§ Trovatori e scuola siciliana

Un divorzio presunto




Sergio Bello



Nell'approccio critico e filologico ai testi ed alle forme delle composizioni letterarie della scuola siciliana, affrontare il problema delle origini facendo riferimento alla lingua provenzale ed a tematiche e strutture trobadoriche, rappresenta forse il momento più delicato, seppur ineludibile, dell'intera operazione.
Quanto detto risulta a maggior ragione vero se si pensa che, impedita la vista agli studiosi da quell'ideale paravento costituito dagli scarsi reperti musicali relativi ai testi poetici dei siciliani, si è venuto a creare quel luogo comune che vuole consumato con la letteratura italiana dei primordi il divorzio tra poesia e musica, lasciando quest'ultima un ricordo di sé nella mera terminologia di struttura (canzone, ballata).
Quella stessa musica che era inscindibile complemento del testo poetico dei trovatori, composta per lo più dai rimatori stessi, diventa ora occasionale appannaggio dei giullari.
Giulio Cattin, nel trattare di sfuggita l'argomento, adduce a motivazioni di ciò la formazione giuridica e notarile dei poeti della scuola siciliana, ponendo Federico II di Svevia, alla cui corte apparteneva la maggior parte dei poeti in questione, su di un piano diverso, essendo lui stato educato in ambienti chiesastici ed aristocratici (1), indipendentemente dal fatto che possa esser fondata o meno l'attribuzione al Puer Apuliae del dialogo "Dolze meo drudo", rinvenuto in una silloge polifonica redatta tra XIV e XV secolo (2). Tuttavia, malgrado la scarsità delle fonti ed al di là della diversa estrazione intercorrente tra l'imperatore e la sua corte di dotti, appare inverosimile che l'influsso dei trovatori si sia limitato al solo campo letterario, proprio perché di limitazione si tratta.
Inoltre, i contatti fra la corte fredriciana ed il mondo trobadorico non furono così indiretti come potrebbe sembrare: il punto d'incontro tra la cultura dell'Italia del Sud e la cultura trobadorica si ha in Bologna, città nella quale il numero degli studenti meridionali era, come è riscontrabile in un documento bolognese del 1224 (3), assai elevato, tant'è che, come si rileva da una testimonianza più tarda, gli Apuli formavano un gruppo speciale di scolari accanto a Toscani, Lombardi, Inglesi e Francesi (4).
E proprio a Bologna convenivano trovatori di Provenza: soprattutto dopo la crociata contro gli Albigesi, condotta nel 1209, resasi precaria la condizione dei giullari e dei trovatori provenzali, molti di essi attraversarono le Alpi e vennero accolti nelle corti dei marchesi di Monferrato, dei conti di Savoia, dei signori d'Este e dei Malaspina.
Ma oltre a questi pur importanti contatti, abbiamo in particolare notizia di due trovatori che ebbero a che fare, in luogo e data imprecisata, direttamente con la corte di Federico II: si tratta di Folquet de Romans e di Elia Cairel.
Allo stesso modo, i soggiorni nell'Italia settentrionale di Federico e della sua corte, specie in virtù di quanto detto circa le conseguenze della crociata contro gli Albigesi, sono senz'altro stati motivo d'incontro e di confronto con artisti provenzali. A prova di questo assunto si può addurre, ad esempio, la considerazione, sia essa positiva come negativa, che la figura di Federico aveva presso i trovatori: a proposito, ad esempio del vittorioso raid compiuto dall'imperatore in Germania ai danni di Ottone, cantava un trovatore:

Das chint von 'Pulle man chomen sach...
der Chaiser hete groezer chraft
doch wart das chint sighehaft
gar âne swertes slac:
diu gunst dem chint die menge wac ...
(5)

( Il bimbo di Puglia si vide venire... / l'imperatore aveva maggior forza / ma fu vincitore il bimbo di dura battaglia senza colpo ferire: / il favore della folla fu sempre con lui.)

