§ Prospettive

Pił azienda nello stato




Paolo Savona



In passato la politica economica ha avuto compiti di stimolo dello sviluppo e di controllo del ciclo. Obiettivi e strumenti venivano caricati di una forte dose di cultura industriale; essi erano paludati della dottrina economica maturata nella società preindustriale e industriale. L'istanza più sentita era quella di accompagnare la transizione dell'economia da agricola a industriale e della società verso il "benessere".
Questa fase della politica economica ha indotto mutamenti strutturali principalmente tramite investimenti in infrastrutture economiche (trasporti, telecomunicazioni, elettricità) e sociali (scuole, ospedali, attrezzature sportive); ha indotto mutamenti nel ciclo economico principalmente attraverso il governo della domanda aggregata con strumenti monetari (modifiche alla quantità e qualità di credito, ai tassi d'interesse, ecc.) e/o strumenti fiscali (imposizioni tributarie, spesa pubblica).
La politica economica dell'economia e della società industriale ha raggiunto importanti obiettivi, ma ha lasciato uno strascico di delusioni grandi come le attese che aveva suscitato. Non è stata capace né di portare né di tenere i sistemi economici al pieno impiego; ha rischiato il collasso dei sistemi finanziari per la diffusione del virus inflazionistico; ha rischiato di bloccare il mercato invece di indirizzare le sue risorse vitali per lo sviluppo.
La "deregulation", la disinflazione, e la forte attenuazione dell'intervento pubblico nell'economia hanno posto termine a un ciclo storico - durato circa mezzo secolo - di fiducia nella ragione delle autorità e di sfiducia in quella del mercato. La "mano visibile" di John Maynard Keynes ha deluso e si è tornati a credere nelle virtù terapeutiche della "mano invisibile" di Adam Smith. Ma la politica economica non è un problema "pranoterapico", di "mani" più o meno risanatrici, ma di corretta conoscenza e coerente azione.
Certamente le conoscenze degli economisti erano e sono troppo lacunose per perseguire obiettivi così ambiziosi come lo sviluppo di pieno impiego ed anche più il controllo del ciclo congiunturale. Ma è soprattutto la società, dal Parlamento ai cittadini, che non corrisponde alle esigenze di una politica economica in cui l'intervento pubblico garantisce investimenti di piena occupazione ed elevato standard di prestazioni di servizi civili e sociali, ossia tutte le prestazioni della "società del benessere".
Il passaggio da una società agricola a una industriale ha mantenuto omogeneità nei "valori" e nei modelli economici (consumi, investimenti, risparmi). Il passaggio da una società industriale a una terziaria non presenta invece la stessa omogeneità. L'attuale fase di trasformazione della società presenta una forte disomogeneità nei valori e nei modelli economici; essa tende a perdere le caratteristiche di "sistema" sia nel sociale che nell'economico.
Giuseppe De Rita ripete che quello attuale è un "amalgama" sociale ed economico difficilmente riconducibile a un trattamento politico unitario, ossia a un disegno istituzionale. Ripete che la visione di noi economisti strutturalisti e congiunturalisti, con i nostri modelli di collegamento "dosato" tra strumenti e obiettivi, non si adatta alle condizioni di fatto dell'economia e della società e, quindi, i nostri tentativi sono destinati all'insuccesso; peggio ancora, a creare delusioni per le attese che essi suscitano o per i danni che essi provocano.
E' umano reagire con fastidio a questa considerazione nichilista della professione, anche per chi ha coscienza della necessità di dare in ogni caso una risposta al perché i nostri modelli di politica economica non funzionano. Debbo testimoniare che su questa strada critica ho trovato di grande aiuto le riflessioni sulla società dei servizi e sulla necessità di un riesame della politica economica settoriale e territoriale, promosse dalla Confcommercio.
E' prematuro anticipare risultati di un'indagine in corso, ma essa è giunta a un tale grado di maturazione da consentire almeno un'applicazione sa, un tema di grande attualità, quello del bilancio pubblico.
Continuare a trattare il bilancio pubblico e la finanza statale come un fatto di entrate scarse, di spese eccessive e di tassi d'interesse elevati, significa eludere l'essenza del problema - e quindi del ruolo - del bilancio pubblico nella transizione da una economia industriale a un'economia terziaria o dei servizi. Nell'economia moderna la interazione tra le componenti produttive della "piramide" del valore aggiunto individuale e sociale è elevatissima; in questo processo di interazione lo Stato ha un grande ruolo da svolgere come cemento della piramide; esso deve "saper fare meglio la produzione e l'azienda", saper "comprare meglio", saper "diversificare il proprio post-produttivo", saper "fare altra impresa".
Se lo Stato entrasse anch'esso nell'ottica del post-produttivo, sentirebbe esigenze diverse da quelle oggi percepite. Il suo compito in materia economica è quello di aiutare una distribuzione delle risorse che sia nel complesso più produttiva. Non è detto che debba necessariamente "tagliare" le spese per l'amministrazione ospedaliera se riesce a indurre mutamenti nella gestione della sanità, tali da suscitare crescite della produttività che giustifichino il costo sopportato dalla collettività. Se si decide di percorrere questa via, il "taglio" non è tanto uno strumento per il pareggio di bilancio o la stabilità monetaria, quanto per indurre aumenti di produttività nel sistema. Se non si ottiene ciò, tanto vale provare subito se i privati sono essi capaci di raggiungere l'obiettivo.
Analogo problema per le entrate, lasciando le cose come stanno, l'aumento delle entrate peggiora la produttività media del sistema economico, in quanto trasferisce risorse dai settori più produttivi a quello pubblico, molto meno produttivo.
Il problema della politica fiscale è oggi più che mai quello di indurre mutamenti di produttività nella gestione dei servizi dello Stato. Potrebbe essere molto più importante per la stabilità dell'economia e della finanza un'incisiva attuazione del principio della mobilità nell'impiego pubblico, piuttosto che "tagli" nelle spese di competenza e di cassa. Si pensi al "risanamento" della Fiat o di altre aziende produttive negli anni Ottanta. Avrebbero ottenuto i tagli dei costi lo stesso risultato, o avrebbero stremato l'azienda?
Il futuro attende la politica economica, nei suoi aspetti monetari e fiscali, all'appuntamento del cambio di cultura richiesto dalla trasformazione della società e dell'economia da industriale a terziaria. Il quadro delle esigenze è per ora solo abbozzato, ma le necessità di cambiamento sono percepite con intensità dagli operatori e dalla pubblica opinione. Occorre attendere fiduciosi che analoga coscienza si determini nel legislatore, nell'Esecutivo e nei corpi autonomi dello Stato.


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