§ Dal museo d'ombre

Via Canicaraco




Nello Wrona



A Messina erano giù sei, e il sole non si era ancora spento nella fontana del Nettuno. A Villa San Giovanni, appena tre, mezz'ora prima, la mafia aveva raddoppiato, a Catania, a Gela, infine a Salemi, seguendo quasi i ruderi devastati di Federico II, mentre il traghetto bordeggiava nello Stretto.
Matar, dicono da queste parti. Come "mattanza". E poi carniceria, che è carneficina, e carnicero, macellaio, per "carnefice". Luoghi comuni, banalità, improvvida sufficienza sbarcavano sul molo peloporitano e, con queste, l'immagine usuale di un recinto di belve, circondato dalle acque.
Lo avevano già scritto gli Enciciopedisti francesi: "l'île n'a plus rien aujourd'hui de considerabie que ses montagnes et son Tribunal de l'Inquisition", sottolineando il germe di una violenza fanatica, figlia del clima e della latitudine.
Da Messina a Catania, un'esplosione di peschi in fiore, iridiscenze e distese di giallo, su prati ferocemente verdi. Non esistono colori intermedi, qui. Non esiste il grigio. Non esistono i mezzi toni. Il rosso sangue o il nero-velluto, come sui pupi delle fiere e dei baracconi allineati sul lungomare (il saraceno, baffi spioventi, emergeva tra gambe e braccia di fil di ferro e di legno, con lo scacciapensieri in bocca, e melodia va ringhiando il suono magico contro le cambiali). Una terra in credito, paziente, accovacciata, o distesa al sole come un gigante di pietra. In attesa.
Da Catania a Ragusa, e poi un'accelerazione fino a Comiso, immersa tra i carrubi, mitica come la sua fonte di Diana, vedetta all'orizzonte del mare di Camerina, di Vittoria, di Gela.
Trecento chilometri, e tutte le contraddizioni della Sicilia di oggi. Bella e crudele, ricca e povera, con il fascino freddo dei chips al silicio e con città senz'acqua, selvaggiamente militarizzata e con i moti spontanei del disarmo internazionale, fertile e sterile, lucente e fatiscente, con occhi moreschi e con pupille di madreperla, orgogliosa e petulante, sempre e comunque decisa a tutto. Nel bene e nel male.
Ma afir, dicono, ricordando i turchi possessori di Palermo. O maha, cava di pietra, pietraia e, per estensione, mafie, le cave di tufo di Marsala, segrete e rifugi nella roccia. Per il corpo 9 è oggi il triangolo della morte. I maxiprocessi. La marijuana sui balconi delle case. Senza eccezioni, su quattro colonne, a piombo infuocato.
Arriviamo a Comiso con questa immagine negli occhi, nonostante tutto. E' la domenica più splendida e luminosa del marzo siciliano.
In piazza e lungo il corso, una fiumana di coppiette mano nella mano. Ondeggiano seguendo la corrente. Alle nostre spalle, il riverbero smorzato della base missilistica. Ad est, dietro rovine d'ironica verticalità, Via Canicarao, l'anticamera profumata di rosmarino del Castello, la memoria di questa città, le memorie. Come le "Pietre di Pantalica" o come "Occhio di capra".
Di quest'altra triangolarità, non violenta, ma non per questo meno sanguigna, nessuno parla. Racalmuto-Sant'Agata Militello-Comiso: come dire, il tridente della narrativa italiana degli anni Novanta. Sciascia, Consolo, Bufalino. Ovvero, la Sicilia narrativa, sentimentale-evocativa, diaristica. Tre uomini soli, per venti stirpi di genti, dominate dalla fatalità. O dalla cieca speranza di una terra che è marca e frontiera.
"In Sicilia il bisogno di narrare, di scavare, di portare alla luce, è una conseguenza diretta dell'insoddisfazione sociale", ci disse un anno fa Consolo a Torino.
Echeggiava, sulle pigre acque del Valentino, l'avvertimento dei siciliani ribelli a Carlo D'Angiò: "Rivanghiamo la voragine dei nostri mali; traggiamo a riva l'alga corrotta nel profondo del mare. Avvii un estremo furore della sventura, una forza di necessità, una reazione dell'umana libertà".
Parlare, scrivere, testimoniare, per sopravvivere alla morte quotidiana, ai morti quotidiani. Per aggirare o per smitizzare i luoghi comuni.
Chi ha scelto la scrittura non è partito, come nella vicina Calabria. La terra non ha l'affronto di un'eco lontana. La voce viene dall'interno ed è un atto di fede, forse anche d'amore.
In Sicilia non nascono più scorticatori o profeti del buono e del cattivo tempo. Ma in Via Canicarao, dicono, quando le prime luci aggrediscono i muri diroccati, capita di sorprendere gli uomini avvolti in uno svolazzo di piume: dopo i lupi della notte, rinascono i serafini.

