§ Le banconote queste sconosciute

Teologia morale della cartamoneta




M.C.M., FA., A.F



"Probabilmente non esiste al mondo un oggetto più familiare della banconota e, nello stesso tempo, più sconosciuto. Impariamo ad usarla fin dalla prima adolescenza e poi essa ci accompagna con quotidiana regolarità per tutto il resto della vita. Eppure non la conosciamo, non sappiamo com'è fatta, né tantomeno i motivi per i quali è fatta in un certo modo. Sappiamo soltanto usarla; ne conosciamo la funzione, ma l'immagine ci rimane ignota".
Sono parole di Roberto Mori, che abbiamo letto sul catalogo di una singolare mostra ideata e organizzata da una fondazione culturale a Palermo. Titolo: Riverita come l'oro - Due secoli di carta moneta in Italia - 1746-1956.
In effetti, la carta moneta non ha avuto da noi il posto che le compete, adeguato al ruolo e alla funzione rappresentati da più di due secoli nella storia italiana; la moneta di carta (secondo alcuni studiosi, attualmente circolano in tutto il mondo oltre cinquanta miliardi di esemplari) non è oggetto di una specifica scienza, come lo è la numismatica per le monete metalliche, e viene ignorata in altri ambiti di ricerca (la storia, l'arte, la stessa economia), mentre le vicende che la riguardano sono suscettibili di essere approfondite da molteplici punti di vista. I loro recto e verso rappresentano una sintesi di documenti, dal punto di vista della storia politica ed economica, particolarmente significativi, in quanto si intrecciano indissolubilmente con le articolate e complesse vicissitudini che, per quello che più da vicino ci riguarda, segnano i due ultimi secoli della nostra vicenda nazionale. Senza dimenticare il valore più propriamente iconografico di questi rettangoli di carta, spesso vere e proprie opere d'arte di minuta incisione, di tecnica e di stampa.
I primi esempi di circolazione cartacea si ritrovano nei documenti di società bancarie cinesi del IX e del X secolo. Già nel XIII secolo esistevano, presso i banchieri italiani, gli antenati della banconota, vale a dire le fedi o ricevute di deposito (che non erano ancora "denaro", comunque, ma soltanto certificazioni della sua esistenza e della sua disponibilità).
Nella sua attuale concezione, la moneta di carta, dopo vario dibattito teorico, appare infine nel nostro continente, allo scadere del XVII secolo. Ne fu propugnatore il banchiere scozzese John Law, il quale scrisse un memoriale per dimostrare che "c'è un nuovo tipo di denaro migliore dell'oro e dell'argento", e sostenne l'idea, a dire il vero rivoluzionaria per i tempi che correvano, che la banconota non era un succedaneo della moneta, ma che il denaro era una semplice funzione, uno strumento per facilitare lo scambio fra merce e merce.
La rivoluzionaria tesi di Law stentò moltissimo nella pratica attuazione, anche perché la prima sperimentazione da lui stesso tentata, attraverso la Banca Generale di Francia, naufragò nel fallimento; ma la rivoluzione teorica del banchiere scozzese segnò, in ogni caso, l'inizio di un nuovo sistema monetario e di un modo moderno di concepire la banca.
Anche gli esperimenti italiani, avviati in Piemonte nel 1746, stentarono ad affermarsi e fino alla metà dell'Ottocento la moneta metallica continuò ad avere assoluta prevalenza, mentre la carta moneta veniva emessa soltanto in situazioni eccezionali, come in caso di assedio, di rivoluzione o di governo provvisorio. C'è, in questo campo, una tipologia quasi del tutto sconosciuta, ma preziosissima. Si pensi ai biglietti emessi dalle Regie Finanze di Torino dal 1780 al 1799, la cui caratteristica singolare, destinata a rimanere unica, è quella di recare su ciascun esemplare la numerazione a mano e la firma autentica di quattro delegati del governo. Altrettanto celebri e rare le monete della Repubblica Romana (la prima), emesse dal Governatorato napoleonico in sostituzione di quelle pontificie, la cui unità di misura era il "bajocco'' e il relativo sottomultiplo, il "quattrino" (ce ne volevano quattro per fare un bajocco) è tuttora voce corrente: esemplari davvero storici e testimonianze uniche della monetizzazione napoleonica in Italia, se si pensa Che, in quel periodo, non vi furono emissioni ufficiali di moneta: a Milano fu fondato, con caratteristiche di banca, il Monte Napoleone, il cui nome si conserva ancora nell'omonima via, il quale non emise banconote, ma solo "buoni" datati dal 1808 al 1811, ora rarissimi.
