§ L'INCHIESTA - L'IMMAGINARIO COLLETTIVO

Il diavolo nella cultura popolare




Brizio Montinaro



A differenza di moltissimi riti e miti che possono essere presenti in modo esclusivo nelle tradizioni popolari di una determinata regione, per quanto concerne il diavolo non si può parlare di una sua particolare immagine riferita ad una determinata zona ben circoscritta. Diventa quindi difficile a mio avviso, e forse anche poco corretto, parlare della figura del diavolo nella cultura popolare dell'Italia meridionale per esempio, o dell'Italia tout court. Il farlo creerebbe nel lettore la falsa convinzione che esiste anche una figura del diavolo nella cultura popolare della Francia, della Spagna e così via, differente da quella diffusa qui da noi. Se si dovesse colorare una cortina d'Europa con colori diversi a seconda della distribuzione geografica delle immagini del diavolo presenti nelle culture popolari la si dovrebbe dunque ricoprire tutta del medesimo colore.
Ad una inconsistente differenza areale dei dati etnografici riferiti al demonio corrisponde una certo somiglianza dell'immaginario diabolico sviluppato in ambiente popolare con quello elaborato in ambiente culto. Vi è infatti una specie di osmosi fra le due diverse tipologie demoniache anche se, nella formazione dell'immagine del diavolo collettiva, hanno contribuito in modo preponderante favole, leggende e credenze di origine popolare, spesso di indeterminata derivazione areale, confluite per differenti ragioni in testi e documenti culti antichi e moderni che accogliendole le hanno congelate. E' a questi dunque che bisogna necessariamente far capo se si vuoi ricostruire l'immaginario diabolico elaborato dal popolo nei secoli passati e rimasto in pallido simulacro ancora fino ad oggi. La dinamico interna delle credenze demonologiche sarebbe in sintesi la seguente: elaborate dal popolo esse raggiungono in qualche modo i dotti che se ne impossessano per loro fini (evangelizzazione, libri penitenziali, processi inquisitoriali) e involontariamente ne rimangono coinvolti; dalla cultura egemone poi esse scendono nuovamente verso il popolo, ma appena un po' modificate da concezioni astratte di origine ecclesiastica.
La prima immagine del demonio per le plebi della tarda antichità si modella sull'effigie stessa di quella schiera di abitatori delle selve, dei laghi, delle fontane, che rispondono al nome di Fauni, Satyri e del loro dio Pan: tutti esseri cornuti dai piedi di capra. Fu Sant'Agostino (354-430) a decretare la sostanziale identità dei due prodotti fantastici di religioni differenti: "Il popolo chiama silvani e fauni demoni incubi" (1). L'immagine di un omuncolo con le corna che spuntano dalla fronte, la coda, il petto villoso, i piedi di capra, irsuto e con gli occhi di fuoco assunta dagli scrittori medievali fu tramandato e diffusa a vari livelli fino ad imporsi per tutta l'età di mezzo. Ancora oggi il demonio appare con i tratti fissati in quell'epoca ed appena elencati. Spie che rivelano il contributo popolare all'immaginario demonologico per quanto attiene ai secoli XII, XIII e XIV sono alcuni libri riproducenti manuali di predicazione ad uso di domenicani e francescani e in special modo quelli di Stefano di Borbone (Tractatus de diversiis materiis praedicabilibus), Umberto da Romans (Tractatus de dono timoris, De eruditione praedicatorum) e Gilberto da Tournai (Sermones ad omnes status). In essi, con l'intento di condannare alcuni comportamenti, vengono riprodotte superstizioni popolari, atteggiamenti e credenze. Per i secoli successivi (sec. XV-XVI-XVII) sono invece e soprattutto i documenti inquisitoriali che ci restituiscono pari pari ciò che delle sfortunate popolane inquisite dicono di credere circa l'immagine, il comportamento e il mondo dei diavoli. Tutte queste testimonianze scritte sono per noi di enorme importanza in quanto tramandano notizie abbastanza attendibili del mondo senza scrittura per un'epoca in cui sarebbe impossibile ormai acquisire informazioni sicure. In quasi tutte le testimonianze culte il discorso appare concentrarsi e concretizzarsi generalmente sulla figura della donna ritenuta, durante la prima metà e più di questo millennio, lo strumento privilegiato delle manifestazioni tangibili del diavolo. è proprio in questo risvolto, a mio avviso, che bisogna cercare e riconoscere la manipolazione culto del discorso demonologico fatto soprattutto dalla Chiesa che in quell'epoca cercava di escludere la donna da qualsivoglia partecipazione al potere. Ma questo è un argomento che ci porterebbe lontano dal nostro tema. L'ho accennato soltanto per far notare come in quegli anni, per secondi fini, nella cultura alta si lavorasse per accreditare, rendere accettabile o imporre il concetto: donna strumento del diavolo, donna vinta dal diavolo. Situazione ribaltata invece in tempi successivi, forse molto più vicini a noi, nelle leggende e nelle credenze sicuramente di ambiente popolare: diavolo strumento della donna, diavolo vinto dalla donna. Minti ricchia alla fimmena ce ddice / e teni 'mmente ca futtìu lu diavlu: Presta attenzione a cosa dice la donna / e ricorda che ha gabbato il diavolo, dice un noto proverbio salentino.
