§ Il tempo, le idee

Federico del Sud




Ada Provenzano, Giovanni Bonsegna



Ha scritto Giuseppe Galasso che la materia fridericiana è ancora oggi una delle più complesse, ampie e problematiche che la ricerca e la riflessione storica europee si possano proporre. Uno di tali problemi è rappresentato, per il Mezzogiorno d'Italia, dal rapporto tra la parte continentale e quella insulare del Regno. Il ponte essenziale sta nel forte spostamento che con Federico Il di Svevia subisce il centro di gravità della politica regia all'interno del Regno. Nella tradizione normanna questo centro aveva finito col collocarsi stabilmente e solidamente nell'isola di Sicilia. Nella seconda parte del Regno di Federico, esso si sposta, si trasferisce, invece, decisamente sul Continente. Federico dimostra appieno un orientamento politico che fa della Valle del Po la zona strategica risolutiva per i suoi complessi disegni politici. E' qui che egli pensa di dover vincere non solo la lotta per una restaurazione e per una salda affermazione del potere imperiale in Italia, bensì anche il confronto con i principi e con i potentati tedeschi per il predominio sovrano nell'altro paese membro del Sacro Romano Impero.
Sotto Federico divenne evidente come la parte continentale del Regno, già complesso eterogeneo di domini e di istituzioni, avesse ormai maturato una struttura unitaria e costituisse (come non era mai stato in precedenza) uno spazio economico-sociale e culturale sempre più nettamente caratterizzato. A questo punto, il suo peso demografico, finanziario, fiscale, amministrativo, e via dicendo, veniva a rappresentare nell'insieme del Regno il doppio di quello rappresentato dalla Sicilia. Nella condotta stessa di Federico il riflesso di tali condizioni si avverte chiaramente: sempre più raramente egli si recò in Sicilia; Palermo perse di fatto il lustro e la pratica, oltre che i vantaggi, del suo ruolo di capitale; l'Università del Regno fu collocata dal re a Napoli; la Capitanata divenne il centro logistico e anche il soggiorno preferito del sovrano; il personale di Corte vide una prevalenza nettissima dei continentali.
I meridionali saranno dunque chiamati per almeno un paio di secoli, collettivamente, "pugliesi", così come in seguito saranno chiamati "napoletani", e Puer Apuliae sardi per lo stesso Federico un appellativo storico di grande significato.
Insomma, il rovesciamento di ruoli e di importanza tra le due parti del regno appare, alla fine del periodo svevo, radicale e radicato. La politica di Carlo I d'Angiò non farà nei primi anni del suo regno, che accentuare e inasprire questa divaricazione, già a partire dal fatto che il nuovo sovrano porrà a Napoli la sua sede di fatto, quasi dimenticando Palermo e la sua tradizione di culla e di capitale dello Stato normanno.
Ed ecco, dunque, perché il Vespro siciliano non sarà solo il divampare estemporaneo di un'imprevedibile rivolta, né il semplice frutto di una lunga congiura internazionale di amplissimo raggio, come vogliono due tradizioni storiografiche di diversa antichità, ma egualmente consolidate. Ecco perché il Vespro avrà la forza e la determinazione di un moto lungamente maturato nel corso di un'alterazione strutturale dei ruoli e dei rapporti fra le due parti del paese; e non sardi per il Mezzogiorno la mutilazione, il rapimento della sua storica missione, di cui parla Benedetto Croce bensì l'esplicitazione di una diversità maturata proprio nel quadro dell'unificazione rogeriana, per l'unità che essa diede alla parte continentale del paese e per il prevalere, così, di questa parte nell'equilibrio interno del Regno. Che era pur sempre una monarchia feudale.
Federico appare come uno dei sovrani di ogni tempo più insistenti e più preoccupati di delineare le ragioni ideali e storiche della sua linea politica. Non si pensi solo alle Constitutiones e ad altri documenti particolari e settoriali. Si pensi all'intero corpus della sua corrispondenza e dei suoi atti di governo, compresi quelli di ordine giudiziario. La compenetrazione tra spinta politica e preoccupazione culturale è proprio uno degli elementi distintivi della sua rilevanza storica, conformemente a tutta la storia culturale e politica del suo tempo, ma anche in conformità ad una sua specifica, caratterizzante vocazione e scelta.