Seguono le monete emesse dalla Banca Nazionale degli Stati Sardi, sorta attraverso la fusione delle Banche di Genova e di Torino; quelle emesse dalla Banca Romana, nota per lo scandalo che ne accompagnò la liquidazione d'autorità nel 1893, che fungeva da istituto di emissione negli Stati Pontifici dal 1833; le monete patriottiche di Venezia, emesse dal governo che resse per un breve periodo la città nel 1848; la splendida serie del Banco di Napoli dal 1893 al 1907, in cui (dopo uomini politici e re comparsi sulle banconote piemontesi) figurano per la prima volta scrittori ed artisti, come Giambattista Vico, Gaetano Filangieri, Torquato Tasso e Salvator Rosa.
E, ancora, le banconote emesse dalla Repubblica Romana (quella mazziniana); e quelle emesse dal Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro, che avevano una circolazione nel Regno delle Due Sicilie, a dimostrare che l'abitudine della carta moneta era abbastanza diffusa già prima dell'unità d'Italia, cui non fece seguito, automaticamente, l'unità monetaria: sul territorio nazionale potevano circolare soltanto i biglietti emessi dalla Banca Nazionale (nel 1866 aggiungerò nella direzione "nel Regno d'Italia"), mentre quelli emessi da altri Istituti erano autorizzati in zone limitate. Tale attuazione di pluralismo rimase, addirittura, fino al 1926, anno in cui, in seguito alla riforma bancaria, la facoltà di batter moneta venne riservata esclusivamente alla Banca d'Italia. Prima di allora si erano avuti casi di monetizzazione da parte anche di Enti locali, come ci ricorda una magnifica banconota emessa dal Comune di Udine nel 1918 in seguito all'occupazione delle truppe austro-ungariche.
In tempi storicamente più vicini a noi, ci sono le famose "mille lire" (quelle di una nota canzone), con le altre banconote emesse durante il Fascismo, in cui campeggiano fasci ed aquile imperiali, frutto della "battaglia della lira", che Benito Mussolini portò avanti unificando, appunto, gli istituti di emissione e concentrando la circolazione della cartamoneta in pochi tipi, di facile riconoscimento per tutti.
Ma in fatto di monete, il Ventennio allungò lo stivale fino all'Africa, come dimostrano i biglietti emessi dalla Banca d'Italia, in tagli da 50, 100, 500 e 1000, con l'aggiunta al margine superiore e con stampa in rosso "Serie Speciale Africa Orientale Italiana". Sono banconote che, dal punto di vista grafico, e anche decorativo, rivelano una particolare inventiva, che sembra essersi piuttosto appannata nella più recente produzione. Chi non ricorda, poi, le "Am-Lire"? La loro immagine, con l'intestazione "Allied Military Currency" e con l'indicazione bilingue dell'importo, ci riporta alla fine della guerra, ci richiama alla mente "In the mood" di Glen Miller; dal 1943, con l'avanzata delle truppe alleate nel territorio italiano, i comandi militari di quei Paesi emisero cartamoneta d'occupazione (in sovrabbondanza, va sicuramente detto, tanto da causare un disastroso processo inflattivo).
Un giorno Eraclito, l'oscuro, scrisse un frammento estremamente chiaro: "Tutte le cose si scambiano con l'oro". Su questo frammento Marx condusse le sue riflessioni volte a mostrare gli effetti sull'uomo di questa universale permutabilità. Su questi effetti, indipendentemente dalle fedi politiche, è bene riflettere.
