§ L'art. 40 della Costituzione

Diritto di sciopero




Gennaro Pistolese



Il mal sottile delle agitazioni sindacali, particolarmente intenso in questa fase nel campo dei trasporti pubblici, della scuola, ecc., ha segnato nei primi nove mesi del 1988 una rinvigorita recrudescenza. Le cifre relative a detto periodo evidenziano che nel solo settembre, a causa degli scioperi, sono state perdute ore lavorative pari a 1 milione e 298 mila, con un aumento del 22,6% rispetto al corrispondente mese dell'anno precedente. Il bilancio dei primi nove mesi dell'88 si è chiuso con una perdita di 16 milioni e 545 mila ore lavorative nei confronti dello stesso periodo dell'87, con un aumento del 3%, che si traduce in quasi mezzo milione di ore perdute in più.
La situazione continua così ad essere criticamente cronica, in forza non tanto della complessità delle vertenze da risolvere, quanto invece del tatticismo di alcune organizzazioni extraconfederali, di complessa e spesso indefinibile fisionomia, della ridotta comunicabilità fra base e vertice di varie organizzazioni sindacali, della difficile attuazione di una filosofia e di una strategia, nuove, del Sindacato, che è difatti alla ricerca in un travagliato sforzo di una identità rispondente ai tempi.
Il coinvolgimento in questo travaglio di estesi ceti pubblici, a cominciare dalla Magistratura che aveva previsto azioni di sciopero poi rientrate, sta a dimostrare la profondità del malessere e degli squilibri che ne discendono ed ai quali ormai, senza ulteriori indugi, è necessario porre riparo.
Come talune agitazioni nel campo dei trasporti, ad esempio, hanno dimostrato, oltre la stessa grave interruzione dei servizi, ne è andata e ne va di mezzo la stessa immagine civile del nostro Paese, nel momento in cui esso rivendica il quinto posto fra i maggiori Paesi industrializzati del mondo e si prepara all'appuntamento del 1992.
Un fatto nuovo in questa materia - e si tratta di un fatto che interviene dopo 40 anni dalla Costituzione, dopo dibattiti, sollecitazioni da una parte e resistenze dall'altra - è costituito dalla disciplina nei servizi pubblici, esaminata e varata dal Senato ed ora trasmessa alla Camera. Come già a Palazzo Madama, l'esame a Montecitorio non sarà certo agevole, dato che a centinaia si calcolano gli emendamenti presentati.
Il testo ora in esame è il frutto dell'unificazione, e quindi del compromesso fra le quattro proposte di legge presentate dalla DC, dal PCI, dal PSI e dal PRI.
La chiave di volta che così si vuole instaurare nel sistema è determinata dalla sopravvenuta venuta generalizzata consapevolezza fra le forze politiche ed in parte anche fra quelle sindacali dei grossi guasti e disordini funzionali che sono derivati nel Paese. C'è da aggiungere l'assoluta inadeguatezza dei cosiddetti codici di autoregolamentazione, anche se battesimati con tanto ardore e tante speranze. C'è da sottolineare poi il diritto del cittadino di vedersi assicurato un minimo di servizi essenziali ed irrinunciabili. In questa logica, la nuova disciplina tende a:
- l'incentivazione della formulazione di codici concordati rigorosi, imposti all'osservanza di tutti i lavoratori, compresi quelli non sindacalizzati.
- la predisposizione di un sistema protettivo di misure atte a garantire in ogni situazione la soglia minima dei servizi.
- in caso di insufficienza dei comportamenti previsti dai codici e di loro parziale o completa inapplicazione, la precettazione, che verrebbe a costituire l'extrema ratio, rientrando questa fra i diritti-doveri dello Stato stesso.