La Sicilia come metafora, ne "L'uomo invaso", e prima ancora in "Diceria dell'untore". Ma è solo metafora. E' solo un espediente, professor Bufalino?

"Sì, in certo qual modo. La nostra è regione composita, in cui gli aspetti tenebrosi e spaventevoli si alternano alle speranze, agli auspici, a intense trasformazioni. Voglio dire, fuori metafora, che noi oggi assistiamo in Sicilia, da un lato, a una serie di spinte in avanti - di tipo aggregativo ed omologativo - che pongono l'isola alla pari con le regioni settentrionali e comunque fanno respirare l'aria europea in questo profondo Mediterraneo e, dall'altro, ad una contropartita negativa di queste spinte in avanti, che fanno perdere alla Sicilia alcuni dei suoi caratteri anagrafici, originari. Parlo di una lenta e progressiva perdita di radici e di identità".

Vogliamo individuare almeno una di queste identità in via di dispersione?

"Il dialetto, per esempio, tanto per accennare al fenomeno più vistoso. E' difficile trovare oggi - nelle case della piccola o piccolissima borghesia isolana - bambini che parlino in dialetto, mentre prima la Sicilia era sicuramente una regione bilingue: aveva il dialetto e aveva l'italiano e, secondo i vari ceti sociali, quest'ultimo poteva essere corretto o soltanto un'imitazione dell'italiano. Voglio dire che oggi moltissimi bambini non parlano più il dialetto e parlano invece un cattivo italiano. Le cause? L'influenza dei mezzi di comunicazione, l'uso e l'abuso della televisione, una sorta di complesso di inferiorità di quelle famiglie che, parlando in dialetto, si sentono provinciali e periferiche rispetto alle famiglie che parlano in italiano. Non voglio dire che il progresso sia stato deleterio, ma sicuramente ha inciso".

Ritorniamo ai processi omologativi. Che cosa hanno (avuto) di così decisivo nella storia più recente dell'isola? E' un discorso ricorrente nei suoi libri...

"Hanno risvolti positivi e negativi, che sono poi le due facce della situazione siciliana. Positivi, nel senso e nella misura in cui è in atto una marcia verso l'Europa, cadono tabù secolari e intoccabili, si diffonde la cultura, irrompe nel costume della regione la modernità dei Paesi settentrionali, che noi in qualche modo imitiamo e assorbiamo. Negativi sono lo smarrimento dei ricordi e la perdita delle tradizioni, l'appannarsi irrimediabile di una certa immagine di società contadina ed operaia che va scomparendo e che costituiva una ricchezza, non solo morale ma anche memoriale, della nostra isola. La faccia vera della Sicilia è quella che troviamo sui giornali, ogni mattina, su quattro o cinque colonne, coi morti ammazzati, i clan, le mafie: insomma, tutto quello che costituisce il pane quotidiano dell'informazione e della cronaca, e della cronaca nera siciliana".

La civiltà contadina come mito, cioè come bene posseduto e poi smarrito?

"Ne rimangono soltanto relitti sparsi, e basta. Dei ruderi, anche fisici e tangibili, in qualche casolare di campagna, in qualche vecchio frantoio. Tutti oggetti ormai da museo e da collezione. Tant'è vero che in qualche paese siciliano si comincia già ad avere il culto di queste cose, come se appartenessero ad epoche remote e perdute. Cioè, si ha una sorta di archeologia del presente o del passato prossimo: invece di avere il solito museo con le anfore della Magna Grecia, si ha oggi il museo che ospita la bottega del ciabattino, il frantoio, la sartoria... Si ricostruisce, insomma, questa piccola civiltà contadina ed operaia. Il fatto stesso poi che siano diventati oggetto da museo testimonia e certifica che sono ormai un mito, una leggenda, qualcosa che in atto non esiste quasi più. Non direi che non esiste affatto; ne rimangono marginalia, in cose e persone che resistono nelle abitudini dei padri, ma è un fenomeno in via di esaurimento.Quello che duole è che questo fenomeno si esaurisca da un lato e che invece permangano dall'altro, anzi si trasformino in peius, le abitudini mafiose, la famosa trasformazione della mafia - da mafia agraria in mafia imprenditrice e industriale - nasce proprio da questa perdita di identità contadina. Naturalmente, non rimpiango quell'altra mafia, altrettanto crudele e devastante: ma almeno non c'era il delirio di sangue e di cadaveri al quale assistiamo oggi".

