Maledetta
Canapa
All'inizio c'era
la seta (o il "filugello" di seta). C'era soprattutto in
un'area lombardo-piemontese, dove lungo il '700 e sotto la sollecitazione
di un'Europa in via di mutazione e spesso di sperimentazione di una
rivoluzione agricola, trovarono terreno propizio una serie di linkages,
di spinte cumulative destinate a cambiare il volto non solo di qualche
provincia, ma dell'intera Italia economica. Con la seta, intorno alla
seta (Per via del gelso, introdotto dai Longobardi), crebbero capitalisti
e tecnici, gente di finanza e nuclei di cultura operaia, strutture
sofisticate della produzione e del commercio, e riserve ingenti e
mobili di mezzi finanziari. Anche a dispetto delle congiunture più
gravi, si mobilitò un corpo d'esercito capace di tener dietro
alla corsa avviata in tutto il Vecchio Continente per venir fuori
dall'ancien régime.
E all'inizio c'era la canapa, lungo un asse che percorreva un centro-sud
di Puglia e una quasi intera Calabria con vischiose propaggini confinanti.
La coltura fu introdotta dai Bizantini (tranne che a Benevento, enclave
longobarda al di qua del Garigliano) in una eccentrica provincia dell'impero
che mai dal mare trasse ricchezza, e che il mare vide sempre come
un orizzonte di vele nemiche.
La seta e la canapa segnarono il confine primo e invalicabile del
"dualismo" della penisola, anche quando questa si fece Stato
unitario.
Perché la canapa fu il prodotto dell'autoconsumo e dell'arretratezza
economica, mentre la seta fu il prodotto che aprì le vie di
comunicazione e quelle dello sviluppo. Non avendo di fronte il mare,
ma l'Europa, il setificio si immerse nel capitalismo internazionale,
esprimendosi in accumulazione a base agricola secolare e radicandosi
poi in un sistema organico di capitalismo nel cuore dell'800, per
farsi pronto e attrezzato a sfidare, all'indomani del '900, la concorrenza
dei Paesi avanzati. Quando non bastarono le risorse accantonate, entrò
in gioco un meccanismo particolare: l'offerta di braccia all'estero
e il rastrellamento di risparmi da rimesse mediante le reti bancarie
e postali.
Fu un drenaggio gigantesco verso i telai e le manifatture, speculare
all'abbandono delle terre della canapa, destinate a diventare un immenso
sertao improduttivo che chiamarono latifondo: rendita parassitaria,
sfascio geo-sociale, "altra Italia".Non per nulla, l'età
che fu chiamata "giolittiana" fu, insieme, quella del più
tumultuoso sviluppo industriale del Nord e del caotico crollo dell'economia
del Sud. Questo, a sostegno perpetuo di quello.
Nomenklature
L'anagrafe di
lor signori: la definisce così, Salvatore Rea, un'indagine
condotta dall'Ispes per Epoca sui meridionali. Ne emerge che:
- è di circa il 60% la percentuale di occupazione delle poltrone
di vertice del potere burocratico da parte dei "sudisti";
- gli "intellettuali di Magna Grecia" non sono "i depositari
dell'intelligenza nazionale";.
- la cultura del Sud "non ha nulla di invidiabile"; la vera
cultura è a Nord, di lì proviene il maggior numero di
accademici, di ricercatori, di scrittori, di premi Nobel e di premi
Strega;
- a Nord guarda, "naturalmente", l'economia;
- dal Sud viene solo il 21,1% dei 63 direttori di quotidiani e degli
8 direttori di settimanali considerati;
- la percentuale di presenze nei governi e nei partiti è del
41,5% per il Nord e del 36,7% per il Sud.
Non si può stare mai tranquilli. Intanto: il Sud comincia proprio
dal Garigliano? E poi: a che serve questa indagine? A far scoprire
che "si è sempre ritenuto che i nordici della Padania,
specialmente quelli più prossimi alla catena delle Alpi, non
fossero particolarmente brillanti, gente dalle reazioni psichiche
lente, di intelligenza media per non dire mediocre. E invece ... ".
Invece che? Niente. L'indagine si guarda dal definire i "nordici"
più brillanti, svegli, intuitivi, intelligenti dei meridionali
(E perché mai, in un senso e nel senso inverso? Forse che svegli
e tonti non sono cittadini del mondo?). Dice soltanto: "La cultura
del Sud non contiene gran che di invidiabile". Quale cultura?
E che cosa si intende per "cultura"?Ci assale un dubbio:
chi ha condotto l'indagine era proprio in possesso di tutte le facoltà
mentali? Fuori i nomi: abbiamo intere biblioteche e infinite gallerie
di "uomini di cultura" da mettergli a disposizione. Più
Nobel a Nord? E chi ha fatto i conti? Più premi Strega a Nord?
Esilarante: gli Strega (e metteteci pure i Campiello, i Viareggio,
i Fiuggi, e qualche altro migliaio di premi per i rami vari dell'umano
scibile diventati più o meno - meno, meno! - celebri nel Belpaese):
chi se li aggiudica, gli autori o le mafie degli editori? Provate
a rispondere. E dove stanno, storicamente, di casa gli editori mafiosi?