Ma una prova ben più salda circa contatti tra corte imperiale e trovatori si cela dietro un episodio preciso: tale episodio riguarda Giacomo Morra, altrimenti detto Giacomo Pugliese, poeta di corte dell'imperatore, e profondo conoscitore della lingua della Provenza.
Per questi, Uc de St. Circ, un noto trovatore, scrisse di proprio pugno quella che è attualmente la più antica grammatica provenzale in nostro possesso.
Questo fatto riveste notevole importanza, in quanto Uc de St.Circ, proprio in seguito alla crociata contro gli Albigesi, verrò accolto tanto alla corte dei Savoia quanto a quella di Ezzelino e di Alerico da Romano a Vicenza (6); e ritornando al succitato Folquet de Romans, scopriamo che è stato ospite alla corte di Bonifacio I e Guglielmo IV, Marchese di Monferrato, a quella dei Del Carretto, Marchesi di Savona, ed a quella dei Malaspina, Signori della Lunigianci (7).
Dunque, appare evidente come siano proprio le corti settentrionali a fornire l'occasione per un contatto, diretto e non mediato, come era il caso di Bologna, tra trovatori e corte fredriciana. Ed un contatto peraltro per nulla superficiale, se un trovatore decide di far dono di un proprio scritto ad un membro della corte Staufen.
Aver citato Giacomo Morra rende possibile addentrarsi più direttamente nel nucleo del problema: se è vero che mancano fonti per così dire "tecniche" inerenti la presenza o meno di melodie accanto alle composizioni letterarie dei siciliani, quale può essere la succitata silloge polifonica contenente il dialogo attribuito a Federico di Svevia, è anche vero che è proprio in queste stesse fonti letterarie che rinveniamo elementi chiarificatori non di second'ordine.
Giacomo Motta, alla cui penna si devono le più belle canzoni in provenzale della scuola siciliana, ce ne fornisce uno nel discorso "Donna,, per vostro amore", che recita:

Versi fazo
Per voi, bionda,
Occhi gioconda
Che mi avete priso.
Or mi abraza
A le tuo braza.
Amorosa, Dubitosa;
………………..
Lo stromento
Vo sonando
E cantando,
Blondetta piangente.

Così come fra' Salimbene, a proposito di Federico, diceva che "... cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire." (8) ed a proposito di Manfredi Maletta, poeta e cantore tipico della corte sveva, scrive: "et est optimus et perfectus in cantionibus inveniendis et cantilenis excogitandis, et in sonandis instrumentis non creditur habere parem in mundo." (9). Sappiamo, oltretutto, più in generale, che Michele Scoto, il noto scienziato di corte Staufen, illustrò all'imperatore la dottrina musicale del periodo classico così come ce la tramanda Boezio, nonché le più recenti teorie di Guido d'Arezzo (10).
Quanto detto dovrebbe fugare ogni dubbio circa la presunta assenza di melodie a completamento dei versi dei siciliani, indipendentemente dalle distinzioni avanzate dal Cattin in quanto ad itinerario educativo; distinzioni che oltretutto mai si conciliano con quello che era lo spirito di Federico Il per quel che storia e tradizione ci hanno tramandato: lo spirito di un uomo capace di porsi, a pieno diritto, come animatore e modello di una corte recettiva come raramente ve ne erano state. Troppo recettiva per assimilare un'arte mutila.


NOTE:
1) Giulio Cattin, Storia della Musica, Il Medioevo, vol. I, pt. lI, edt., 163.
2) Cod. Reina, Paris, Bibl. Nat., Nouv. Acq. Fr 6771.
3) Cfr Cod. Diplom. Bar. I n. 91.
4) N. Tamassia, Odofredo, in "Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le Romagne", Bologna, ser. III, T. XII, 72.
5) E. Kantorowicz, Federico Il imperatore, Garzanti, 1988.
6) A. De Stefano, La cultura alla corte di Federico Il imperatore, Ciuni, Palermo, 1938.
7) Ibidem.
8) Chronica, in MGH. SS., XXXII, 348.
9) Ibidem, 472.
10) E. Kantorowicz, op. cit., Garzanti, 1988.


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