Il gruppo dei grandi giuristi da cui egli è circondato è di per se stesso, da questo punto di vista, un altro elemento distintivo di fondo della sua fisionomia e proiezione storica: un gruppo che non è solo di alti dignitari e di alti funzionari, di grandi commis dell'aula imperiale, di interpreti e di portavoce, oltre che di esecutori della volontà del sovrano; ma un gruppo che è anche di elaborazione, di riflessione, di formulazione dei principii a cui il sovrano intendeva riferirsi nella sua e con la sua azione.
In realtà, con Federico e intorno a Federico è un pensiero nuovo che comincia a prendere consistenza e corpo. Il vedervi già un prologo o addirittura il primo frammento di un pensiero moderno è un vero e proprio anacronismo storiografico, non meno di quello che nella politica di Federico in Italia vede un'anticipazione del movimento nazionale, risorgimentale, per l'unificazione politica del paese.
Una direttrice di lettura diversa, ma anch'essa assai poco persuasiva, è rappresentata dalla nota tesi del Burckhardt sullo Stato fridericiano come "opera d'arte": tesi dalle parentele (e forse è meglio parlare di parentele più che di ascendenze) nietzchiane, che largamente si è riversata nella più suggestiva biografia fridericiana di cui finora si disponga, vale a dire quella del Kantorowicz. Il pensiero nuovo di Federico e dei giuristi, intellettuali e collaboratori ruotanti intorno a lui va letto piuttosto sulla linea che sfocerà poi nella filosofia umanistica della politica, nella filosofia rinascimentale del potere, lungo un percorso che ha qualche analogia con il rapporto e le somiglianze tra il romanico e l'arte nuova del Quattrocento.
Il senso della politica e del potere che sembra di poter cogliere nell'azione di Federico è quello di una loro corposa e inscindibile globalità. La maestà sovrana, il prestigio imperiale, la tradizione romana, lo stesso ruolo di monarca cristiano si risolvono in una percezione ed esaltazione della immediatezza a cui il potere deve tendere nella sua affermazione, nella sua esplicazione.
Non è il potere - sembra di poter tradurre, in ultima analisi, dal "vissuto" dell'esperienza fridericiana - a discendere da maestà, prestigio, tradizione, ecc. La questione della legittimità è fuori discussione. E' piuttosto il potere - la forza del sovrano, l'adeguarsi ad essa di ogni controparte - a dare senso concreto alla maestà, al prestigio, alla tradizione, e via dicendo, sulla cui base il sovrano si muove. Se si potesse dire così, è il potere a legittimare la legittimità, a darne la legittimazione concreta costituita dalla sua possibilità di non restare una petizione di diritto, una facoltà, e di convertirsi in un dato o fatto politico e sociale, in una realtà, storica.
Non per nulla, l'azione di Federico fu la matrice di tante signorie e signori, di cui vari rami e rampolli finirono col superare largamente la prova del tempo. E signoria e ghibellinismo ebbero, in effetti, in Federico Il un leader che fu un simbolo e un mito al di là delle stesse posizioni di parte. Perciò, il ghibellinismo finirà nel complesso col cedere il campo ad una larga prevalenza guelfa e la signoria si premurerà di legittimarsi in principato, ma il senso dello Stato e del potere che finì col prevalere in Italia fu quello dello spirito di forza e di imperio che si affermò con Federico, con la sua sensibilità ad un criterio di autonomia insubordinabile della politica rispetto ad ogni petizione di principii etico-religiosi e di autorità diverse da quella sovrana.
Tutto questo sicuramente non è ancora Machiavelli. E ancora meno la "ragion di Stato". Ma è già lo spirito dei regni, dei sovrani superiorem non recognoscentes.