Riprovate a rispondere. I ricercatori, poi: quanta fatica hanno dovuto
fare le università meridionali per aprire i battenti, per farsi
riconoscere, per avere un po' di denaro, per attrezzarsi alla meno
peggio? E quali industrie avrebbero dovuto finanziare la ricerca nel
Sud, quelle della produzione di braccia per l'emigrazione?
"Penoso", dice l'ineffabile Rea, il fatto che i direttori
meridionali di 63+8 giornali siano il 21,1%. Quanti direttori fa il
21,1%? Dodici direttori e tre quarti, tredici direttori meno una milza,
più mezzo bicipite? Vantiamoci, una volta tanto. Scardocchia
dirige la Stampa, che non è il quotidiano dei valligiani di
Mondovì; Valentini dirige l'Espresso, che non è il settimanale
della parrocchia di Peretola; Pendinelli dirige Il Messaggero; Amato
dirige Il Giorno; due meridionali dirigono i maggiori quotidiani del
Sud, quattro isolani dirigono i maggiori quotidiani siciliani e sardi.
A parte Stille, del Corriere della Sera, caso anomalo, essendo nato
più a sud del Sud, che altro resta agli altri, se non i gazzettini
locali, degnissimi quotidiani, e alcuni settimanali? E comunque, che
vuoi dire? Chi si strappa i capelli? La presenza dei "nordisti"
nei partiti e nel governo. Ci siamo. E si vede benissimo. Chi ha consentito
le ristrutturazioni del Nord con i quattrini del Sud? Chi, oltre a
Rea e all'Ispes, continua a spacciare per "industriali"
gli Agnelli, i Gardini, i Berlusconi, che continuano a presentare
bilanci con attivi clamorosi, proprio perché foraggiati
dal pubblico erario, e che in realtà hanno smesso di essere
"industriali" da un pezzo, essendosi trasformati in puri
e semplici mega-finanzieri? Provate per la terza volta a rispondere.
Noi, intanto, tentiamo di completare il quadro, affermando senza pudore:
che il Sud ha più mafiosi del Nord, che a Nord si ricicla e
si utilizza (persino in Borsa) il denaro mafioso del Sud; che a Sud
ci sono gli unici disoccupati "non fisiologici" della penisola;
che a Nord si muore per overdose e per Aids molto più che a
Sud, che i "sudisti" se ne starebbero volentieri a casa,
se avessero dalle loro parti di che lavorare e vivere, visto che i
loro padri si son presi i reumatismi cronici nei cantieri francesi,
la silicosi nelle miniere belghe e la biliosi nelle industrie tedesche;
che da quando hanno esiliato Gadda, i "nordisti" si devono
sorbire Soldati (quello ricercato vivo o morto dai barcellonesi per
le monumentali sciocchezze che ha scritto sulla loro città;
i meridionali, invece, lo ignorano, senza tuttavia perdonarlo), Bevilacqua
(versione maschile di Liala), i maggiori tra i minori (Arpino, Calvino
e altri autodichiaratisi "nordisti" tout court), e i pallidi
verseggiatori lombardi, ai quali sono più affini e familiari
i recitals sponsorizzati che le regole metriche e gli affiati della
Muso; e, infine, che, fatta l'Italia, era tempo di disfare gli italiani:
e ci stanno provando in tanti, con fini espliciti e con risultati
eccellenti. Non è il caso di Rea e dell'Ispes.
Torna alla
pelota, hombre
"Il Sud è
nella maggior parte un paese arabo senza petrolio, però esporta
giudici, avvocati, poliziotti ed altri - ladri e kidnappers - che
di arabi non parlano, sibbene di nobili greci e di imponenti normanni".
Firmato: Gianni Brera. Nientemeno!
Nell'Oltrepò pavese, proprio dalle parti in cui una donna partorì,
suo malgrado, con dolore, il Nostro, è nata la Lega Lombarda.
E' una pura coincidenza. Ma è pura coincidenza che la Lega
e Brera parlino lo stesso linguaggio? Il Nostro, comunque, ha le attenuanti
generiche e quelle specifiche: altro non potendo realizzare, intellettualmente,
abituato com'è - per via del "mestiere" - a ragionare
di piedi, con i piedi, per i piedi. Nessun altro si sarebbe esposto
al pericolo, parlando di greci e di normanni (gli Svevi, fuorigioco?
E gli Angioini e gli Aragonesi, in panchina?), avventurandosi in ragionamenti
di testa, con la testa, per la testa (ma son cose da astemi, cioè
non da Brera).
Quel terrone
di pergolesi
Si rappresenta
l'"Orfeo" di Gluk a Milano. Dirige Muti. Regia di De Simone.
