§ La rivoluzione dell'Est

L'Europa di Wojtyla




Lech Walesa



All'inizio del 1979 ero disoccupato, cacciato dal mio posto di lavoro. Ero attivo nell'opposizione che a quel tempo era ancora molto debole: nessuno si sognava la perestrojka. Fui assunto in un'azienda di elettromontaggio di Danzica in estate, mentre il Papa giungeva in Polonia. Desideravo molto partecipare a una messa o ad un incontro col Papa, ma una sua visita a Danzica non era prevista e la direzione aziendale rifiutò di concedermi il permesso necessario per raggiungerlo. A quel tempo avevo cinque figli e non volevo rischiare di perdere il lavoro appena conquistato. Andarono a vedere il Papa alcuni colleghi del sindacato libero. Ne ascoltai il racconto con passione, avvertendo nell'aria un'atmosfera sempre più carica. Era ancora il tempo in cui qualsiasi caposquadra poteva deriderti o un sergente di polizia ordinare di spogliarti al commissariato per vedere se c'erano volantini nascosti nelle calze, ma già si capiva che qualcosa in Polonia stava cambiando. Quelli che erano andati a vedere il Papa raccontavano: eravamo milioni di uomini sorridenti. Non capitava da molto tempo.
L'anno seguente scoppiò lo sciopero dei cantieri di Danzica: era l'inizio della fine dell'era comunista in Europa. Una delle prime cose fatte dagli operai dell'azienda che portava il nome di Lenin fu di appendere sui cancelli, accanto all'immagine della Madonna Nera di Czestochowa, un ritratto di Giovanni Paolo II. Volevamo proclamare in maniera istintiva: ecco la "nostra ideologia". I due ritratti erano il simbolo di un mondo ben più forte del totalitarismo. Un mondo nel quale desideravamo vivere. Nel gennaio 1981 venni invitato a Roma dai fedeli amici dei sindacati italiani. Ma la prima cosa che mi sentii in dovere di fare fu di ringraziare il Papa per tutto quello che aveva fatto per noi.
"La solidarietà tra gli uomini, la necessità di dimostrare un sostegno concreto - dissi nel corso della prima udienza - sono il manifesto che ci viene da Te, Santo Padre. Senza la Chiesa, senza il Tuo insegnamento non ci sarebbe stata la nostra Solidarnošc". Era la sintesi del mio pensiero, per la quale alcuni mi hanno accusato di clericalismo. Gli anni successivi dovevano tuttavia confermare ciò che allora sostenevo.
Nel 1983 c'erano ancora 7.500 militanti di Solidarnošc in carcere, il Paese viveva sempre sotto la legge marziale, l'atmosfera era cupa. Eravamo ancora nel pieno della notte dei generali. Essi consentirono quell'anno il pellegrinaggio pontificio per provare all'opinione pubblica che la normalizzazione in Polonia era già molto avanzata e che il governo poteva fare benissimo a meno di Solidarnošc. Già dalle prime parole pronunciate all'aeroporto il Papa fece crollare questo disegno parlando dei detenuti che non poteva incontrare e chiedendo che fossero accanto a lui in spirito.
Il 23 giugno, nonostante le resistenze da parte delle autorità militari, Giovanni Paolo II volle ricevermi, smentendo la qualifica di "privato cittadino" che il governo mi aveva affibbiato. In un rifugia dei monti Tatra, in una stanza imbottita di apparecchi di intercettazione, dissi al Santo Padre che se come Nazione avevamo poco pane e poca libertà, dovevamo essere comunque grati alla Provvidenza per la situazione in cui ci trovavamo.
Ogni giorno, di fronte alle violenze, al male, eravamo chiamati a definirci, a confermare le nostre ragioni. Sapevamo che la ragione era dalla nostra parte, anche se gli altri non volevano riconoscerlo. Ciò liberava in noi un'energia aggiuntiva. In quei pochi giorni le autorità si resero conto del punto in cui era arrivata la loro politica. Durante gli incontri col Papa milioni di persone scandivano nelle piazze: "La Polonia è qui". Era il preannuncio della votazione che di lì a qualche anno avrebbe portato alla storica sconfitta del sistema comunista. Quattro anni più tardi, nel 1987, stavamo ancora battendo il passo. La politica della legge marziale, la politica di limitati cambiamenti senza la partecipazione della società, non aveva avuto alcun effetto. Per il viaggio di quell'anno il Papa doveva fermarsi nella "città proibita", a Danzica. Doveva celebrare la messa nel quartiere dove abitava, mettere i piedi simbolicamente sul terreno delle nostre conquiste. Il mio quartiere in quei giorni era diventato irriconoscibile. I nostri grigi edifici - chiamati con disprezzo i kolkhoz - si erano trasformati in un organismo vivo e dal volto sconosciuto. Nei lunghi mesi della legge marziale sarebbe stato difficile immaginare che vicino al mio isolato ci sarebbe stata una folla di milioni di persone in una foresta di striscioni di Solidarnošc e in mezzo a loro Lech Walesa che riceveva la comunione dalle, mani del Papa. Infine, il 1989. Arrivai a Roma con Tadeusz Mazowiecki, che sarebbe diventato di lì a poco primo ministro. Tenevo in mano Trybuna Ludu, l'organo del partito comunista che viveva i suoi ultimi giorni. Sulla prima pagina di quel giornale figurava una grande foto del generale Jaruzelski accanto a Walesa. Finiva così la fase della "tavola rotonda" e della lotta per la legalizzazione di Solidarnošc. Potei dire al Papa: "Ti ringraziamo per aver benedetto la nostra lotta per la libertà. Ora ci attende un lavoro normale".
Nel Pontefice, che ha compiuto a maggio 70 anni, io ho trovato l'uomo della fiducia, l'uomo la cui certezza nell'esistenza della grazia divina si trasmette subito agli altri. Tutta la sua figura, i suoi gesti, il modo stesso con cui si china esprimono fiducia. Essa traspare persino dal modo di muoversi, come se abbracciasse camminando tutta la Terra, già guardando quel passo si può essere più tranquilli, ricaricare le proprie batterie.
Nel corso del suo pontificato, in Polonia sono avvenute cose di importanza somma, si è avverato il sogno di intere generazioni: siamo diventati un Paese libero che costruisce la democrazia. Nel 1979 il Papa disse a Varsavia: "Non c'è Europa giusta senza la Polonia indipendente". Oggi l'Europa delle libere Nazioni diventa una realtà e penso che molta gente in Europa ringrazierà Dio che ha dato al mondo Giovanni Paolo II.

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