domanda pubblica che con sempre maggiore difficoltà e con sempre minori margini, per la prevalenza della spesa improduttiva o poco produttiva in relazione alle disponibilità così contratte, si è realmente indirizzata verso i campi dai quali nei suoi intenti poteva derivare una maggiore dinamica e correntezza del sistema. Il che purtroppo invece solo con qualche eccezione si è verificato.
Sono tutti fattori che indubbiamente hanno esercitato e tuttora esercitano effetti nefasti, concorrendo in parte non secondaria a condizionare orientamenti e modo di essere delle istituzioni, ma che in parte - anch'essa non secondaria - sono la risultante (subendone anche il costo sociale ed economico) delle carenze di dette istituzioni, dovute non al declino dell'immagine, del resto superata, dello Stato cosiddetto forte, ma alla sua inefficienza nell'esercizio e nel controllo delle sue funzioni, che è tutt'altra cosa.
Le istituzioni, infatti, tardano a recepire le nuove spinte ed i nuovi modi di una società mobile, articolata anche territorialmente. E ciò avviene per l'attuale quadro politico del nostro Paese (di instabilità e di confusione, termine quest'ultimo usato frequentemente dall'on. Craxi, oggi, quando invece già lo usavamo nel 1977 - ci si perdoni l'immodestia - in un nostro saggio sulla crisi delle istituzioni pubblicato in quell'anno dal Rotary). E ciò avviene ancora perché le istituzioni subiscono una strategia demolitrice, anziché impostarne e fondarne una costruttiva, tant'è che la lotta fra il vecchio ed il nuovo, più che riflettere il tentativo di sopravvivenza del primo, ripropone l'incapacità del secondo di esprimersi in termini concreti ed accettabili dalla totalità dei cittadini. E ciò infine si verifica perché dialettiche e strategie continuano ad esplicarsi nel vuoto provocato da ciò che è sopravvenuto e dalla carenza del suo rimpiazzo. Invece, ogni atto economico - quali ne vogliano essere aspirazioni ed obiettivi - non si realizza senza una concorrente volontà politica e senza la valida e conforme cornice delle strutture, a cominciare da quelle amministrative e burocratiche. Molte sono le strade fin qui tentate per correggere questa situazione, ma:
- il rinnovamento della struttura statale, diretto a garantirne efficienza, piena giustizia di esercizio, eliminazione del parassitismo pubblico, continua ad essere nella fase delle elucubrazioni e dei propositi, a parte qualche modesto passo innanzi, fatto ed annunciato a questo o a quel titolo;
- la programmazione non è mai entrata in azione o perché si traduceva in un libro dei sogni o perché non ha incontrato la corrispondente necessaria volontà politica, o perché taluni hanno voluto che fosse pregiudizialmente punitiva, più che direttiva, della sfera economica. Ora si riparla, attualizzandola, di politica dei redditi. Ma pochi sono disposti a specificare come la intendono;
- la politica dei redditi, che avrebbe consentito di evitare o di attenuare i gravi deterioramenti di cui oggi soffriamo più degli altri Paesi, è di fatto accantonata o praticata molto relativamente ed occasionalmente, perché prevale la protezione di interessi non solo acquisiti, ma acquisibili;
- le sedi decisionali normali sono state surclassate da altre, formate principalmente sul rapporto di forza. senza che alle necessarie aperture di fronte alle istanze manifestate corrispondano poi un argine ed un punto invalicabile (si consideri fra l'altro la prassi di trattativa inerente ai contratti pubblici),
- infine la formazione didattica in senso lato e professionale in senso specifico, la capillarizzazione diffusiva e l'adeguamento della cultura, la ricerca tecnica e scientifica ai vari livelli e nella loro capacità di educazione, di preparazione e di orientamento, non sono ancora in chiave con bisogni ed istanze che si levano dalla collettività nazionale, in funzione di un rapporto più profondo e dinamico fra cultura ed attività economica ed anche di uno sbocco più ampio, sicuro e produttivo, da assicurare alle giovani leve che attendono di essere inserite nel mondo del lavoro.