Ma il clima era già creato

Secondo Franca Patacchini, l'invasione dell'Italia del Sud fu "una lunga, strabiliante, leggendaria impresa, oscuramente iniziata da anonimi privati, dotati soltanto di eccezionale capacità militare e di travolgente energia, pronti a tutti i disagi, a tutti gli abusi, a tutti i rischi, a tutti i misfatti, a tutte le avventure".
I Normanni comparvero in Puglia intorno al 1076-1077, non è dato sapere se per proprio conto, o per conto dei Longobardi di Guaimaro IV di Salerno, minacciato dai Saraceni, o di Melo di Bari che sognava la rivincita sui Bizantini, o se infine spinti dallo Stato Pontificio e da papa Benedetto VIII. All'epoca, la situazione del sud della penisola era quanto mai precaria: ricacciati dalla terraferma dopo la battaglia del Garigliano, i Saraceni possedevano ancora la Sicilia; Puglia, Calabria e Lucania erano ancora sotto il dominio - in realtà formale - della remota Bisanzio; le potenti città marinare di Napoli, Gaeta e Amalfi, pur vessate da dissidi interni, vivevano indipendenti; a Benevento Capua e Salerno sopravvivevano i Longobardi. Tutto ciò spiega l'irrequietezza delle genti meridionali. Va sottolineato che, allora, l'Italia del Sud era economicamente più prospera dell'Europa del Nord, tanto che i potenti locali potevano pagare a prezzi alti mercenari per le necessità di difesa e per azioni militari.
Nel 1030, il primo capo normanno, Rainulfo, ottenne un feudo, la Contea di Aversa. Nel 1043, Guglielmo Braccio di Ferro, figlio maggiore di Tancredi d'Altavilla, fu acclamato conte di Melfi. Guglielmo fu il primo, autentico conquistatore del ramo Altavilla. Il secondo, e più celebre, fu un suo fratello, Roberto il Guiscardo (cioè l'astuto per antonomasia), nel quale "sembrano riassumersi ed esaltarsi tutti i caratteri peculiari antichi e nuovi dei progenitori".
La conquista fu rapida. D'altra parte, Guglielmo Braccio di Ferro aveva in feudo Ascoli, Dragone aveva Venosa, Rainulfo controllava - oltre ad Aversa - anche Siponto e buono parte del Gargano, e Melfi era il punto d'incontro di tutti. Compiuta l'unificazione del Sud continentale, Roberto ottenne da papa Nicolò Il l'investitura di Puglia e Calabria, e la "futura" investitura della Sicilia. L'isola, in realtà, fu invasa da Ruggero I, che preparò il trono al figlio, Ruggero Il, creatore di una monarchia che, nei fatti, nelle leggi e negli ordinamenti, anticipava quelle dell'età moderna.
Il segreto del successo dei Normanni va ricercato certamente nel loro "decisionismo", nella mancanza di scrupoli, nelle loro inesauribili energie; ma anche nelle immediate capacità "di assimilazione" in qualunque circostanza, "nella tolleranza attenta e intelligente, nel riconoscimento obiettivo di tutte le razze, di tutte le fedi, di tutte le consuetudini, di tutte le prerogative, di tutti i pregi e valori che venivano meravigliosamente a comporre un grande e assortitissimo regno, probabilmente scaturito, si può ben dirlo, dalla loro ineguagliabile abilità di conquistare prima e ad ogni costo -cioè anche con la forza bruta e con l'inganno - per subito dopo possedere e trasfondersi con grande magnanimità e con spirito illuminato. Questo irripetibile, indiscriminato spirito di ambientazione, di collaborazione e di coesione che essi seppero esprimere e suscitare nei popoli assoggettati, fu pertanto l'unico e il vero motivo della prosperità Intellettuale e materiale dell'Italia meridionale" nel corso della loro dominazione.
Non tutti i Normanni, fra l'altro, sparirono all'impatto con, gli Svevi. E la loro arte si fuse mirabilmente con quella dei nuovi signori del Sud. Il clima già c'era. E ci fu, quasi, continuità, rispecchiata in architetture che sono ancora oggi una lezione di stile e di civiltà.

