§ L'INCHIESTA - IL MALIGNO COME METAFORA?

Poveri diavoli




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



L'immagine del diavolo è talmente varia nelle diverse epoche (uomo, bestia, mostro) che si può persino trovarne qualcuno rassicurante. Di questo tipo è il diavolo del racconto scritto da papa Gregorio Magno (VI secolo): una giovane monaca, passeggiando d'estate sul sentiero dell'orto, scorge un bianco cespo di lattuga, un innocente fresco ceppo di lattuga, appetitoso nella calda ora pomeridiana. Vinta dalla gola, lo coglie, strappandolo, e lo mangia avidamente, foglia per foglia, "dimenticando di farvi sopra il segno della croce". Immediatamente, il diavolo entra nel corpo della monaca e la riempie di tormenti, finché un sacerdote, con le sue preghiere, lo allontana. Il diavolo se ne va, lamentandosi: "Che male ho fatto io? Me ne stavo tranquillo sulle foglie di lattuga, quando è arrivata questa sciagurata ad ingoiarmi!". Il che significa, al di là del tono naïf del racconto, che il diavolo sta proprio dappertutto, e soprattutto nel cuore degli uomini.
Questa è anche l'opinione di Jeffrey Burton Russel, che sul diavolo ha scritto il suo terzo studio, documentato quanto basta a soddisfare anche il lettore accademico più sofisticato, e lo ha iniziato con la citazione di un articolo dei Los Angeles Times (8 marzo 1981). E' la raccapricciante cronaca di un massacro organizzato per pura malvagità, senza scopo venale, da un giovane appena uscito di galera. "Il male è qualcosa - commenta Russel - di reale e insieme di inspiegabile", e il diavolo è la metafora di un fenomeno che nella sua essenza ci appare insensato. Nucleo del male è la violenza, "ciò che accade quando danno e sofferenza vengono inflitti da un agente conscio che le sue azioni avranno tale effetto". Questo è tuttavia soltanto un aspetto del male, quello intenzionale, suggerito dal diavolo all'orecchio dell'uomo; ma al diavolo, nella sontuosa immagine di lucifero caduto dal cielo, è attribuita anche nella storia del pensiero teologico l'origine e la presenza del male naturale malattia o catastrofe, il male insomma che macchia il progetto divino del "migliore dei mondi possibili".
Uno studio sul diavolo può muoversi su due tracce: una è data dall'immagine del diavolo e dalla storia di questa fantasia, che si può leggere ad esempio nei racconti di Chaucer, nelle prediche del frati, nell'affresco della "cacciata dei diavoli da Arezzo" di Giotto. O, ancora, studiando l'immagine sconvolgente del bellissimo volto del male, serpente dalla testa di donna, dipinto da Michelangelo nella Sistina. Non c'è dubbio che il male nella mente degli uomini esista e ispiri fantasie diverse, di allarme, di inquietudine e di terrore. Ma, d'altra parte, il diavolo è appunto una metafora. A cosa si alludeva quando lo si minacciava nelle prediche, o quando, anche oggi, si afferma autorevolmente dalla suprema cattedra cristiana la presenza reale del diavolo nel mondo? La ricerca di Russel è quasi sconcertante, perché si muove arditamente lungo entrambe le direzioni, con metodologie talvolta incongrue, ma con risultati originali e attraenti. Infatti, proprio nella intersezione delle due ricerche, quella sull'immagine e quella sul significato, risalta tutta l'autentica passione dell'autore: "Il diavolo è metafora del male nell'universo, di un male che è in Dio e si contrappone a lui... Un male che trascende la coscienza individuale degli uomini, che appare ingovernabile e tuttavia alla fine superabile... Oggi possiamo aver bisogno di un altro nome per indicare questa forza.... ma che sia un nome che non eluda e non banalizzi il problema del dolore del mondo". Tocca al lettore, dunque, separare le due tracce e i due oggetti dell'indagine, l'immagine e le sue trasformazioni nella storia e, d'altro lato, il problema del male che nella sua drammatica realtà appare permanente e identico nelle varie epoche. La figura del diavolo segue invece le mobili forme del tempi, i vari aspetti delle umane inquietudini: nella prima arte cristiana, i diavoli sono simili ad angeli neri e piccoli; più tardi prendono le sembianze di animali puzzolenti, come caproni e porci. I capelli del diavolo sono quasi sempre rossi, come il fuoco, acconciati dritti e rigidi sulla testa, come quelli del punk di oggi; il colore della pelle è rossastro, oppure verde, da rettile; il comportamento è imprevedibile, proprio come ciò che l'uomo teme di più. Tuttavia, qualche abitudine il diavolo ce l'ha: ama i posti deserti, lancia urla improvvise, è fornito - a piacere - di coda viscida, di corna, di ali battenti e pelose. Talvolta appare bello, ma si tratta di una bellezza fuggevole, sottile e vuota come quella di una maschera. La sua immagine possiede insomma tutti i caratteri che ci inquietano nelle persone, e innanzitutto la capacità di una trasformazione improvvisa che minaccia la perdita dell'identità. Dietro la fantasia, sono trasparenti le paure più comuni, l'antico timore infantile di perdersi e di non riconoscere il mondo, il terrore della propria e dell'altrui aggressività. Contro queste paure vengono mobilitati mezzi diversi: la richiesta diretta di aiuto all'angelo o a Cristo, il sarcasmo e persino la violenza dell'esorcista o il semplice gesto rituale ripetuto con fede.