Amoral familism, la chiamava Banfield: panno azzurro o di velluto, stivali alla scudiera, berretto rosso e ferree regole di comportamento.

"Risparmiava per lo meno i bambini, non uccideva alla cieca per il solo gusto di sopprimere una persona. La nuova criminalità è invece, se posso dirlo, in netto peggioramento. Non risparmia nessuno. Non ha più regole, perché non si controlla e non è più controllata. O, in un certo senso, non è più controllata come una volta".

Se cambia la mafia, cambiano anche i costumi?

"Sì. C'è stato indubbiamente un mutamento nei costumi. Non si uccide quasi più per onore, ad esempio, e questo è evidentemente un vantaggio sociale. C'è poi una ricchezza diffusa, non si muore più di fame ed è scomparso anche l'accattonaggio che, nella sua vistosa immediatezza e brutalità offensiva, era l'aspetto più inverecondo della miseria siciliana. Si trovano ancora, sia chiaro, lembi di intensa miseria - nella zona di Palma di Montechiaro o di Agrigento e nell'interno della regione - in certe profonde anse, ma se confrontiamo l'immagine che offre oggi, anche dal punto di vista economico, la Sicilia rispetto a quella di mezzo secolo fa, il salto è stato decisamente gigantesco".

Un protagonista ne "L'uomo invaso" muore durante la prima Targa Florio. Una morte datata: 6 maggio 1906. Voleva essere un'anticipazione?

"Volevo metaforizzare il passaggio da una civiltà contadina a una civiltà delle macchine. E, infatti, il personaggio che muore non è una creatura comune. E' un personaggio che fa parte del folclore siciliano: "Giufà". Per i siciliani è il tonto, o il finto tonto. Se vuole, una maschera, come Pulcinella".

In ogni caso un'anima candida, che vende "una pezza di tela d'Olanda a una statua"...

"Sì, anche se io l'ho estrapolato un po' dagli stilemi tradizionali e ne ho fatto un personaggio un tantino diverso da come lo tramanda la voce popolare. In ogni caso, è una maschera che simboleggia una Sicilia perduta, che muore appunto sotto le ruote e gli ingranaggi della civiltà meccanizzata. Aveva un significato metaforico, quella morte sull'asfalto".

Ha scritto Neruda che si è legati ai ricordi come un fiore al proprio profumo. Tra quanto da lei pubblicato fino ad oggi c'è qualcosa che sia più immediatamente riconducibile al suo essere siciliano e a queste trasformazioni in atto?

"Un intero libro, o meglio un libro che è una raccolta di molti articoli, di argomento esclusivamente siciliano, La luce e il lutto. Il titolo è indicativo di questa duplice faccia della Sicilia. la luce rimanda alla pienezza vitalistica, allo splendore vitalistico dei sole nell'isola, dove tutto parla appunto di vita, di tensioni ferventi, al punto che perfino la morte può apparire uno scandalo, l'infrazione di una legge che dovrebbe essere sempre, fatalmente, legge di vita. Mentre in un Paese di nebbie - diciamo in un Paese nordico - la morte appare un evento naturale perché, d'inverno e tra le nebbie, sembra che tutta la natura congiuri e spinga verso il disfacimento e l'annichilimento, qui da noi il rigoglio, i colori, la luce parlano solo dì vita, lasciano immaginare solo la vita. E questo è l'aspetto solare, mediterraneo, della nostra cultura e della nostra civiltà. Il contrappunto è dato dal lutto, cioè dal senso della morte, che è connaturato al senso della vita, da noi. Tanto è intensa la sete di vita, altrettanto forte è il richiamo, la pulsione di morte. Thànatos e Bìos, in gioco alterno. Penso alla Sicilia come a una terra plurale, con questi due fondamentali requisiti: la vita e la morte, mai disgiunte".

Come in tutte le contraddizioni, non ci sono spazi per gli accomodamenti. La Sicilia si ama per amore o per necessità?