- l'applicazione della nuova normativa all'igiene e sanità, ai trasporti pubblici, anche in concessione, alla disciplina del traffico, alla produzione ed alla distribuzione di energie, risorse naturali e beni di prima necessità, alla gestione ed alla manutenzione dei relativi impianti, all'amministrazione della giustizia, alla protezione civile, alle poste, alle telecomunicazioni, all'informazione radiotelevisiva pubblica, all'istruzione, con particolare riguardo agli scrutini ed agli esami nelle scuole pubbliche e legalmente riconosciute, nonché agli esami conclusivi dei cicli di istruzione universitaria, all'erogazione di assegni e di indennità con funzione, di sostentamento, alle dogane, con particolare riferimento al controllo su merci deperibili, alla raccolta ed allo smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali.
Altri punti salienti della normativa riguardano compiti e responsabilità delle imprese e dei Sindacati, nonché il carico delle sanzioni.
In merito al primo aspetto è da tenere presente che imprese e sindacati dovranno concordare le prestazioni indispensabili da assicurare nell'eventualità di sciopero. I termini di preavviso di agitazione e di comunicazione agli utenti sono fissati rispettivamente in 5 giorni per i trasporti in genere ed in 10 giorni quando si tratti di servizi di trasporto da e per le isole.
Quanto invece alle sanzioni, esse sono previste a carico dei lavoratori inadempienti, mentre nei confronti delle organizzazioni sindacali sardi disposta la sospensione per determinati periodi di tempo dei contributi sindacali che verranno devoluti all'INPS. A loro volta i responsabili di aziende ed enti erogatori di servizi pubblici essenziali saranno soggetti ad una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore a 200 mila lire e non superiore ad un milione.
Altre norme concernono le procedure per la precettazione, l'istituzione di commissioni per le relazioni sindacali nei servizi pubblici, nell'intento di favorire la soluzione dei conflitti di lavoro e così via.

Largo l'intreccio delle critiche
Molteplici sono le critiche che si manifestano a tutto questo riguardo. Si dice da molti che poco cambierà sostanzialmente rispetto al passato; che dato che le sanzioni sono poste a carico di chi proclama gli scioperi, se questi vengono effettuati senza la proclamazione, la legge viene aggirata ed aumenta solo il disordine; che per ridurre i disagi durante i conflitti sociali, soprattutto nei servizi pubblici, non servono regole sulle modalità di svolgimento degli scioperi ma quelle misure di prevenzione che sono estranee alla legge, così come questa è stata fin qui configurata. Dice al riguardo un esperto-operatore, e cioè Pierre Carniti, che "si tratta per esempio degli arbitrati, delle procedure di conciliazione, delle commissioni referenti ed altre ipotesi del genere che possono agire nelle fasi che precedono la proclamazione dello sciopero. La legge invece interviene troppo tardi. In sostanza si tratta di una legge che non Fa male a nessuno, ma è inutile".
I sindacati dal canto loro sono invece sostanzialmente d'accordo, e sempre secondo Pierre Carniti la ragione sarebbe da ricercare nel fatto che "il sindacato aveva la preoccupazione, una volta deciso di mettere le mani sull'articolo 40 della Costituzione, di limitare i danni e sembra che ci sia riuscito".
L'insoddisfazione si manifesta comunque anche sul piano parlamentare, con la conseguenza che il provvedimento approvato al Senato, rimaneggiato - come sembra possibile - alla Camera, dovrà essere rimandato a Palazzo Madama.
Dice al riguardo il relatore del provvedimento alla Commissione lavoro e Previdenza di Montecitorio, on. Borruso (DC) che c'è anzitutto una questione di fondo che riguarda la costituzione presso il CNEL di una commissione alla quale viene attribuito non soltanto il compito di indagine e di conoscenza sulle controversie di lavoro e di suggerimento delle misure necessarie a garantire i servizi minimi, ma anche una funzione di arbitrato. Si tratta - osserva sempre il relatore - di un tipico istituto mutuato dalla tradizione anglosassone, ma senza tener conto che il nostro sistema è del tutto diverso, basato sull'autonomia invece che sull'autogoverno. Si deve aggiungere a questo riguardo che siffatta funzione è stata fin qui esperita dal ministero del lavoro, con le alterne, sempre travagliate vicende che hanno accompagnato questi interventi. Il problema è quello di combinare questo duplice ordine di competenze, nel senso di definirne bene tempi, modalità, sfere operative, punti finali di equilibrio: problema, questo, tutt'altro che facile, quando si tratta dì realizzare convergenze che spesso hanno visuali di partenza diverse e certo non facilmente armonizzabili. Una vertenza nella vertenza, allora?