Se l'iconografia del demonio sostanzialmente coincide nella cultura popolare e nella cultura dotto - in entrambe si presenta semiumano, con corna, pelo, coda, ali, zampe caprine e puzzo di zolfo - cosa distingue l'immaginario popolare dalla demonologia della classe egemone? Rispondo a questa domando citando quanto scrive lo storico delle religioni Alfonso M. di Noia nel suo ultimo saggio sul diavolo, come sempre molto chiaro e informatissimo: "Diviene popolare quanto si distanzia dalla demonologia culta per essersi appropriato di tematiche di quella demonologia e averle piegate all'esigenza fondamentale della concretezza e liberate dal peso teorizzante e teologico" (2). Il demonio dei contadini, quando essi mostrano di credervi ancora, rappresenta la proiezione dei propri mali concreti: tempeste, fame, distruzione del raccolto, morte. Per la loro mentalità, opera del diavolo è tutto ciò che interviene ad interrompere un ciclo positivo, sia esso costituito dall'esercizio del lavoro, dal corso di maturazione di un frutto, dalla gravidanza di un animale.
Nella mentalità popolare il diavolo si confonde spesso con il suo aggettivo: diavlorico, diabolico, che diventa così attributo di tutto ciò che appare inconsueto, terrificante, inspiegabile. Diavolo è inoltre colui che attraverso il suo sguardo fa il malocchio e porta ad avvizzire uomini, piante, animali sino a condurli a morte sicura. il diavolo è ancora nelle streghe, nelle stiare, nelle vecchie masciare, in tutti coloro i quali hanno con lui. costituito un "patto". Essi hanno, per questo, poteri segreti e la capacitò di fare qualsiasi cosa; possono agire anche sovvertendo le leggi di quella natura che il contadino ha sempre sentito ostile. Contro tali personaggi e contro la radicata credenza del "patto" si scagliarono nei secoli scorsi alcuni sinodi diocesani. Quello di Trivento (Abruzzo) del 1688 (3) e soprattutto quello di Tursi in Lucania del 1728 nel quale troviamo un lungo editto riguardante la stregoneria diabolica con specifico riferimento a tutti coloro che "abbiano fatto o facciano atti, da quali si possa argomentare patto espresso o tacito col demonio, esercitando incanti, magie o sortilegi, porgendogli suffumigi ed incensi, per trovar tesori ed altri intenti, chiedendo da lui risposte ed invocandolo, con promettergli a questo effetto ubbidienza, consacrargli pintacoli, libri, specchi o altre cose, nelle quali intervengo il nome ed opera sua..." (4). Il diavolo è essere terribile, potente, maligno ma è anche folletto, sciacuddai, mazzamurieddu. Per capire meglio certe sue funzioni e certe sue caratteristiche meno note è forse bene a questo punto citare una serie di nomi, anche se breve, con i quali lo si indica in tutte le culture regionali quando si è proprio costretti a farlo. In genere èpreferibile non nominarlo; il solo chiamarlo esplicitamente infatti potrebbe evocarlo. Se lu nnòmini cumpàre. Lu nnimicu, il nemico, lu virsèriu, l'avversario, lu mmalidittu, il maledetto sono di origine colta; li si trova negli Evangeli e nelle agiografie medievali. Di origine sicuramente popolare invece sono: lu cifru, Lucifero, arsu cani, cane bruciato, mazzamareddu, demonio; i salentini: bruttu bestia, la bestia orrenda, zanzille, tentatore, zìfere, Lucifero, zifièrru, il più cattivo demonio, Patisse, nome proprio di diavolo diffuso ad Ostuni (5), anticòri e ntigòri, accidente. Questi epiteti sono quasi tutti diffusi, con fonetica mutata, nell'intera penisola (6). Alcuni di essi richiamano alla mente diavoli con funzioni terribili, altri invece rivelano delle caratteristiche meno spaventevoli. Se Lucifero è il capo dei diavoli e comanda su tutti, zanzille è quello che esplica un'attività nefasta usando l'arma specifica della tentazione, anticòri è quello che fa venire gli accidenti, zifièrru ècattivissimo, farfariello è un folletto dispettoso ma a volte buono come il mazzamurieddu. il diavolo o altri spiriti maligni minori, come si desume da quanto si è accennato, non portano sempre l'uomo alla rovina totale, non sono capaci solo di costruire il male assoluto, a volte limitano il loro operato soltanto a beffe, fastidi e burle. Nel Salento si crede anche all'opera di certi diavoli che in una notte soltanto sono capaci di edificare opere architettoniche a volte ritenute veri e propri capolavori, come il campanile di Soleto.