Mafia e velocità di crescita

Riscatto nel segno di Federico

Secondo Bartolomeo Sorge S.J., direttore del Centro Studi Sociali, Istituto di Formazione Politica "Pedro Arrupe", di Palermo, il Sud è giunto a una volta storica, e persino drammatica, che disorienta chi non sappia coglierne la straordinaria novità.
Una svolta che impone preliminarmente tre riflessioni: l'esigenza di capire il senso di quanto accade intorno a noi; di stabilire le differenze strutturali che aggravano il secolare divario tra Nord e Sud; e, infine, di promuovere quel risveglio delle coscienze e quella concretezza operativa che sono l'unica speranza per il riscatto del Mezzogiorno. Il quale, secondo padre Sorge, sta vivendo una trasformazione culturale che lo sta portando dal pre-moderno al post-moderno, saltando a piè pari la fase del moderno. Una trasformazione in cui rischia di essere sacrificato un incomparabile patrimonio culturale, nato dall'incontro di tante civiltà ed espresso da valori come l'accoglienza, l'amicizia, il senso patriarcale della famiglia, la fede cristiana e una capacità di lavoro e di resistenza troppo spesso ignorata o scambiata per passività. Su questa cultura, già insidiata dai modelli omologanti dell'odierna civiltà di massa, secondo Sorge si è andata innescando la criminalità organizzata, facendone degenerare i valori tradizionali: il senso della famiglia in familismo, l'amicizia in omertà, e così via. Ma la mafia, questo tumore maligno che corrode il tessuto sociale, si può battere grazie ad una rinnovata tensione culturale, a nuovi strumenti di sviluppo economico che imprimano una diversa "velocità di crescita" al Mezzogiorno (in una nuova ottica di solidarietà che infirmi quanto di disumanizzante e di aberrante è legato alle tradizioni logiche dello sviluppo), e, infine, dando nuove risposte alla nuova domanda politica. Questa, la lezione emersa dalla straordinaria civiltà (che fu politica, legislativa, scientifica, letteraria e artistica) fiorita alla Corte di Federico II e in tutta l'Italia meridionale nella prima metà del Duecento.