L'approccio dell'attività economica con la cultura comincia ad essere più consistente, ma è lungi dall'essere generalizzato, come necessario, mentre alcune forze della stessa cultura per la loro qualificazione ideologica (anche se oggi se ne smentisce l'esistenza o almeno la rilevanza: le cose farebbero premio sulle idee) sono riluttanti, perché dicono - anche se con minore convinzione del passato - che prima deve cambiare la logica della corrente attività economica e poi il discorso potrà cominciare. Ma questo prima ritarda ovviamente il discorso ed addirittura minaccia di bloccarlo, perché è chiaro che i cambiamenti comportano per tutti una diversa presa di coscienza, senza la pretesa che il ruolo degli altri sia subalterno.
Ecco così - a nostro giudizio - altrettanti fattori di perdita di credibilità delle strutture e della loro crisi, e del pericolo del vuoto sul quale non può configurarsi neppure un sistema che sia immaginato ex novo. Ma nella crisi confluiscono anche quelle non naturali, bensì così provocate, dei valori di fondo, di cui in una società pluralistica come la nostra, le istituzioni dovrebbero essere garanti ed orientatrici, nello spirito e nella lettera della stessa Costituzione. C'è da responsabilizzare il ruolo che spetta ad ogni parte sociale nei suoi doveri e nei suoi diritti per una retta loro gestione.
C'è da stabilire il grado di convivenza fra l'interesse individuale e quello pubblico. Purtroppo, invece, l'aggettivazione del bello e del brutto per l'uno o per l'altro oggi si palleggia, nel gioco delle reciproche opportunità, garantendo ovviamente il secondo. ma non dovendosi tendere a rendere, per un rigurgito classista, ingiustamente obsoleto il primo; così da provocare non il progresso, ma la proletarizzazione. Tristemente indicativo a questo riguardo è quanto avviene nella proprietà immobiliare (equo canone, blocco degli sfratti al '93 con l'irrituale forma dell'indisponibilità della forza pubblica, blocco del Prefetto di Roma, indipendentemente dallo stato di necessità del locatore n caso di indisponibilità da parte del conduttore, anche se abbiente, di un'altra casa), nell'impiego del risparmio (le cui destinazioni ai valori pubblici vengono quasi imputate ai loro titolari, quando si ricordano non le ragioni che hanno determinato l'indebitamento pubblico, tutte dovute al Parlamento ed alle forze politiche, ma il gravame di interessi che ne discende.
C'è da determinare lo spazio peculiare per l'iniziativa, sia pubblica che privata, salvaguardando fisionomie e funzionalità dell'impresa. C'è da ridimensionare e ripensare il ruolo assistenziale che ognuno per la sua parte trasferisce allo Stato, pretendendone benefici senza contropartita e al di là spesso di pur parziali motivazioni. C'è da definire limiti e contenuti di principii che rischiano di divenire evanescenti, se già non lo sono, come quelli concernenti la proprietà (e qui richiamiamo quanto detto prima); la salvaguardia del risparmio (e non è necessario soffermarsi qui sui fattori che invece lo deprimono); lo stesso spazio per il profitto, che è invece indiscriminatamente condannato con valutazioni che perciò ne negano l'indispensabile apporto agli investimenti ed all'occupazione. E ciò nella presunzione errata che la sua pretesa esosità sia giunta ai livelli di insostenibile ingiustizia sociale, e che anzi è tutta la logica capitalistica che dovrebbe saltare, perché essa sacrificherebbe l'uomo al profitto, quando è proprio dall'efficienza del sistema produttivo, e non già da una concezione assistenziale e caritativa, che l'uomo viene elevato. Il crollo del socialismo reale sta a smentire tutto ciò, ma i nostalgici di almeno di parte di esso tentano mimetizzazioni, diverse immagini, nuove forme di improvvisa resurrezione. Uomini e collettivi non si lasciano tuttavia ingannare, come sta confermando l'Est tutto intero.