"Parlerei piuttosto di un atteggiamento di deplorazione e di compiacimento, per la Sicilia che si dissangua e per quella che, nonostante tutto, avanza nel futuro. Cioè, di fronte a questa terra si può fischiare e, contemporaneamente, battere le mani. Applaudo perché l'isola ha compiuto dei passi in avanti, forzando il suo destino di arretramento, di pigrizia mentale e di costumi tabuizzati (delitti d'onore, matriarcato, certi miti della verginità), che hanno in una civiltà moderna un sapore di retroguardia. Deploro, invece, la scomparsa di certe immagini - e delle, situazioni che le rievocano - di serenità, di onestà, di lealtà".

Rievocare significa entrare nel suo "Museo d'ombre". Lei si ammala e si cura con i ricordi. "Per ritrovare - ha scritto - in guerra col tempo, la mia dilapidata immortalità di bambino".

"Ho dedicato il Museo d'ombre al mio paese, a Comiso. E penso che ogni paese dovrebbe avere un libro analogo per i personaggi, le cose, i luoghi scomparsi o in via di inarrestabile decadenza. Gli studiosi del folclore - un Pitrè per la Sicilia o un De Martino per la Puglia, per esempio - hanno cercato di lasciare una documentazione su costumi ed usi di popoli e regioni; io cerco di lasciare una documentazione sulla sostanza umana: tipi, uomini, creature - con tanto di nome e di cognome - che hanno fatto parte del nostro vissuto infantile e che restano personaggi quasi di leggenda, finché non se ne perde la memoria".

Non si dovrebbe mai ritornare - dicono - sui luoghi dell'infanzia. Qual è stata, per Lei, la riscoperta o il sopralluogo più doloroso?

"Museo d'ombre è una sorta di archivio della memoria: personaggi, cose, frasi, colori, luoghi in via di estinzione. Doloroso è stato assistere alla morte di cose che un tempo erano vive, vivere questa morte in diretta, da protagonista. Resta solo la consolazione, di fronte a questo deserto, che attraverso la scrittura queste cose possano sopravvivere. Ho provato a ricostruire i miti della mia infanzia, come un Adamo scacciato dall'Eden, che, a un certo punto, vorrebbe ricordare per sempre l'albero del peccato e l'originaria innocenza. L'infanzia è innocenza, ma è anche scoperta del peccato. E la scoperta del peccato, la sua conoscenza, segnano l'uscita dall'Eden.
Il paese descritto e, oserei dire, cantato in Museo d'ombre era in fondo la mia infanzia e il mio paradiso. Ma un paradiso perduto, perché è il paradiso rivisitato da un anziano, per il quale i miti dorati - un ruscello, una compagna di classe della quale ero innamorato, le sue frasi, o un luogo di campagna in periferia -rappresentano soltanto luoghi o voci della memoria o scene in un cinema dell'immaginario che è stato cancellato dal tempo. Il tempo sopprime le memorie. Allora s'inventa la scrittura, come strumento di salvezza o, quanto meno, di sopravvivenza. Scrivere quel libro fu l'operazione privata di una resurrezione o, se vuole, la cristallizzazione di un mondo che amavo, che cercavo di immortalare per la misura della mia vita terrena. Lo rendevo immortale, per il tempo che mi restava da vivere".

Il migliore racconto, per Tolstoj, è quello che ancora si deve scrivere. Quale potrebbe essere, per Bufalino?

"Non sono un narratore puro, nel senso che non mi presto facilmente alle lusinghe della fantasia. Ho scritto molte cose, in parte vissute in parte inventate. Ma inventate come si possono inventare i ricordi. Sembra contraddittorio, inventarsi i ricordi, un possibile del proprio passato... Una storia? Forse quella della conquista, in età matura, della giovinezza, cioè la reinvenzione della giovinezza. Non so però se la scriverà mai. Ho vissuto le tappe fondamentali, come altri, della crescita. Ma mi sono reso conto che i vari momenti delle età, invece di susseguirsi come vorrebbero le leggi naturali, secondo una parabola di scaglionamento temporale, venivano a ripetersi, come in una videocassetta. Riesco ad essere, ancora una volta, bambino, giovane, uomo maturo, vecchio, in una specie di gioco, di carosello, di rimescolamento delle stagioni nel corso della stessa giornata. E' qualcosa che devo ancora verificare, controllare. Voglio sapere, in altre parole, se l'aggiunta una certa pienezza l'uomo possa giocarsi tutte le età, se non fisicamente, almeno emotivamente e psicologicamente. In fondo, la migliore età e le migliori storie sono quelle che arrivano per ultime".

