§ Bottega delle spezierie

Abele Vadacca, guerriero solitario




Antonio Verri



Il direttore di questa rivista chiudeva l'introduzione ad una antologia di poeti, Poeti del Sud, appunto, (Matino, 1973), così: "Sud, terra che si prende per amore". Ecco. Saranno forse cambiati i termini di confronto, saranno cambiati quelli che chiamiamo valori, il vivere, i rapporti col resto dell'Impero Culturale, ma ci sentiamo di dire che oggi il Sud non si prende per amore, o non si prende solo per amore. Oggi il Sud si prende (o almeno così lo prende chi opera a tempo pieno, non domenicalmente dico) anche o soprattutto per irruenza, per distacco, per ironia, per maturazione avvenuta, di solito, a contatto con tantissime, tante esperienze: pare sia sparito, grazie anche alla massiccia circolazione e diffusione di libri e riviste, quel ritardo più o meno ventennale che è stato da sempre una nostra caratteristica e che a volte, diciamocelo, abbiamo anche amato (quando non è servito a tanti illuminati baronetti che lo hanno usato per farci vivere e operare in uno stato di colpa o per propinarci le vecchie rimasticate e dolci solfe).
Questo nostro inizio non è solamente per buttare lì qualcosa, assolutamente, questo nostro inizio è per confermarvi anzitutto uno stato generale mutato della situazione creativa e culturale qui nel Sud, in Puglia, nel Salento (nonostante tutto e nonostante le Istituzioni addette sempre meno formanti), e poi per ribadire lo spirito "eccessivo", a volte irritante, che anima gli autori trattati in questa inchiesta e che sono, uno per uno, quelli su cui si può sicuramente puntare. Ricordiamoli. Finora:
Totò Toma, Cosimo L. Colazzo, Lucio Conversano, Oronzo Coluccia, e adesso Abele Vadacca, e, su questo stesso numero di Sudpuglia, Costantino Giannuzzi. Altri seguiranno, per avere quanto più possibile completo lo stato degli autori salentini che operano a tutto tondo in questa nuova realtà culturale. Assolutamente non provinciale e che farà i conti prestissimo col resto dell'Impero.
Abele Vadacca. Una delle caratteristiche di questi nuovi autori, di questi nuovi artisti, è che già nel periodo della loro formazione sanno ritagliarsi nuove realtà, nuovi orizzonti, e amori e rapporti che dopo sapranno coltivare. Venezia prima e Carrara dopo, e per molto, sono state le prime e fondamentali tappe dei giovanissimo Vadacca che già prima di partire, nella sua casa di Calimera, dove è nato venticinque anni fa, già prima di partire pensava a se stesso come ad un novello alchimista, ad un essere dominato da demoni e da folletti, ad un solitario guerriero di un nuovo Rinascimento.
L'ho incontrato per la prima volta dieci-dodici anni fa nella Galleria Ellenica, sempre a Calimera; era lì insieme al padre che stava ritirando o consegnando tre tele che a dire la verità non mi dicevano granché. Non era dello stesso avviso il padre che più o meno mi raccontò del furore e della ricerca che animavano il figlio. Il padre è stato ed è una figura molto importante (non più però della figura dolce della madre, morta un paio d'anni fa) nelle scelte del figlio. In breve: individuatane la passione e la testardaggine lo ha sorretto in tutto, e di tutto ha fatto per farlo formare. Bello. Le cose il più delle volte non vanno così. Lionello Mandorino, nella sua adolescenza, ha dovuto combattere il padre che stimava il dipingere una perfetta perdita di tempo; e che dire del padre di De Candia che ha fatto chiudere in manicomio un figlio che amava girare nudo per casa o dipingere sulle finestre e poi scardinarle? Bene.
Venezia e Carrara. Venezia vissuta un po' goliardicamente, anche se a contatto con cave di argilla e con i segreti della ceramica. Carrara vissuta in pieno, nelle cave di quel marmo che da un po' è il segreto della sua vita, o in quei rapporti totalizzanti che sono il miracolo dei vent'anni: Butros e Lutfic i due fratelli siriani, il calabrese Iaria, la coreana Gison e tanti altri, e poi docenti apertissimi, amici tra i cavatori, amore per le capre e per una vita un po' meno buffa, anche se più dura.
Amicizia coi cavatori? Di più: grande intese, grossa collaborazione. Il cavatore, col suo fare burbero, col suo corpo possente, con la morte sempre pronta lì dietro un masso, è una figura fondamentale per chi arriva a Carrara e vuole avere rapporti col marmo. Il cavatore è una figura dannata quasi quanto uno scultore. Non c'è niente di più mostruoso che il volto e il corpo di uno scultore... E Abele non lo ferma più nessuno, paragona, parla, gesticola, con la bocca sa ottimamente produrre il fragore della sùbbia quando entra nel marmo, la sonorità del martello pneumatico e della flessibile e altri strumenti. La scultura è un corpo a corpo, è una lotta, è un capriccio da soddisfare, un grosso capriccio, ripeto, non c'è niente di più mostruoso che il volto e il corpo di uno scultore. Niente tocca lo scultore (mentre lui può tutto toccare), non lo toccano né le catastrofi, né i cataclismi, né i vari accidenti: lo scultore si ferma solo davanti alla sùbbia! Sono dei demoni insomma gli scultori e vengono dal centro di chissà quale montagna, non può essere diversamente; solo loro hanno la capacità, la facoltà, di creare, di distruggere, di cambiar forma.
La forma, continua Vadacca, nonostante la determinazione demoniaca dello scultore, è però sempre frutto del caso e del caos: non c'è mai niente di progettato quando tra le mani hai il masso informe del marmo: è al primo colpo, a materiale distrutto, a marmo sottratto, che lo scultore sa se andare in alto o in orizzontale. Il marmo ha una sua energia, comunica qualcosa di meraviglioso, vibra, e poi, a parte la lotta, c'è come un atto di fede tra l'artista e la materia. E la simpatia del marmo? Tra mille massi, dice Abele, non sceglierò che quel masso e quello solo. Anzi, se penso un'opera, l'opera stessa dovrà aspettare finché non troverò il "rapporto" col suo marmo.
Vadacca continua a parlare della, importante per lui, esperienza a Carrara. Del pescespada del suo amico calabrese fatto saltare in un forno sottoterra, della tenacia dei due fratelli siriani e del rituale del loro caffè arabo, della serenità e del distacco della sua amica coreana, di quanto vigore è necessario per continuare con la scultura. E' un accanito parlatore, Abele, rotto - così sembra - ad ogni dura esperienza, sempre pronto a volare, ama da impazzire tutti gli elementi: nell'acqua, tra l'altro, trova la sua essenza, nella materia la sua utopia, o tutto ciò che insegue con la sua arte.
"E la pittura? Visto che ne facevi e visto che proprio tre mesi fa hai fatto una mostra di pastelli ...". Non sono mai stato entusiasta della mia pittura, e oggi mi dà ancora meno. E senza mezze misure continua: la pittura è cosa morta, è cosa finita, svenevole, sdolcinata, la scultura invece è drammatica, completa, arroganti pittori mi sembrano degli esseri effeminati, lì fermi con la loro tavolozza e i vari pennellini... Pensa, mi dice, alle mie capre, pensa alla loro forza, alla loro solitudine, alla loro testardaggine. E io infatti penso ad una stupenda capra, fusa in bronzo, che doveva far bella mostra di sé in una sala-galleria di un grande quotidiano americano, e che invece abbiamo ammirato un paio d'anni fa all'Expo Arte di Bari.