Altri punti da rivedere e da aggiustare vengono a riguardare le procedure, la determinazione più precisa di cosa si intende per servizio minimo essenziale da garantire; la necessità di predisporre regole per legge anziché affidarle ad una vaga autoregolamentazione; la possibilità predeterminata di estendere la normativa anche ad altri settori considerabili strategici, senza dover far ricorso ad altre normative aggiuntive e, come è facile prevedere, di difficile gestazione; la definizione di azienda: se solo pubblica od anche, se privata, svolgente funzioni pubbliche o se azienda privata tout court. Il che viene a riguardare ovviamente trasporti, sanità, scuola, ecc.; altrettanti campi di attività, questi, gestiti, come si sa, in forma pubblica e privata.
Si bada, in sostanza, da più parti a formulazioni chiare ed organiche, e soprattutto compiute. Secondo alcuni, ciò dovrebbe avvenire con la nuova legge, opportunamente rimaneggiata e perciò rinviata al Senato. Secondo altri, la legge è urgente e perciò bisogna vararla al più presto, nel testo senatoriale, con il rinvio ad un secondo tempo, con un bagaglio nuovo di esperienze, di una normativa più valida. La prospezione delle posizioni politiche dovrebbe provocare una scelta in un senso o nell'altro. Ma non è troppo tardi, dopo 40 anni, avere ancora innanzi queste scelte, che suscitano il timore di essere così poco mature nelle formulazioni e tanto lontane dall'esercizio di una doverosa responsabilità politica, che ha avuto molto tempo per non richiederne ancora tanto?
Anche per questa materia c'è purtroppo da constatare che la macchina pubblica, a cominciare da quella istituzionale, ha una velocità ben diversa da quella praticata dalla realtà civile, economica e sociale del Paese.

I larghi vuoti da riempire
Purtroppo i vuoti e le piaghe da riempire o da sanare sono tanti. Abbiamo detto del pericolo che abbiamo attraversato dello "sciopero in ermellino", quello dei magistrati, che è stato scongiurato. Ha detto al riguardo il Presidente della Repubblica che "l'astensione dall'esercizio di indefettibili funzioni sovrane, come quelle giurisdizionali conferite dalla Costituzione alla Magistratura non appare conforme alla posizione costituzionale dell'ordine giudiziario".Secondo alcuni giuristi, si tratta di una concezione comune alla dottrina ed alla giurisprudenza consolidate in alcuni Paesi, fra cui la Germania Federale, dove lo sciopero dei funzionari ed in generale di chi è preposto ad importanti o primari uffici pubblici è considerato inammissibile.
C'è da aggiungere che anche nelle convenzioni numeri 87 e 98 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, ratificate in Italia nel 1953, è previsto che i diritti sindacali ed anche quello di sciopero possano essere limitati e compressi per legge nei confronti dei militari, dei diplomatici, della polizia, dei magistrati. Abbiamo ricordato la data del 1953 e dobbiamo dire che si tratta di un indirizzo accolto in alcuni disegni di legge, mai però approvati dal nostro Parlamento. Chi provvederà a tenere aggiornati questi lunghi elenchi delle occasioni mancate? E chi adotterà per alcuni di essi il cosiddetto iter preferenziale?
Intanto, mentre la maturazione legislativa della materia sta avendo il corso di cui fin qui abbiamo detto, uno sguardo all'ordinamento giuridico in atto porta a concludere che tuttora la sola disposizione sullo sciopero attualmente in vigore è l'art. 40 della Costituzione che afferma "Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano". Il rinvio alle leggi regolatrici è stato rivendicato da molte parti politiche ed imprenditoriali, ma per lungo tempo è rimasto lettera morta, per le resistenze sindacali, per scelte politiche astensionistiche rispetto al tema o ad esse nettamente contrarie. E ciò nonostante qualche progetto sia stato formulato quasi all'indomani della promulgazione della Costituzione.