Torniamo alla Sicilia. "Forestiero nella mia patria, non c'è passeggiata per gli asfalti di periferia che non m'affondi lunghi coltelli nel fianco": eppure l'isola è ancora un rifugio, un ventre molle e ovattato...

"Mi ha chiesto prima se questa terra s'ama per amore o per forzai per necessità. Ebbene, ci si nasce e quindi la si subisce. Tutto gioca in questa direzione: la famiglia, il paese, le abitudini, il respiro dell'aria, le amicizie, le parole. Si è come cere vergini, tabule rase, ma si è anche cultura. Natura e cultura, direi. I segni si portano sulla pelle, invariabilmente, e si riflettono sul pensiero. Mentre il mafioso o il semplice contadino sono espressioni di cultura locale, indigena, l'intellettuale ha, per evidente fortuna, una dilatazione maggiore e può, nello stesso tempo, essere uomo della propria terra e uomo di tutte le terre e di tutte le culture".

Appostato sulla montagna, la vedetta biblica annuncia al popolo il sorgere del sole. Qual è il compito dell'intellettuale in Sicilia?

"Ha un solo dovere, in Sicilia e in tutte le parti del mondo: dire la verità. Che non è soltanto, o non è sempre, la verità pubblica. Può essere anche una verità privata. Ci sono persone nate per essere portavoce della coscienza collettiva: a loro si richiede una verità che serva agli altri. Ma ci sono anche scrittori ai quali questo dono non è concesso. Non è che siano meno bravi degli altri, ma hanno la vocazione a dire di se stessi, ad essere testimoni della propria esperienza, del proprio mondo. Ci sono anch'io, tra questi scrittori. Ma la loro verità non è meno importante della verità pubblica.
Sono solito ripetere di avere imparato a non rubare ascoltando Mozart. Intendo dire che anche la verità musicale di Mozart, che non era naturalmente la verità musicale di Diderot, di Voltaire o degli altri illuministi, era una verità di armonia e di dolcezza. Anche la bellezza può essere pedagogica, come la verità. Sicché ognuno faccia la propria parte. La vedetta biblica può gridare ai quattro venti parole di giustizia, di libertà, di verità. Ma può anche cantare la sofferenza del cuore o la bellezza della luna sul lago. Avrà compiuto, in ogni caso, il dovere dell'intellettuale, servendo la causa della giustizia, della verità, della bontà".

Il suo ultimo romanzo è "Le menzogne della notte". In Sicilia costa di più dire o tacere la verità?

"Intorno alla verità esprimo tanti dubbi, nel senso che il mondo mi appare inverosimile e ambiguo. Per cui la verità risulta essere, sì, una parola con la V maiuscola, ma in fondo inattingibile e spesso inafferrabile. Ora, in questo contesto politico e sociale, di lotte e tensioni continue, si fa presto a dire: 'cosa costa dire la verità?'. Ho detto prima che si può benissimo gridarla, la verità. Ma, soprattutto, si può gridare la verità in cui si crede. Che poi questa sia la verità, è assunto tutto ancora da dimostrare.
Il nostro dovere è quello di esprimere coraggiosamente quello che pensiamo. Se poi quello che pensiamo è sbagliato, peggio per noi. Il fatto di parlarne, però, invita alla dialettica, al confronto e sollecita l'Umana convivenza. Potremmo avere, certo, lo scontro tra due verità o tra due approssimazioni alla verità, ma intanto sarebbe avviato un processo verso la conoscenza o verso quella verità che si intende stabilire più vera delle altre".

Costa di più, dunque, tacere la verità...

"Sì, tacere è un delitto, anche perché presuppone quel triste costume che da noi si chiama omertà, e l'omertà non si addice all'intellettuale. Sia chiaro questo: la parola dell'intellettuale non deve misurarsi in relazione al tipo di argomento o al 'tasso di socialità' che ha la sua parola. Quando Adorno affermava che dopo Auschwitz scrivere versi era una barbarie, diceva, a mio giudizio, una sciocchezza. Una nobile, bellissima sciocchezza.
Auschwitz è stato certamente un momento di imbarbarimento, ma di certo non il solo e non l'unico nella storia dell'umanità. Lo stesso interdetto ai poeti lo avremmo potuto avere per la prima Guerra, o per la carboneria o per i moti rivoluzionari. Di conseguenza si sarebbe dovuto considerare un delitto scrivere "L'infinito". Vogliamo mettere il Leopardi tra i reazionari? Lo stesso Leopardi del "Paralipomeni"? La sua socialità consiste proprio nell'aver scritto "L'infinito" o la "Sera del dì di festa".
Del resto, quando in periodo staliniano si processava la poetessa Achmatova per aver scritto di usignoli che cantavano di notte, disperatamente soli, non si compiva un'operazione dissimile da quella messa in atto oggi da Khomeini nel condannare a morte uno scrittore che, eresiarca quanto si vuole rispetto a quel culto, ha il diritto di dire la propria verità".