Il valore delle cose non è più dato dalla loro capacità di soddisfare un bisogno (valore d'uso), ma dalla loro capacità di permutarsi con altre cose (valore di scambio). Ma per questo ogni cosa deve rinnegare il suo corpo o, come dice Marx, la sua pelle, perché nessuna merce "può fare della sua propria pelle naturale l'espressione del suo proprio valore, ma necessariamente si deve riferire ad altra merce come equivalente, ossia deve fare della pelle naturale di un'altra merce la propria forma di valore".
Il valore, come l'anima, incomincia la sua esistenza separata dai corpi, un'esistenza che si defilerà nella trascendenza quando le cose cesseranno di esprimere l'una nell'altra il loro valore, ma tutte le rifletteranno in quell'unica cosa, l'oro un tempo e il denaro oggi, che, come equivalente generale, si incaricherà di esprimerlo per tutte le cose.
Ma il denaro può essere l'equivalente generale di tutte le merci solo se a sua volta non è una merce; la sua "trascendenza" rispetto all'ordine delle cose che valuta è quindi essenziale perché possa costituirsi come indicatore di valore. Scrive Marx: "Una merce si trova nella forma generale di equivalente solo perché e in quanto viene "esclusa" da tutte le altre merci. Nuovo distacco dal corpo delle merci il cui valore deriva loro dal riflettersi in quella trascendenza che le sovrasta, come nel mondo platonico, dove il valore delle cose non è nelle cose stesse, ma nella loro partecipazione a quelle idee trascendentali di cui sono delle copie.
La metafora sottesa è, come si vede, quella teologica, per cui Marx può dire che "a prima vista una merce sembra una cosa triviale e ovvia. Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici".
Da ogni teologia si deduce una morale, e la teologia del denaro produce quella morale che Marx vede iscritta nell'essenza dell'economia politica: "L'economia politica - scrive Marx - nonostante il suo aspetto mondano e lussurioso, è una scienza realmente morale, la più morale di tutte le scienze. La rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani, è il suo dogma principale. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo "capitale". Quanto meno tu "sei", quanto meno realizzi la tua vita, tanto più "hai"; quanto più grande è la tua vita "alienata", tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l'economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in "denaro" e in "ricchezza"; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l'arte con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; "può" insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto quanto comprare: esso è il vero e proprio "potere"".
Sacrifici ripagati, come in ogni morale che si rispetti: non più io che vivo, ma il denaro che vive per me. Non solo i beni si esprimono nel denaro, ma la mia stessa esistenza trova in esso la sua espressione: in questo senso è "alienata", è altrove. L'alienazione non è solo del lavoratore che trasferisce nella merce la sua forza-lavoro, ma anche del capitalista che aliena il suo essere nell'avere e si rappresenta non in quanto è, ma in quanto è "abbiente".
"Ciò che mediante il "denaro" è a mia disposizione - scrive ancora Marx - ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello "sono io stesso". Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità.
Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore. Il denaro è il bene supremo, e quindi il suo possessore è buono; il denaro inoltre mi toglie la pena di essere disonesto; e quindi si presume che io sia onesto.
Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede? Inoltre, costui potrà sempre comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti, non è più intelligente delle persone intelligenti? Io che col denaro ho la facoltà di procurarmi "tutto" quello a cui il cuore umano aspira, non possiedo forse tutte le umane facoltà? Forse che il mio denaro non trasforma tutte le mie deficienze nel loro contrario? E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera "moneta spicciola" quanto il vero "cemento", la forza galvano-chimica della società".
Marx è passato di moda, ma a noi questi passi sembrano ancora degni di riflessione. Essi dicono che l'uomo va sempre più esteriorizzandosi nelle cose, e le cose vanno sempre più sparendo nelle loro differenze "qualitative" per tradursi in quell'indifferenziato "quantitativo" che è il denaro in cui si esprime il loro valore (la loro anima). Se tutto ciò ci risulta, con gioia o con malinconia, non è importante, perché non leggiamo più Marx? Perché l'abbiamo così rapidamente relegato nelle nostre soffitte? Al di la delle strumentalizzazioni politiche che se ne son fatte, forse il suo è il pensiero più laico-liberale dei nostri tempi.

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