Ci riferiamo al progetto di legge Rubinacci (1951), che affidava l'esercizio alle associazioni sindacali riconosciute: la costituzionalità di una tale disposizione poteva però esser posta in dubbio, in quanto lesiva dei diritti dei lavoratori non organizzati e di quelle associazioni che non avessero ritenuto di registrarsi (essendo la registrazione stessa non obbligatoria ai sensi dell'art. 30 della Costituzione). Si contestava in quegli anni che il diritto di sciopero fosse riconosciuto anche ai pubblici dipendenti e lo stesso governo ha applicato talvolta le minori sanzioni previste dall'art. 47 del R.D. 2960/1923 per l'abbandono arbitrario dell'ufficio. Ma la giurisprudenza è risultata divisa.
Quanto al più generale orientamento della giurisprudenza e della dottrina, i punti di riferimento possono così riassumersi nelle loro più essenziali ed autorevoli definizioni:
- generalizzato riconoscimento dell'efficacia precettiva e non meramente orientativa della norma costituzionale.
- determinazione da parte della Corte di Cassazione (sin dal 1952, con sentenza del 7-6 di quell'anno, n. 7628) della nozione giuridica dello sciopero nei seguenti termini: "Secondo criteri comunemente accettati, per sciopero deve intendersi l'astensione collettiva dal lavoro concordata ed uniformemente attuata dai lavoratori subordinati al fine di risolvere un conflitto di lavoro e di conseguire una più favorevole regolamentazione del preesistente rapporto. Concorrendo queste condizioni essenziali al concetto stesso di sciopero, l'astensione non costituisce inadempimento contrattuale e giusta causa di risoluzione del rapporto, ma determina soltanto la sospensione del rapporto stesso". In senso conforme doveva pronunciarsi prima e dopo la magistratura, a cominciare dal Supremo Collegio nello stesso anno (31-5-1952).

Guardando a ritroso
Spingendo lo sguardo indietro nel tempo e allargando l'orizzonte di questa rapida panoramica, balza subito ai nostri occhi che le origini dello sciopero (e, si può aggiungere, della serrata) risalgono ai primi inizi della grande industria. L'uno e l'altro strumento segnano, hanno segnato, l'evoluzione del diritto del lavoro, l'affermarsi della libertà sindacale, il tutto con una serie di spinte che in talune fasi sono rimaste più o meno incontrollate e che in altre hanno suscitato interventi, la cui intensità è stata variabile a seconda dei momenti e dei contesti politici di riferimento.
Per gli studiosi, l'evoluzione dei singoli ordinamenti in materia di sciopero e di servizi può riassumersi in quattro periodi.
Durante il primo periodo, nel quale si configura il passaggio dalla fase artigiana a quella della grande industria, lo sciopero aveva tutte le carte in regola, per evidenti motivazioni economiche e sociali, ma incontrava dinieghi e divieti nei singoli ordinamenti. Regno Unito e Francia, che prima di molti altri Paesi avevano avviato la loro azione di industrializzazione, configurano la prima attitudine manifestata in questa materia. In un importante saggio sul Diritto Sindacale di Luisa Riva Sanseverino si legge: "mentre la legge Le Chapellier (14-17 giugno 1791 ) e la legge 22-4-1803 rifusa nel codice penale del 1810, come pure i Combination Acts del 1799-1800 vietavano ogni coalizione, gli scioperi erano generalmente la manifestazione impulsiva di un sentimento di ribellione dei lavoratori contro le dure condizioni che erano costretti a subire ed ebbero particolare diffusione, anche perché la classe lavoratrice mancava di qualsiasi tutela da parte dello Stato. D'altra parte la serrata costituiva un facile mezzo nelle mani dei datori di lavoro per vincere la resistenza operaia: questo tanto più in Francia, in cui disposizioni posteriori alla legge Le Chapellier introdussero discriminazioni a favore dei datori di lavoro per quanto riguarda il diritto di coalizione.