Il demonio amo assumere, oltre l'immagine classica di cui si è già detto, forme differenti. Può trasformarsi in gatto nero, in gufo, in civetta del malaugurio, in serpente, in rospo; e ancora in donne bellissime o in bellissimi giovani, in frati, in preti o nelle sembianze da vivi di morti a lungo dai parenti evocati. Se si presenta come essere umano incantevole ed ammaliatore non è mai perfetto. La sua abilità nel camuffarsi non è mai assoluto. Uno dei suoi attributi classici finisce sempre per spuntare da qualche parte ed essere individuato con orrore. Quando ciò accade, per proteggersi e non soccombere, bisogna immediatamente farsi il segno della croce e pronunciare l'invocazione "Gesù, Giuseppe e Maria" capace di respingere all'inferno il suo signore.
Ma dove risiede un diavolo contadino così delineato? La suo dimora principale è nello "sprofondo della terra", "nell'inferno infernale", tra le fiamme più cocenti e le urla delle anime dannate. Non disdegna però di eleggere a suo domicilio luoghi meno remoti e in superficie, siti più prossimi a dove abitualmente svolge la suo attività di tentatore; sono grotte, pozzi, gravine, orridi, anfratti sotterranei con accesso dalla superficie terrestre che richiamano alla mente paesaggi infernali immaginari. Essi rappresentano di solito nelle fantasie popolari vie concrete, tramiti terribili tra il mondo dei vivi e il mondo sotterraneo di cui Lui è padrone assoluto. Nella toponomastica di tutta Italia, anzi d'Europa, sono frequenti le denominazioni che fanno preciso riferimento al diavolo.
Per quanto riguarda la Puglia, regione molto tormentata dal punto di vista geologico, si potrebbero citare un gran numero di località di questo tipo, ma basta ricordare, tanto per dare un'idea, le vore di Salve: due grandi voragini create dal diavolo in persona per frenare, e dunque domare, la fierezza che gli abitanti della cittadina di Terra d'Otranto mettevano nella lotta contro il turco infedele; la grotta del diavolo nei pressi di S. Maria di Leuca: sede dell'anima dannata del barone di Castro trasformato in terribile demonio, da qui egli attirava con accorgimenti fascinosi i pescatori che si avvicinavano a Punta Ristola per poi ucciderli orribilmente; la grotta del drago: cosiddetta perché originata, secondo una leggenda, dalla pietrificazione di un enorme drago di mare nel quale il diavolo si era trasformato per apparire ad un pescatore greco che frequentava la costa salentina e nutriva dubbi sulla sua esistenza. Il demonio risiede inoltre nei luoghi - torri, pozzi, specchie, dolmen, masserie abbandonate, ruderi di casali scomparsi - presso cui la fantasia popolare immagina siano nascosti tesori meravigliosi. Egli è il padrone assoluto di quanto giace sepolto sottoterra. Tradizioni plutoniche sono diffuse nell'intera Puglia. Non tutti i tesori nascosti sono custoditi dal diavolo; per entrare in possesso di quelli da lui controllati intanto bisogna conoscerne la chiave, cioè bisogna sapere che cosa fare per poter liberare l'acchiatura, poi bisogno avere la capocità di compiere, di portare felicemente a termine le azioni richieste. Esse sono di solito irrealizzabili, impossibili o disumane.