Ma a prescindere da queste deviazioni concettuali, che fra l'altro non percepiscono che se, ad esempio, salta l'impresa, salta il sistema pluralistico della nostra società e quindi la stessa democrazia (oggi sembra che Gorbaciov stia percorrendo proprio questa strada, ma solo oggi per conto di un marxismo-leninista che si era smarrito), è evidente come ognuno di questi temi imponga un'autocritica ed una responsabile meditazione di tutti i soggetti che direttamente sono chiamati in causa. Quanto più tutto ciò avverrà tempestivamente ed in piena consapevolezza tanto meglio sarò.
E' evidente però che è urgente una definitiva e completa chiarificazione di tutta quest'area, che una volta saldamente determinata non può, né deve essere sottoposta - come da alcuni lustri a questa parte sta avvenendo - ad erosioni, contraddizioni e perciò sostanziali negazioni.
Se per la validità degli ordinamenti sono indispensabili il rigore e la credibilità, nell'equilibrio e nella dinamica della sicurezza e della stessa stabilità (oggi l'una e l'altra più che mai malferme, insicure, eccezionalmente preoccupanti per la flebilità o addirittura latitanza del senso dello Stato), non diverso esigenza si manifesta nella vita economica e sociale. Essa infatti deve passare dalla sua attuale fase di più o meno generalizzata contestazione o per lo meno di estrema precarietà a quella di un ordinato sviluppo, una volta che si sia imboccata la strada giusta indicata e voluta dalle scelte democratiche del Paese, adottate con la partecipazione più vicina, anche decisionale, di chi le deve porre in atto.

Società e modelli nuovi
Accanto alle rivalutazioni ed ai ripensamenti, di cui fin qui abbiamo detto, vi sono i più specifici correttivi, adottando i quali i nostri orientamenti non solo diverranno più validi, ma anche più idonei a caratterizzare la società nuova ed il modello nuovo di sviluppo, che tutti auspichiamo. Tuttavia molto spesso siffatti obiettivi sono velleitariamente ed astrattamente enunciati, perché non sappiamo far corrispondere alla tassatività dell'etichetta - da questa o da quella parte, imposta o suggerita - la concretezza dei contenuti.
Tanti sono i correttivi possibili o necessari, ma le difficoltà della scelta non ci deve impedire di mettere mano subito a quelli più prontamente ed utilmente superabili. Essi, per sempre più diffusa convinzione, riguardano anzitutto l'eliminazione dei nostri vuoti strutturali - che concernono l'occupazione, il Mezzogiorno, l'agricoltura, il grave distacco nei livelli di redditi fra regioni, comparti produttivi ed anche categorie, l'insufficienza delle infrastrutture, ecc.-; dei fattori che con il parassitismo e con il corporativismo hanno ostacolato un sostanziale e generalizzato progresso; degli ostacoli che la stessa disfunzione amministrativa e burocratica ha fin qui frapposto ad una condotta di vertice e di base diretta allo sviluppo.
Secondo alcuni osservatori, qualche leva già comincerebbe a muoversi in questa direzione, o per lo meno il suo impiego potrebbe essere molto meno lontano se qualche premessa fin qui posta divenisse più operante e coerente.
Ci sono le aspettative suscitate dalle Regioni e dalle autonomie locali - ma se ne parlava decenni fa -, come mezzo di rottura di un centralismo statale che non si è fatto carico di un armonico sviluppo sociale; dalla nuova maniera di intendere la funzione produttiva, non più diretta a soddisfare soltanto quantità della domanda, ma la sua qualità in termini di offerta e pure di socialità; dal corollario che sul terreno della responsabilità sindacale deve discendere alla più larga partecipazione.
Sono però fermenti ancora e da tempo in maturazione, che potranno esercitare una spinta valida, a patto che taluni di essi non si esauriscano in una tattica contingente, incapace o riluttante rispetto a scelte più profonde, incisive e soprattutto coerenti.