Il secondo periodo, a sua volta, va fino alla prima guerra mondiale. Ed è questo il momento più rappresentativo della svolta che si operava rispetto al passato, di consolidamento, di crescita, dì capillarizzazione del fenomeno produttivo, dell'entrata nel ciclo di ingenti energie di lavoro, di migliore qualificazione della loro stessa preparazione e casi via. E' questo perciò il momento della maggiore consapevolezza di diritti e di ruoli sociali, che poi la dinamica produttiva, le sue nuove strategie, i fermenti popolari connessi e conseguenti a prodromi della prima guerra dovevano ulteriormente lievitare. Il finalismo degli interventi registrati in questa materia è stato quello di portare la pace nel mondo del lavoro con l'intento anche di una maggiore attivazione produttiva, oltre che di avvio e di consolidamento della giustizia sociale. Si ebbe così il riconoscimento vero e proprio del diritto di sciopero. E difatti nel Regno Unito con i Combination Laws Repeal Act del 1824-1825 si riconobbe per i lavoratori il diritto di coalizione e dopo il 1850 si avviò il sistema verso una condizione di pacifica soluzione dei conflitti di lavoro, così che lo sciopero e la serrata venivano considerati come mezzi, estremi di lotta. Sulla stessa strada si poneva la Francia con la legge 27 dicembre 1849, con una perfetta sintonia sia finalistica sia strumentale.
E' in questo ambito, normativo e di battaglie e rivendicazioni, che lo sciopero vede ingrandita e garantita la sua rilevanza operativa e di gestione, con il fine principale anche di ottenere, oltre che dal datore di lavoro, dallo Stato un assetto sociale, anche di legislazione, più consistente ed avanzato. Con queste motivazioni i lavoratori fanno ingresso anche nella vita politica, con le puntualizzazioni che detto ingresso ha in talune formazioni politiche a cominciare da quelle estremiste rivolte alla conquista del potere.
E veniamo al terzo periodo, che riguarda la fase storica così tumultuosa, intercorrente fra le due guerre mondiali. Dicono gli studiosi che questo è il periodo nel quale lo sciopero risulta meno giustificato sul piano degli interessi professionali, mentre si sviluppa sempre più sul piano politico generale. E ciò avviene perché i partiti acquisiscono spazi sempre maggiori, fanno prevalere le loro spinte sociali sulle altre, strumentalizzandole spesso, scendono maggiormente e direttamente oltre che nelle piazze anche nelle aziende, massimalizzano le loro rivendicazioni che spesso vengono a riguardare più i numerosi che i bisognosi. La storia di queste vicende e di queste attitudini è sotto i nostri occhi. Commenta sempre la Sanseverino che "in questo periodo la generale diffusione del contratto collettivo e l'adozione di sistemi di conciliazione e di arbitrato davano già una certa garanzia per un'adeguata tutela degli immediati interessi professionali dei lavoratori, i quali usarono perciò lo sciopero soprattutto a sostegno della tendenza a partecipare alla gestione dell'impresa ed in generale al governo dello Stato. In questo clima, aumentano gli scioperi generali: il che provoca la rinnovata adozione di misure restrittive, concretatesi sia nel divieto di sciopero nelle imprese di pubblica utilità (Canada, Stati Uniti), sia nel divieto di qualsiasi forma di sciopero (Italia, ma esso ha a che fare con le leggi fasciste del 1927, Carta della libertà Lavoro, Corporazioni, ecc.)".
Il quarto periodo è, infine, l'attuale. Esso si caratterizza con il riconoscimento ai lavoratori della massima libertà d'azione, con una pratica generalizzata del diritto di sciopero, anche al di là delle sue concrete normative. E' il caso del Regno Unito, dove la legge 22 marzo 1946 ha abrogato il divieto dello sciopero politico e di solidarietà. E' il caso della Repubblica Federale Tedesca, nella quale il diritto di sciopero, per quanto non formalmente riconosciuto, rientra nel quadro delle libertà politiche e sociali. Negli Stati Uniti, infine, non manca una normativa diretta a porre determinate condizioni e limiti all'esercizio del diritto di sciopero (legge Taft Hartley, 23 giugno 1947).