Giuseppe Gigli riferisce la credenza che nella masseria S. Domenica del marchese D'Ayala-Valva nella campagna tarantina esiste "un tesoro tenuto dal diavolo e che per impadronirsene occorre tanto sangue da empire un fosso da affogare un vitello" (7) e, ancora, che alla masseria Cappello del signor Acclavia c'è un pozzo profondo in un sotterraneo che dicono pieno di denari. A coloni giurano che il diavolo lo guardi e si mostri ai curiosi sotto l'aspetto di un uomo alto e con un cappellaccio" (8). Sotto la secla tu demonìu (la specchia del diavolo), situata sulla serra tra Martano e Calimera, la tradizione dice che esiste un tesoro grandissimo - formato da una chioccia e dodici pulcini d'oro - custodito dal demonio e che per impossessarsene bisogna riuscire a far fare la comunione ad una capra la quale, essendo animale del diavolo, si rifiuterò. Spesso per impadronirsi dei tesori nascosti bisogna campiere atti delittuosi: uccidere neonati conficcando loro nel cuore uno spillo senza che si spargo una goccia di sangue, sacrificare fanciulli estraendo loro il fegato e battendolo tante volte su una pietra fino a ridurlo in poltiglia, condurre sul luogo del tesoro vergini fanciulle e deflorarle e via dicendo. Gli espendienti per far allontanare dal tesoro il terribile guardiano - sia esso il diavolo o uno dei suoi delegati: serpenti, droghi fumanti, nani deformi - spesso sono costituiti semplicemente da azioni ridicole come mangiare correndo un piatto di pasta oppure mangiare una melagrana senza che neppure un chicco cada per terra e vada perduto. Non tutte le ore della giornata o le stagioni dell'anno sono ritenute idonee per poter liberare un tesoro e impadronirsene. C'è un tempo per tutto, c'è un tempo anche per questo. Bisogna agire sempre di notte, meglio se a mezzanotte, e preferibilmente la notte di Natale, quella di San Giovanni o quella della festa dei morti. Chi, tentando l'impresa, non riesce a portarla a termine con successo, non rimane indenne; secondo alcune persone da me intervistate, il malcapitato di lì a poco. muore e la sua anima diventa proprietà esclusiva del demonio.
Altro luogo preferito dal diavolo come rifugio è il corpo dell'uomo di cui può prendere possesso; in genere però non riesce a risiedere a lungo nel suo interno grazie alla teoria di esorciste, fattucchiere, maghe, maghi e preti chiamati a scacciarlo con formule e scongiuri. Espertissimo in sfratti di diavoli dagli umani è S. Antonino il cui intervento prezioso viene sempre invocato per l'esecuzione di detta operazione.
Nella Grecia salentina la vista di una coda di serpe che scompare nelle crepe di un muro o tra i sassi di una pietraia, o quella di una coda di lucertola recisa che si contorce ancora separata dal corpo, induce ad esclamare con intenzione protettiva nella convinzione che in quella si nasconda il diavolo: "Demòni esù ce angelo evò", tu diavolo ed io angelo, il che richiama alla mente le due parti in causa nell'antica lotta tra gli angeli separati e, soprattutto, in quella mitica, della tradizione biblica, tra il diavolo e l'arcangelo Michele. Il mito dell'eterno conflitto tra i due poteri nato a livello culto si è diffuso tra il popolo già durante i primi secoli di questo millennio ed ha piantato solide radici. Molti sono gli esempi di tradizioni che ad esso fanno riferimento. Il culto dell'arcangelo Michele, probabilmente portato in Italia dai Bizantini, ha trovato un suo centro di diffusione sul Monte Sant'Angelo, nel Gargano, dove si dice che l'arcangelo Michele abbia fermato il suo volo e combattuto, e dove si indicano in burroni e voragini profonde i segni dello sprofondamento del diavolo atterrato dal difensore di Dio; attraverso di essi - riferisce la tradizione - il Nemico pare tornasse alla sua sede naturale: l'inferno. Il racconto della lotta tra il Bene e il Male è presente in moltissime rappresentazioni popolari dei secoli passati di cui c'è rimasta testimonianza e in molte altre ancora oggi diffuse in tutta Italia. A Squinzano il conflitto tra l'arcangelo Michele e lu bruttu bestia è stato per anni rappresentato in maniera piuttosto suggestiva e singolare. I due protagonisti della lotta erano concretizzati nella statua del santo con elmo in testa, spada in mano e relativo serpente sotto i piedi, e in un fantoccio orribile d'aspetto con coda e corna realizzato con stracci, carta e imbottito di polvere pirotecnica da un fuochista di grande talento. Al momento culminante della festa religiosa, quando cioè la statua del santo portato in processione si avvicinava al paio sulla cui sommità era sistemata una girandola che reggeva lu bruttu bestia, l'accorto artefice dava fuoco al marchingegno pirotecnico che cominciava a girare vorticosamente tra gli scoppi fragorosi e le urla dei bambini spaventati nella calca di fedeli attoniti e storditi dalle note altissime della banda del paese. La lotta finiva con lo sbrindellamento del fantoccio o addirittura con la sua sparizione completa a causa delle ripetute esplosioni dei fuochi di cui era imbottito che devastavano senza pietà i materiali poveri che gli avevano dato forma. Non sempre però nelle tradizioni o nei poemetti popolari è l'arcangelo Michele a combattere Lucifero. A volte, a lui, nel faticoso compito, si sostituisce l'arcangelo Gabriele o anche S. Antonio - altro grande campione di resistenza nella lotta contro il demonio -, come accade rispettivamente in Campania e in Abruzzo. Eroina sempre vittoriosa, predestinata a schiacciare la testa del demonio in forma di serpente ("col suo piede conculcò") e a vincerlo per sempre con il dare alla luce il Redentore, è la Vergine Maria. il tema della lotta della Madre di Gesù con il diavolo lo si trova espresso in molte leggende e rappresentazioni sacre di sapore popolareggiante. In esse finalmente èuna donna, Maria, che inesorabilmente sconfigge il Maligno gabbandolo o mettendolo in fuga scornato. Siamo - è chiaro - in un diverso momento della storia sociale.
