§ Squilibrio e luoghi comuni

Perché il Sud perde colpi su colpi




Napoleone Colajanni



Come siano andate le cose negli anni '80 nel Sud è ormai arcinoto. Vale la pena, però, di ritornarvi, perché in questo modo si possono tirare somme scarsamente confutabili su alcuni temi che continuano immeritatamente ad essere controversi.
Fa una certa impressione dover continuare a ripetere che se l'economia italiano si espande, ciò non comporta il riequilibrio, ed anzi, in assenza di politica economica, si finisce per aggravare lo squilibrio. Il fatto è che certi luoghi comuni, usati per impedire ogni tentativo di politica industriale, sono duri a morire. Non ci si può contentare dell'ironia sulla madre dei fessi che è sempre gravida; c'è qualcosa d'altro e di più. Non si può accettare, per esempio, che si faccia in concreto politica industriale solo quando il beneficiario è un industriale del calibro di Gardini. Il DI. 18/5/89 n. 174 ha disposto la rateazione delle imposte dovute dalla Montedison per le plusvalenze realizzate in occasione della costituzione dell'Enimont. Nessuno mette in dubbio che l'operazione di razionalizzazione dell'industria chimica di base è da considerare positiva. Mi ricordo di avere espresso un parere in questo senso fin dal 1974. Semmai è grave che ci si arrivi solo ora, dopo aver sperperato migliaia di miliardi, e non per un atto consapevole, ma sotto la spinta della necessità per il gruppo Ferruzzi di non lasciarsi soffocare dai debiti della Montedison. Ma perché mai in una politica di interventi mirati nel Mezzogiorno, studiati in funzione di determinati investimenti, dovrebbe essere invece considerata come inaccettabile dirigismo?
Invece, l'ideologia dominante dell'epoca che ha fatto seguito alla "marcia dei quarantamila" di Torino impedisce che si affronti in termini seri e concreti questo tema. E i risultati si vedono. Si guardi a questa successione di dati: tra il 1981 e il 1983, l'occupazione nell'industria manifatturiera diminuisce del 3,5% all'anno nel Centro-Nord e del 2,1% al Sud, il prodotto lordo della stessa industria diminuisce dello 0,5 all'anno al Centro-Nord e dello 0,1% al Sud. Tra l'84 e l'87, il rapporto si inverte: al Centro-Nord l'occupazione diminuisce dell'1,7% all'anno, al Sud del 2,8%; il prodotto lordo aumenta al Nord del 3,7%, al Sud di meno della metà, l'1,8%. Tra l'81 e l'83, l'industria del Nord compie la sua razionalizzazione, mentre il Sud si immobilizza. Il risultato finale è che dopo l'80 la riduzione percentuale di occupazione è la stessa, 2,5% all'anno, ma l'aumento di prodotto lordo al Sud è l'1%, contro l'1,9% al Centro-Nord. La produttività al Sud aumenta del 3,5%, contro il 4,5%.
L'industria meridionale, dunque, non sembra godere degli effetti della ristrutturazione, se perde in produttività. Così la produttività dell'industria meccanica era del 79,4% della produttività del Centro-Nord nell'80; nell'87 è il 73,1%. Quella dell'industria chimica era l'85% nell'80, scende al 75,8%.L'industria alimentare perde quasi sei punti, dal 78,9 al 73%, segno evidente del fatto che la concentrazione produttiva spiazza il Sud. Persino l'industria dei mezzi di trasporto, malgrado gli investimenti Fiat in tecnologie avanzate, passa dal 93,4 all'89,7%. Dopo il 1984 non ciò al Sud un solo nuovo stabilimento più grande di 500 unità di lavoro; tra l'81 e l'83 ce ne sono tre, per complessive 2.100 unità lavorative. Per il Sud gli anni della rinascita della grande impresa sono fatti così. Le ideologie romitiane non valgono oltre il Volturno.
Al recente convegno di Urbino un punto è stato sottolineato, e sono convinto che meriti attenzione. Cafiero ha ricordato una sua vecchia indagine per la Svimez, in cui si sottolinea che al Sud non manca quella parte di capacità imprenditoriale che può essere definito come propensione al rischio. Ne fa fede il pullulare di iniziative rischiose, purtroppo il più delle volte ai confini della legalità, e spesso oltre. Quella che manca è la capacità a valutare razionalmente il rischio ed a prendere le decisioni conseguenti, organizzando i fattori produttivi.
Non ci si potrebbe perciò sottrarre al tema della politica da seguire. Uso il condizionale, perché, come ho già detto altre volte, la cosiddetta classe dirigente, di tutti i partiti, compresi quelli di opposizione, sembra affaccendato in tutt'altre faccende. Sappiamo tutti che la capacità di cui parlo non si improvvisa. Il punto è di smettere di ripetere slogans ormai stantii sulla questione meridionale come questione nazionale, parole ormai alla portata di qualsiasi demagogo, e sapere cosa fare per promuovere l'imprenditoria.
E naturalmente è un discorso che investe l'intero arco della politica, non solo quella economica, e con il respiro dovuto. Si tratta perciò di saper rinunciare alle dissipazioni e concentrare i mezzi finanziari in questa direzione. C'è da dare indirizzi operativi agli enti e attrezzarli in conseguenza. C'è da organizzare la ricerca applicata, e c'è da fare in modo che attorno alle grandi iniziative, che bene o male sono portatrici di questa cultura, si possa costituire una rete che sia capace di fare dei rapporti economici il tramite per la formazione di nuove capacità culturali.
E' questa una nuova politica meridionale e nazionale. Dev'essere perciò esplicita la rottura con cose che del meridionalismo non hanno nulla. La proposta del salario minimo garantito a tutti i giovani del Sud è un tipico esempio di meridionalismo straccione, subalterno e corruttore. Non mi pare lecito che si indulga a cose come queste. Il meridionalismo tornerà ad essere una cosa seria quando i meridionali, a partire dai giovani, avranno la forza di sbarazzarsi della tentazione della demagogia, e non daranno più spazio agli imbroglioni, comunque camuffati.

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