Per contro il divieto del diritto di sciopero è praticato nei Paesi ad ordinamento marxista leninista, in cui, essendo scomparso l'imprenditore privato, lo sciopero non può che concentrarsi in un'azione contro lo Stato e viene conseguentemente represso. E ciò perché - e qui siamo sul piano di un fideismo tutt'altro che veritiero anche nelle sue enunciazioni - ha assunto la direzione generale della vita economica allo scopo di elevare materialmente e spiritualmente le condizioni di vita dei lavoratori.
L'URSS, anche nel suo nuovo corso gorbacioviano, che non fa alcun cenno in senso revisionista alla materia, Polonia, Romania, sono rigidi pertanto in questo divieto. In altri Paesi, pur basati sull'intervento sistematico e prioritario dello Stato non esiste un siffatto divieto. E' il caso della Jugoslavia, nella quale la legge si limita a stabilire che tutte le controversie collettive nelle imprese private, cooperative o di Stato vengano giudicate dai tribunali del lavoro. E' una sorta di corporativismo che rivive per queste applicazioni ai nostri confini orientali.
C'è da aggiungere che anche in Paesi democratici operano forme più o meno evidenti di divieto o di stretto condizionamento dello sciopero, come è il caso dell'Australia e della nuova Zelanda, con il fine di garantire, attraverso l'avocazione allo Stato della risoluzione di controversie collettive, la massima stabilità economica e sociale.
Pur in presenza di siffatti divieti, i vari ordinamenti prevedono organismi e condizioni di lavoro fondati sulla disciplina per contratto di lavoro e su appositi organi giurisdizionali.
Ma entriamo maggiormente nei contenuti in atto nei vari Paesi che affiancano ai riconoscimenti specifiche condizioni e determinati limiti.
Negli Stati Uniti, come detto prima a proposito della legge Taft Hartley, vige un divieto assoluto di sciopero per i dipendenti dello Stato ed i trasgressori sono puniti col licenziamento disciplinare, perdendo il loro status di "civil servant" e non potendo per la durata di tre anni essere assunti da enti parastatali o da enti pubblici in generale. Sempre in forza di questa legge, negli Stati Uniti il Presidente ha facoltà di nominare una commissione d'inchiesta e, sino ad una data determinata, lo sciopero può vietarsi a mezzo di un'ingiunzione. Inoltre la pubblica autorità è abilitata a prendere tutte le misure necessarie onde assicurare la continuazione o la ripresa del lavoro (occupazione degli stabilimenti gestione coatta, ecc.). Siffatto intervento dello Stato per evitare l'interruzione di determinate attività in caso di sciopero risulta pertanto connesso alla distinzione da un lato fra lo sciopero nei servizi pubblici e nelle imprese di pubblica necessità o utilità e, dall'altro, fra ogni altro sciopero, che viene sottoposto, a particolari condizioni di legittimità, ad effettiva applicabilità variabile, come l'esperienza dei grandi scioperi americani sta a ricordare. Sempre negli Stati Uniti (ma anche in Canada e nella Repubblica Federale Tedesca in forza della giurisprudenza), la legge Taft Hartley 23 giugno 1947 ammette il divieto di sciopero durante il periodo di validità del contratto collettivo e stabilisce altresì che non si debba dichiarare uno sciopero quando e sino a quando sia in corso una procedura di conciliazione e di arbitrato.