Di sicura matrice popolare e di tono completamente differente - concreto fino all'osceno - è invece un'altra serie di racconti che alla prima fa da contraltare; in essi è la donna, questa volta tutta terrena e priva di ogni attributo celeste, a sbeffeggiare un diavolo ormai ridotto in verità a simulacro di se stesso, anche se ancora con tutti gli attributi accumulati nei secoli al proprio posto: potenza, fascino, orrore, inesorabilità, patti indissolubili ma trattabili, corna, coda e così via. Esemplare in questo senso è un racconto in lingua grica che io stesso ho raccolto nella Grecìa salentina. Ne riferisco in breve il contenuto. "Un pover'uomo, per poter sfamare i suoi cinque figli, una notte stringe un patto con il diavolo al quale vende l'anima per una buona somma di denaro e il tempo di un anno per godersi ancora un po' la famiglia prima di morire. La moglie, una donna grassa come possono essere grasse certe povere, preoccupata che il marito abbia rubato o assassinato per entrare in possesso dei soldi, chiede angosciata della provenienza della fortuna ma non riesce ad avere risposta. Solo all'avvicinarsi dello scadere dell'anno il marito, macerato nel fisico e nello spirito dalla disperazione, le rivela l'incontro con il diavolo avvenuto in quella lontana notte e i termini del patto concluso. La donna pensa un momento, poi, senza batter ciglio, propone al marito di dire al diavolo quando lo incontrerà se egli vuole anche l'anima sua e senza alcun compenso; in cambio desidera soltanto che il demonio le pulisca il sedere dopo essere andata di corpo, perché non puzzi. Il diavolo è d'accordo. Anzi, è molto contento. Si stringe il nuovo patto e la donna si prepara all'incontro mangiando, il giorno prima, una gran quantità di fagioli. I tre, all'ora convenuto, con una puntualità sbalorditiva, si presentano all'appuntamento. Cercato un sito giusto per l'operazione che deve essere compiuta, la donna, tirate su le sottane, prende posizione. Fa le sue cose. Il diavolo si avvicina allora al sedere della donna, esposto alla luce del sole, pronto per agire ma quella, con la testa coperta dalle vesti rimboccate, fa un peto tale da sbatterlo lontano vuoi per lo spostamento d'aria vuoi per il fetore sprigionato. Il diavolo e la donna, sotto gli occhi preoccupati del marito, trascorrono un'intera giornata nello svolgimento dell'insolita pratica senza che la femmina abbia una piccola stasi o mostri un minimo cedimento. Il diavolo è stravolto. Verso il tramonto, non potendone più essendo allo stremo delle forze, solleva un grande vortice di vento e, bestemmiando la Madonna, abbandona l'opera scomparendo per sempre. - Vedi?! - dice la moglie al marito rimasto senza fiato con un ghigno di scherno disegnato sulla faccia, - io, con una diavoleria che ho inventato, sono riuscita a salvare la vita tua e la mia! E così, vissero felici e contenti".


NOTE
1 - Agostino, De civitate Dei, XV, 23.
2 - Alfonso M. Di Nola, Il diavolo, Roma 1987, pag. 318.
3 - Cleto Corrain-Pierluigi Zampini, Documenti etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani italiani, Bologna 1970, pag. 140.
4 - Gabriele De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Napoli 1971, pag. 63.
5 - Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, vol. II, Galatina 1976, alla voce Patisse, pag. 459.
6 - Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV, Firenze 1934, pag. 64.
7 - Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d'Otranto, Bologna 1979, pag. 59.
8 - Ibidem, pag. 60.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000