Il carisma del potere

Una lezione di tolleranza

Tra passato e presente

Prendere a misura Federico II, nella contrapposizione tra passato e presente, è operazione stridente e dolorosa. Il grande imperatore di casa Hohenstaufen, realizzò nel Mezzogiorno d'Italia uno Stato efficiente e saldo, il primo, continuano a sostenere alcuni, "moderno e laico" uscito dai particolarismi del Medio Evo; oggi, il Sud stenta a trovare il senso e la presenza dello Stato.
Allora era saldo l'imperium dell'enigmatico signore, oggi rinnovati e sfuggenti poteri feudali rendono fragile la società civile e le istituzioni del Mezzogiorno. Amaro anche il discorso sul ruolo dei baricentri: allora a Palermo, Napoli, Foggia, funzionari e studiosi, poeti, astronomi, matematici, avevano la fierezza di essere nel vento della storia, e di dirigerlo essi stessi, mentre oggi molti intellettuali del Sud hanno la sensazione angosciosa che la storia si faccia altrove e senza il loro concorso.
La stagione fridericiana ebbe inizio formalmente nel 1198, quando il più eccentrico degli Hohenstaufen venne incoronato re di Sicilia; ma essa non ebbe soltanto una valenza italiana e mediterranea.
Nel 1214 il giovane monarca, che aveva raccolto l'eredità normanna, vinse la battaglia che gli assicurò la corona imperiale, e allora realmente il Mediterraneo fu il centro del mondo. Nel suo laboratorio politico meridionale, il "meno tedesco degli imperatori germanici" cercava di razionalizzare gli interessi e le spinte e controspinte dell'area nord-europea, del Vicino Oriente (essendo diventato re di Gerusalemme) e del Sud d'Italia, assurto a una maturità organizzativa mai prima sperimentata.
Il "Bel Reame" normanno-svevo, col suo principe sapiente ed esotico nei gusti e negli atteggiamenti, appassionato di poesia e di astronomia, di medicina e di falconeria, di matematica e di filosofia, e circondato da una guardia saracena, fu il cuore del Mediterraneo, e realizzò una costruzione politica unica, armonizzando i lasciti di tre civiltà, la latina, la greca e l'araba, inserendoli con vigore in un contesto europeo.
Ne riparliamo, oggi, com'è stato fatto in un recente convegno a Napoli, sfidando i rischi della contrapposizione epocale su un identico scenario territoriale, probabilmente ricercandoli, anzi, con un salutare scossone in una fase di torpore storico e sociale.
Come si giudica Federico? Secondo Ernst Voltmer, dell'università di Treviri, non si può mitizzarlo come artefice dello "Stato moderno"; ma quello creato nel Sud, aggiunge lo storico, "fu un primo grande esperimento, in gran parte riuscito di un regno centralizzato, giuridicamente unificato, amministrato e controllato burocraticamente secondo principii razionali". E Francesco Gabrieli chiarisce che il rapporto con l'Islam, pur avendo un rilievo fondamentale per Federico, presenta ancora oggi aspetti misteriosi, insondabili. L'imperatore conobbe l'arabo, ammirò e frequentò i dotti d'Oriente, e persino ippologi e falconieri della sponda araba del Mediterraneo, ma fu implacabile con i musulmani superstiti in Sicilia, che eradicò e riunì a Lucera (Luceria Saracenorum, fu per questo detta), con un personalissimo patto di fedeltà: furono la guardia imperiale, vale a dire uno strumento - estremo, vuole la tradizione - del suo imperium. Prese dal mondo islamico certe finezze di gusto, smise la rozzezza degli avi, amò circondarsi di animali esotici e di danzatrici saracene su cui malignamente favoleggiarono legioni di guelfi. Tollerante, aperto, rispettoso della religiosità altrui, fu soprattutto consapevole della straordinaria importanza del suo ruolo di imperator et rex al di sopra dei baroni, dei mercanti, dei prelati, degli stessi pensatori che, provenendo da mondi diversi, con differenti linguaggi, gravitavano attorno al Puer Apuliae.
Non fu solo statista e legislatore. Fu promotore di cultura - come si direbbe oggi - attento alle esigenze, e alle utilità, del sapere; e fu intellettuale egli stesso, versatile e curioso.
La formazione della scuola poetica siciliana, che costituì un contributo decisivo alla nascita della lirica italiana, e la fondazione dell'Università di Napoli, la prima nel Sud, e la seconda in Italia, dopo quella di Bologna, furono due momenti significativi dell'azione fridericiana, l'uno e l'altro comunque iscritti in un preminente disegno politico: la poesia serviva allo splendore della Corte; l'Università era funzionale alla creazione di una classe fidata di giuristi-funzionari.
Ripensare a Federico, oggi, significa porsi domande e suscitare riflessioni di vasto respiro. Che cos'è, attualmente, la modernità, e in quali rapporti sta con essa il mondo meridionale italiano? Nel nome di Federico sono da ricercare nuove aperture, o da rimpiangere vecchi arroccamenti? Il Bel Reame era saldamente in mano al suo principe, aquila solitaria su una platea di quasi-uguali: ma quest'organismo, così efficiente, era più moderno delle fermentanti realtà comunali dell'Italia settentrionale? Quali lezioni trarre dai lontani splendori? E quali indirizzi? E qual è il ruolo degli intellettuali nel Sud? E quale la funzione del potere politico?
In un continente, come quello meridionale, affollato da troppe ombre, non è possibile smuovere alcuna vecchia pietra, senza porsi domande difficili sulle urgenze dei nostri giorni. Allora, che fare? Certo, il Sud cerca di far pesare nell'azione di ammodernamento la ricchezza delle sue stratificazioni culturali, ma quest'azione non è sempre efficace: c'è carenza di istituzioni private, ed è debole la presenza pubblica.
E oltre tutto, e soprattutto oltre la frammentarietà delle iniziative, l'azione culturale non può limitarsi alla rivisitazione del passato; deve proiettarsi in un'analisi più attenta del presente. Innanzitutto, riflessioni e non nostalgia. Il ricordo di un potere politico non eroso dai particolarismi e non degradato dal meschino cabotaggio dovrebbe Far meditare, nel Sud e fuori. Così come dovrebbe far riflettere il ricordo di uno Stato efficiente (cioè "efficace"), che fece del Regno un polo di riferimento euro-mediterraneo. Il confronto con questo passato, a conti fatti, non è proprio in attivo.


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