In questa direzione ciascuno deve e può esprimere la sua azione, la sua vocazione come servizio, la sua ansia di europeizzazione e di militante occidentalismo, la sua consociazione alle civiltà più avanzate. Diversamente, rischieremmo di regredire, anche nella nostra credibilità verso l'estero. E ciò avverrà se continueremo a presentarci come l'anello più debole e tale da far affermare a molti osservatori stranieri che, se sopravviveremo alla prova, gli altri Paesi tireranno un sospiro di sollievo. Ma c'è soprattutto da difendere la personalità dell'individuo, che minaccia di divenire più flebile, perché è combattuta dalla massificazione, da una tecnologia Che, male indirizzata, può inaridire la personalità individuale, da un depauperamento della stessa capacità e della stessa attitudine ad una vita privata, non intesa come isolamento, ma come matrice anche di autoeducazione, di riflessione e quindi di più responsabile partecipazione. Ne devono e possono scaturire leggi di comportamento valide per l'intera comunità. Vari studi stranieri, passati e recenti, mettono in evidenza la gravito dell'usura delle istituzioni, in atto nel mondo, come conseguenza di condotte non sempre vigili, caute ed adeguate, che spesso cercano di incidere in improvvida maniera nel campo economico, inconsapevoli del fatto che ogni inadeguata e non mirata misura rischia di compromettere la stessa dinamica sociale, oltre che la retta funzionalità del sistema economico. Di errate strategie si sono avute manifestazioni di fatti e di dottrina che hanno praticato lo scardinamento con una lunga marcia attraverso le istituzioni, con l'intento di pervertirle, servendosi della stessa libertà assicurata dalla democrazia o camuffando per democrazia la dittatura. E' la storia di queste ultimissime settimane nell'Est. E' evidente che a questa strategia bisogna opporre quella della costruzione, che è sollecitata non solo dalle difficoltà ed anche dalle nostre gravi falle di oggi (disavanzo pubblico e livello di disoccupazione, soprattutto), ma anche dalla prospettiva - certa o incerta: non anticipiamo giudizi - del Duemila. Questo traguardo annuncia un modo diverso di vivere dall'attuale, di convivere, di produrre, che per forza dovrà equilibrare le tensioni sociali per abbandonare le soluzioni eversive (e ciò fortunatamente sta avvenendo o si promette da parte sindacale per il domani). Ma questi sono anche tutti fattori che si possono tradurre in turbative, talune negativamente previste dalle statistiche, che forse si possono evitare, solo a patto di volerlo.
E' una sfida che viene dall'uomo, ma che all'uomo stesso ritorna. Potrò dire qualche studioso, come in effetti dice e ha detto nel passato, che l'uomo è poco e male governabile, ma siffatta affermazione può riflettere più l'incapacità di chi nel vertice è chiamato da noi stessi a rappresentarci piuttosto che le ansie, gli aneliti, i problemi che scaturiscono da noi stessi. Tuttavia non basta dire che la vita va avanti e si rinnova, ma bisogna che ognuno faccia la propria parte perché si rinnovi nella direzione giusta. E' la speranza ed attesa in risposta all'impegno per le difficoltà da affrontare, cominciando con il mettere ordine nella casa comune, che è quella degli ordinamenti e dei valori che ne sono il presidio: nel l'aggiornamento che richiedono, ma pure nella perennità che molti di essi esprimono. Come non si deve rinnegare o ritardare il primo, così non si può rinunciare alla seconda: è la linea di demarcazione sulla quale, anche in economia, si deve praticare quel "progresso senza avventure", che purtroppo fin qui è stato capovolto, mentre è il punto di partenza del vero discorso da portare innanzi, senza incertezza e compromessi.
Non è vero, dunque, che il discorso sulle riforme istituzionali possa o debba cominciare dal punto in cui oggi molti vorrebbero iniziarlo. Ha infatti più lontane radici e molto meno vicini e facili sbocchi. Non ha a che fare con strategie comode ed utilitarie, ma deve misurarsi con una spazialità politica, sociale, economica, che certe condotte politiche non sono ancora riuscite a misurare. In realtà, la tematica delle riforme istituzionali, nella sfera economica come in quella extraeconomica e generalmente politica, deve essere per lo meno oggetto di un profondo ripensamento, che ancora - dobbiamo sinceramente dirlo - non appare che ci sia. E' urgente che lo divenga.


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