Per di più in vari Paesi lo sciopero è legittimo solo quando si verifichino:
- l'esistenza dei motivi espressamente specificati dalla legge;
- il perseguimento di scopi non espressamente vietati (negli USA si tratta dei cosiddetti scioperi giurisdizionali, ritenuti incompatibili con il principio della libertà sindacale);
- previo referendum fra i lavoratori interessati o adesione della maggioranza dei lavoratori organizzati;
- regolare preavviso alla controparte; detto preavviso viene talora fissato dalla legge (sessanta giorni per la denuncia del contratto collettivo negli USA). In altri casi detto preavviso è lasciato per la sua durata ai criteri delle parti. Così è in Danimarca, Svezia, ecc. L'obbligo del preavviso comporta in alcuni Paesi anche l'obbligo della notifica all'autorità preposta alla conciliazione o, in mancanza, alla pubblica autorità. In queste legislazioni si prevede spesso che durante il preavviso non solo è proibita qualsiasi azione diretta, ma le parti sono tenute anche ad osservare le vigenti condizioni di lavoro. Le legislazioni canadese, statunitense, sudafricana, ecc. contengono anche disposizioni per la tutela del lavoratore durante il preavviso di sciopero, vietando i licenziamenti, esigendo la riassunzione, garantendo il mantenimento delle condizioni contrattuali.
Infine in molti Paesi il legislatore esplicitamente esclude (e condanna) che lo sciopero sia comunque caratterizzato da forme minacciose o di forza.
La tutela del lavoratore contro i licenziamenti di rappresaglia, il divieto dei licenziamenti durante lo sciopero e talvolta anche per un periodo successivo alla sua cessazione, la limitazione del crumiraggio, sono altrettanti capisaldi largamente presenti in molte legislazioni. In taluni Paesi, poi, sono previste la cessazione di funzionamento del servizio di collocamento durante uno sciopero o una serrata, l'interruzione dell'esecuzione del contratto di lavoro con la conseguenza che il lavoratore perde il diritto alla liquidazione, mentre la continuità di applicazione delle leggi sociali e di quelle previdenziali in particolare è variamente regolata nelle singole legislazioni.
Come si vede, il panorama è notevolmente frastagliato. Nella quasi assoluta totalità dei Paesi Occidentali, con qualche eccezione per qualcuno dell'Est, il diritto è generalmente riconosciuto. Variano sostanzialmente le modalità fra Stato e Stato ed il fatto risponde alle diverse condizioni politiche e sociali, ai diversi tempi di predisposizione delle norme, allo spiccato senso di autonomia dei singoli Paesi in questa materia, che anche per quanto riguarda la CEE e l'appuntamento del 1992 vedrà i Paesi partecipanti camminare più o meno tutti in ordine sparso. E ciò nonostante l'unità integrata avrà come uno dei suoi maggiori poli di attrazione e di attuazione proprio il campo del lavoro: con la libera circolazione degli uomini, nelle loro espressioni di civiltà e di socialità, certamente prioritarie rispetto a quelle dei prodotti e dei capitali. Di qui la necessità di guardare a fondo in questa materia, dovendosi rilevare che al momento le nostre distanze dagli altri Paesi partecipanti pure per questa tematica sono notevolmente sensibili.

Ispirazioni ed impostazioni lontane
Eppure anche in Italia le nostre ispirazioni in questa materia sono lontane, anche se limitate. L'ordinamento in vigore sino al 1890 ammetteva limiti rigorosi alla libertà di coalizione di datori di lavoro e di lavoratori, con i correlati interventi della magistratura che tuttavia ebbe sovente a pronunciarsi con qualche incertezza. Ciò era anche in relazione con il diffondersi delle agitazioni operaie, dalla cui comprensione doveva discendere nel Codice Penale Zanardelli l'ammissione implicita della libertà di coalizione, che è poi la matrice dello sciopero. Sotto il capo dei "Delitti contro la libertà del lavoro", il codice si limitava a considerare autonomamente ed a punire le minacce e le violenze tendenti a coartare la libertà d'industria e di lavoro, senza richiedere quella circostanza del previsto concerto, in ogni caso implicita nell'azione sindacale diretta: si trattava quindi, commentano gli studiosi, di una semplice specificazione del delitto di violenza privata.