Quali segnali coglie dalla vicenda dei "Versetti satanici" di Rushdie?

"Il medioevo che sopravvive. Una sfasatura di secoli tra Occidente e quello che noi chiamiamo terzo o quarto mondo, che sembrano emergere dalle nebbie del fanatismo e dell'intolleranza religiosa e civile. Sembrano emergere, perché in realtà piombano nel più ottuso fanatismo. Sì, un medioevo fanatico, di fanatismo culturale. Credo però che sia il segno di una regressione soltanto transitoria e non permanente, perché vedo una marcia, forse troppo frettolosa, verso l'omogeneizzazione e l'omologazione con i valori occidentali, che, nonostante tutto, restano ancora di gran lunga i migliori. Del resto, la stessa evoluzione della Russia di Gorbaciov ci incoraggia in quest'analisi.
Quello che temo è una complicità del silenzio da parte dell'Occidente, nel senso che si esiti a condannare le decisioni reazionarie di Khomeini in modo rigoroso e feroce, come invece sarebbe lecito aspettarsi dalle altre nazioni".

Mi sembra che la sua condanna sia totale. Senza appello.

"Non potrebbe essere diversamente. Qui si adombra un tipo di civiltà sul modello di Fahrenheit 451, dove si bruciano tutti i libri, e la cultura, per sopravvivere, deve affidarsi alla memoria; una civiltà in cui i libri sono proibiti ed esistono squadre di bruciatori stipendiati che hanno il compito di scovare e di mandare al rogo i libri messi all'indice. Una cosa insopportabile".
Lasciamo Bufalino quando manca meno di un'ora alla mezzanotte.L'intento è quello di prolungare l'intervista fotografando Comiso immersa nella grande notte siciliana, palpitante di profumi. Le stradine si inerpicano e si affossano in meandri vigilati da esangui madonne infoibate negli angoli delle case. Se non fosse Sicilia, sarebbe la Bahia di Amado, con le sue Iadeiras a precipizio, dove a stento l'uomo può incamminare un mulo.
O una Tocaja grande, una grande imboscata, paradiso felice, che merita di essere dimenticato prima ancora di cominciare il racconto. "Perché ci viene facile raccontare?", ha sottolineato quasi con sorpresa Bufalino, accompagnandoci fino all'ascensore. "Forse perché ci aiuta il clima, la natura dell'isola, le coordinate geografiche.
Forse perché la Sicilia è un enorme teatro, con i suoi giochi e le sue maschere. Le sue feste e i suoi pupi. E viene spontaneo fare da mediatori tra la vita naturale e la vita creativa. La sicilianità è sentimento del teatro. E poi, non dimentichi, abbiamo alle spalle una storia che è il crocevia tra una moltitudine di genti e di stirpi ... ".
Ripercorriamo, sotto stelle lusitane e luna moresca, i gradoni dell'Eden scomparso. Chiese severe nascoste da ponti metallici, panni appesi alle finestre, qualche precoce fiore rosso sui balconi, un miagolio che si rincorre con l'ultima voce data, in mezzo tono, ad un amico. La solita ospitalità gentile e severa, anche nel grande abbraccio della notte. Silenzi amplificati fino all'inverosimile. Comiso, come metafora, come "Macondo", come ogni sud che si ripete a tutte le latitudini. La memoria e, poi, un salto nel vuoto. Le dominazioni, e poi l'anarchia. Qui, come altrove, la storia è una scommessa con il futuro. Il passato? Il passato - memoria, archivio, gioco di specchi, illusioni - corre veloce e danza come in una sbiadita ballata popolare. O come in una sagra di vecchi pescatori, che tirano a riva "inaffondati relitti". Il passato, lo raggiungemmo il giorno dopo, era nel castello di Canicarao, immerso nella sterpaglia e custodito da un uomo saturo di vino e di agnello. Il mondo cominciava e finiva là, per Bufalino: ma "bastò crescere un poco e i pupiddi caddero nella polvere, i pesci morirono, il castello languì nella mente e negli occhi, divenne quello ch'era sempre stato: una vecchia fatiscente bicocca, scolorata dal sole e lapidata dal vento".


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