Abele sa bene camuffarsi, mette la cravatta, gira sulla sua 'Ritmo' scoperchiata, qualche amico qua e là, ma sotto sotto sta pensando alle sue capre, alla forma che non ha bisogno di orpelli, al metallo che frigge, al marmo che suona e vibra. La scultura cova sempre. L'Italia avrà una stagione felicissima con la scultura, un nuovo Rinascimento: "è l'unica forma d'arte che rimane, non c'è altro, la pittura non è che una prostituta e i pittori degli effeminati" (salva, tra tanti pittori giovani e meno giovani che conosce, poca gente: Lucio Conversano, per esempio - uno degli autori trattati in questa inchiesta - per la resa volumetrica delle sue opere, per il suo diavolo, per la sua ossessione, per la materia che esce dal suo segno) (mentre Totò Toma lo ama perché nella sua breve vita ha sempre patteggiato con cani da combattimento!).
Vasti interessi, energia e buon piglio. la stessa Gison, la coreana che ha diviso con lui gran parte dell'entusiasmo di Carrara, parlava della cattiva energia con cui lui si rivolgeva al marmo. Gison non riusciva a capire i suoi occhi cattivi, lei, trasparente, fatta d'acqua, figura d'alabastro (il discorso è lungo, lo scultore, ci dice, di solito è un misogino, non si sposa quasi mai, trova sempre una ragione, la sua ragione, più nella forma che riesce a fermare e a sublimare che nella modella che si stanca e si muove e rivela la sua fragilità, la sua morte).
Un bel giorno, non molto tempo fa, mentre si parlava di progetti e temi e prospettive è venuta fuori l'idea della torre come simbolo d'arte supremo, come sogno dell'uomo, come furia ascensionale, ma anche come caduta... Da quel giorno è la realizzazione di una immensa torre il suo Grande Progetto: la pensa in tutti i momenti, lavora a raccoglier materiale, ha steso già delle pagine illuminanti sul Grande Progetto e bla bla bla. Una volta abbozzò su un foglietto di carta che ho qui davanti le fasi di realizzazione del Progetto e le varie categorie di lavoranti, e strumenti occorrenti, ecc. Ecco, riporto quel che vedo: Metallo che entra nella roccia, Trecce di cereali (avena), Fucine, Vuoto, Crogiolo, Canali, Anelli, Carparo, e poi segni, e poi le caratteristiche dei lavoranti: Fonditori (arroganti, avidi di denaro, burberi, callosi, con artigli, luciferi, sanno di morire, corpo possente, temono il freddo); Trasportatori (carrucole, impalcature, massi, uomini dalla voce lunga); Scalpellini (uomini dalla voce tinnante, chiacchierini); Muratori (routine, obbedisce, non è creativo). L'intelligenza c'è, la cultura c'è, l'arroganza necessaria c'è: il Grande Sogno è vicino i (Poteva portarlo ad altro il suo amore per la forza di Michelangelo o per l'ingegnosità di Leonardo? Gli altri? Gli altri sono niente, sono dogmi, sono cere. E poteva portarlo ad altro l'idea che lo scultore deve conoscere tutto, dal legno alla plastica, all'argilia, a ogni materia e tecnica, alla figura tridimensionale, al computer?).