Precisa sempre Luisa Riva Sanseverino, nel suo studio, che nell'ambito dell'ordinamento in atto si venne poi delineando una notevole elaborazione dottrinale circa gli effetti dello sciopero sul contratto di lavoro, sostenendosi la semplice sospensione del rapporto, sia in base alla teoria di una inesecuzione qualificata dalla tutela dell'interesse professionale, sia richiamando i principii della buona fede in materia di esecuzione dei contratti e delineando una giusta causa di inadempimento, sia considerando lo sciopero come un rischio inerente all'organizzazione dell'impresa, sia dando importanza determinante a quello che è l'effettivo intento dello scioperante. Tale movimento venne affiancato dalla giurisprudenza dei probiviri (legge 15 giugno 1893 n. 295), la quale sia pure varcando talora i limiti di quello che poteva considerarsi come il vigente ordinamento positivo e ponendosi in antagonismo con la giurisprudenza togata, ripetutamente riconobbe il diritto di sciopero come legittima azione o reazione nell'ambito del rapporto di lavoro, applicando con grande larghezza l'esimente della exceptio inadimpleti contractus.
Sono questi gli antefatti che in Italia hanno condotto poi all'interruzione del ventennio fascista, con tutta la legislazione del 1926 e di quella posteriore, con la successiva loro decadenza ed i rinnovati sforzi legislativi di cui abbiamo parlato agli inizi.

La realtà che ci è dinanzi
Allo stato di fatto, la realtà è al momento configurabile come la delinea C. Giugni nella voce Sciopero nell'Enciclopedia Pratica di Direzione Aziendale. E cioè le conseguenze penali dello sciopero sono ormai venute a cessare per l'implicita abrogazione degli articoli 502-503 del codice penale, seguita al mutamento istituzionale determinato dalla fine del regime fascista e dall'esplicita abrogazione dell'ordinamento corporativo.
Ferma restando quindi la non perseguibilità penale delle varie forme di sciopero, gli effetti giuridici dello stesso si concretano nei seguenti termini:
- il rapporto di lavoro resta in vita, ma ne viene sospesa l'efficacia, restando sospeso l'obbligo della prestazione e conseguentemente quello della retribuzione.
- non sono sospesi né l'obbligo della fedeltà, né quello della decorrenza dell'anzianità.
- in caso di danneggiamento commesso in occasione di sciopero sarebbe ancora applicabile l'aggravante di cui all'art. 635 n. 2 C. P. (Cassazione, Sezioni Unite, 2,4-2-1931, n. 3).
Fin qui la realtà che è innanzi a noi. Con tutti i suoi precedenti, con tutta l'evoluzione che la materia ha avuto nel tempo, con le variazioni intervenute nelle forme di agitazione (che dalla loro prima ispirazione di contrasto contrattuale sono passate ad altre forme: di solidarietà, di protesta, di politicità, di metodi operativi, di organi di indizione, ecc.). Non sempre tutte queste forme sono rientrate nella liceità, hanno evitato di ridurre al minimo e comunque al sostenibile il disagio pubblico, sono state producenti per gli stessi lavoratori.
Riportare tutta questa problematica al massimo equilibrio conseguibile con l'impostazione, la definizione, l'operatività di una nuova normativa, atta a preservare il diritto individuale, a determinare titolarità del diritto di sciopero e condizioni di esercizio, è l'imperativo del momento, probabilmente con un occhio politico e parlamentare in ispecie di quello che oggi non appaia.
In sostanza l'attuale panoramica ci offre due modi di affrontare e risolvere il problema. Vi sono legislazioni che semplicemente lo permettono (sciopero-Iibertà) e sono particolarmente fra queste quelle anglosassoni. E vi sono altre legislazioni che proteggono lo sciopero stesso (sciopero-diritto). E' il caso dell'art. 40 della nostra Costituzione, del preambolo della Costituzione francese, e poi oltre Oceano della Costituzione Brasiliana, della Costituzione Messicana, ecc..
Sono sempre norme ed indirizzi che devono avere urgentemente un seguito per meglio plasmarsi sulla realtà alla quale dovranno essere applicati, anche alla luce di una nuova filosofia della realtà del produrre, delle relazioni sindacali, del modo di essere stesso del Sindacato.


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