Scene di Carosi. Costumi della Nicoletti. Un trionfo di tutta una
squadra napoletana, che si propone poi di portare alla Scala un'opera
anch'essa napoletana, "'O frate 'nnammurato", capolavoro
di una scuola dominatrice in Europa nel Secolo dei Lumi. Muti, primo
e insigne capofila, in quella scuola si è sempre riconosciuto,
e nella programmazione del suo teatro, esaurito un primo ciclo Mozart,
aveva incluso l'opera di Pergolesi che a Mozart si ricollega, per
tanti versi anticipandolo di mezzo secolo. Annunciato il programma
scaligero, ecco sul "Giornale" montanelliano l'irato commento
del critico musicale Piero Buscaroli, che tutti i napoletani ricordano
infausto direttore del "Roma", il giornale di Achille Lauro,
al quale costui diede il primo sciagurato scrollone
che portò diritto alla chiusura. Dopo aver rimproverato a Muti
(udite!) di dirigere troppe opere nel "suo" teatro, ed avere
gratificato il nobile, sereno, preziosissimo Gavazzeni della qualifica
di "anziano riservista buono per limitate apparizioni",
il Buscaroli perpetua il suo pensiero: "Se con "O frate
'nnammurato" del Pergolesi si voleva coprire in un colpo tutta
l'area della cosiddetto opera barocca, l'errore appare specialmente
sgraziato sia per la scelta dell'opera, che per la regia. Chi conosca
i gusti e le abitudini del regista De Simone - e siamo ormai in molti,
purtroppo - non fatica a prevedere che la fragile operina si risolverà
in una delle viete e fastidiose "napoletanate" che sempre
più minacciose risalgono la penisola da una decina d'anni".
Si fa tanto chiasso sul razzismo ribollente, quello becero degli stadi
e dei pestaggi anche omicidi, o quello qualunquistico delle varie
"leghe" anti-meridionali e delle "controleghe"
anti-padane. Ma il più pericoloso di tutti è il razzismo
intellettuale (anche di intellettuali già foraggiati dal Sud
più retrivo) che serpeggia cospicuo e spesso sale in superficie,
come nel caso di un biografo di Bach, qual è il Buscaroli,
che dà del terrone a Pergolesi, a Muti e a De Simone. Questo
è un razzismo che fa paura: proprio perché, come diceva
Eduardo in una sua indimenticabile "napoletanata", è
- oltre che pericoloso - anche il più cretino.
Quindici modi
La proposta è
stata lanciata dal leader pavese della Lega Lombarda: "Nelle
città e nei paesi del Nord bisognerebbe dare alle vie nomi
attinenti alle tradizioni locali. Basta con il dichiarare le nostre
strade con "via Roma", c'è un riferimento a una realtà
che non ci appartiene. Anche i nomi dei paesi dovrebbero essere riportati
nella doppia lingua, in italiano e nel dialetto".
Non siamo nella zona dell'"Ein Tirol", ma in "bassa".
Padana, ovviamente. Per questo non riusciamo a pensare a nomi di città
e paesi trascritti in italiano e in dialetto. Perché più
d'uno potrebbe ricordare, ad esempio, che insieme con l'italiano e
col dialetto possiede anche autentiche lingue: così è
per ladini, provenzali, occitani, sardi, messapi, etruschi, greci,
albanesi e via di seguito. La Sicilia, poi, potrebbe usare l'italiano,
il dialetto locale, la lingua della corte di Federico II e il greco.
La Sardegna potrebbe aggiungere un po' di fenicio, insieme col catalano.
La Toscana avrebbe l'italiano, il dialetto contradaiolo, il vulgare
e l'etrusco. Il Salento può contare sul messapico. Il Molise
sull'albanese, come una parte della Calabria. E, perché no?,
il Veneto sull'illirico.
Innescando così, tutti insieme, appassionatamente, la spirale
di una babele linguistico e di una babele fonetica.
Né miglior fortuna potrebbe avere la toponomastica ispirata
a realtà strapaesane. Sfidiamo chiunque a dimostrare che Roma
non sia eredità di tuffi; e che non lo siano, in ciascuno degli
ottomila comuni italiani, le vie Corso, Piove, Trenta e Trieste, Bainsizza,
Podgora, Vittorio Veneto, emblematiche di vicende storiche che fusero
tutte le lingue in una sola lingua, e tutti gli slanci - di granatieri
sardi e lancieri piemontesi, di aviatori tosco-marchigiani e marinai
lombardo-veneti e di fanti meridionali - nell'unico ideale di fare
definitivamente uno il Paese dove il dolce sì suona.
Ecco: nel Dizionario dei sinonimi, del Tommaseo, ci sono almeno quindici
modi, tratti dal patrimonio linguistico di tutte le regioni, per definire
proposte come questa: fatua, stolta, stolida, sciocca, melensa, insipiente,
insipida, insulsa, insensata, sventata, disensata, scipita, svanita,
giangrulla... Una proposta, appunto, balorda. Lasciamo al proponente
la libertà di scegliere il modo più attinente al suo
gusto. E se, per pura ipotesi, credesse alle teorie lazzarone del
Lombroso, che distano anni luce dall'intelligenza degli italiani,
gli lasciamo la libertà di scegliere anche il modo più
attinente alla sua fisionomia.