Il bronzo è una puttana, gli disse Pino Castagna, a Carrara, perché si presta! Si discorre ancora, torna a parlar del marmo. Vivere, bisogna vivere col marmo, estrarlo (è là che nasce il rapporto di lotta), distruggerlo anche: se non lo fai rischi di essere tu la vittima. Parla di animali favolosi, di opere pensate e mai realizzate. Spera sempre di trovare il masso giusto, la scheggia giusta per scolpire Psiche, la grande donna, la grande sposa (il suo omaggio alla Madre). Il blocco di marmo
ha una sua vita, ha una sua storia: concepire e distruggere vuole dire anche esorcizzare, liberarsi. Il blocco è sempre un nemico, lo devi consumare, trarne forma ed energia, il marmo vibra, non ha niente a che fare con la realtà di Gison, con le sue favole, con le sue misture, con gli spaghetti fatti col ghiaccio, con i suoi tenui colori, con le sue visioni. Assolutamente. Che altro dire di Abele Vadacca? Qualche buon nome salentino? Ma la sua idea di scultura ha poco da spartire con l'armonia di Martinez, con la classicità dell'esule Salvatore Saponaro, con la progettualità irrequieta di Michele Massari, o con Francesco Barbieri. Forse qualcosa da spartire ce l'ha col sogno e la poeticità delle "Biforme" di Aldo Calò, coi soldati di filo di ferro di Ezechiele Leandro.
Intanto lavora, vaga, parla, prende appunti, lui, l'indemoniato, strapieno di energia pensa alle sue cave e ai cavatori, al marmo necessario per la sua donna velata, fredda (forse la madre vicino alla morte), a cercare il "bianco p" di una gradazione speciale per la sua Psiche (lo cerca, ha paura di trovarlo, lo cercherà sempre). Forse domani o al massimo dopodomani incontrerà il pescecane che ha in comune con Iaria, incontrerà una certa gradazione, scaverà tantissime fondamenta necessarie per l'immensa Torre...


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