Esiste anche un'immagine buffa, quella del diavolo che fa ridere con il suo comportamento goffo e con gli stratagemmi non riusciti e ingenui: è anche questo un modo per rassicurarsi sul finale insuccesso del male. Nella qualità comica dell'immagine c'è qualcosa di più: la convinzione che l'arma migliore contro la paura e la tentazione della violenza sia l'allegria. Alcuni mistici, i più tormentati nella loro solitudine dagli inganni anche dolcissimi del diavolo, raccomandavano il buonumore, addirittura la risata, e affermavano che "vedere il diavolo travolto, l'inganno non riuscito, il male beffato, riempie di vera allegria". Questo atteggiamento poco noto era invece assai diffuso nell'etica medioevale, che tendeva a giudicare la tristezza come il peggior nemico della santità, e la melanconia passiva e inerte come il più potente alleato del male: l'apprezzamento del "malinconico geniale" che risaliva ad Aristotele non ebbe corso in quei secoli e conobbe il successo più tardi, nell'Umanesimo e nel Romanticismo.
Che cosa pensavano i filosofi del diavolo? I filosofi discutevano sul male, etico e universale, e lasciavano il diavolo alle prediche dei frati: nei loro dibattiti, da Sant'Anselmo ai nominalisti del Trecento, sperimentiamo la dimensione della Iongue durée, teorizzata da Braudel, quel fondo duro e quasi immoto di convinzioni appena scalfito dagli eventi storici. Il nucleo della lunga querelle è il problema di conciliare l'onnipotenza e la bontà divina con l'innegabile presenza del male nel mondo. 0 Dio è onnipotente, e allora il suo progetto universale che reca le tracce del male dimostra la sua imperfezione morale; o, al contrario, Dio è buono, ma la sua potenza nella creazione è limitata. Dilemma che Stuart Mill enunciò limpidamente nel suo saggio sul Teismo. Ma i cristiani medioevali non potevano rinunciare a nessuno dei due attributi divini: la metafora della lotta tra Dio e Lucifero, personificando il contrasto, velava e insieme alludeva alla insolubilità del problema.
Negli ultimi vent'anni, Jeffrey Burton Russel si è fatto una certa fama come storico della religione medioevale. Benché in qualcuna delle sue opere straordinariamente ricche di particolari egli si sia occupato del Cattolicesimo tradizionale, nella maggior parte dei suoi scritti ha esaminato le diverse religioni che fiorirono al di fuori e in contrapposizione alla Chiesa cattolica. Il dissenso e la Riforma nel primo Medioevo (1965), Il dissenso religioso nel Medioevo (1971), La stregoneria nel Medioevo (1972), e in collaborazione con C.T. Berkhout, Le eresie medioevali: una bibliografia (1981), si occupano tutti di modelli di fede e di comportamento che vanno ben oltre i limiti dell'ortodossia e della comune morale.
Nella trilogia di cui "Lucifero" è la parte conclusiva, Russel si è spinto ancora più in là. Presi nel loro insieme, i tre volumi (11 diavolo: le rappresentazioni del Maligno dall'antichità al Cristianesimo primitivo (1977), Satana: la prima tradizione cristiano (1981), e Lucifero (1987), tutti tradotti in Italia), tratteggiano la storia, di un'ampiezza impressionante, del tema del diavolo, cominciando dall'antico Egitto e dalla Mesopotamia, e concludendo con l'Europa del XV secolo.
Ciò che è veramente originale nell'opera di Russel è il periodo che esamina a mano a mano che approfondisce il suo argomento. Egli correttamente riconduce le origini della concezione occidentale del diavolo alle dottrine del profeta iraniano Zorathustra, comunemente conosciuto col nome greco di Zoroastro. Ma la data che Russel propone per Zarathustra, intorno al 600 a. C., non è più accettata dagli specialisti; è ormai opinione corrente che Zarathustra sia vissuto molti secoli prima, in un periodo compreso tra il 1400 e il 1000 a.C. Zarathustra immagina il mondo esistente come lo scenario di una prodigiosa lotta tra il primo e più importante dio, Ahura Mazda (che significa "Signore saggio") e lo spirito del disordine e della distruzione, chiamato Angra Mainyu, (in seguito Arimane). Con l'intento di sconfiggere Angra Mainyu, Ahura Mazda introduce la nozione del tempo nel fluire dell'esistenza; ma fissa anche un limite alla lotta e al tempo. Alla fine, Angra Mainyu sarà sconfitto e distrutto. Dopo di che, il mondo continuerà non nel tempo, ma nell'eternità, dove il mutamento, la vecchiaia, la morte saranno sconosciuti, con gran letizia di tutti i fedeli di Zoroastro, compresi i defunti, risorti per l'occasione.
Russel ha ragione nel sottolineare l'influenza che questa dottrina esercitò sulle concezioni giudeo-cristiane del diavolo, sulle attività del Maligno e sul suo destino finale. La religione ebraica così come èpresentata nel Vecchio Testamento non lascia spazio ad una figura rappresentante il principio del male, perché Dio stesso è visto come responsabile sia del male sia del bene. Ma questo cambia nel periodo tra il 200 a.C. e il 100 d.C.. Nella letteratura generalmente conosciuta come "apocalittica", la responsabilità del male passa da Dio agli angeli che, per un motivo o per l'altro, sono caduti dal Paradiso e sono diventati diavoli erranti per la Terra. Il loro capo, chiamato in modi diversi, Azazel, Mastema, Belial, o - più spesso - Satana, è chiaramente riconoscibile come il diavolo. Ora Dio e il diavolo stanno ciascuno alla testa di una schiera di angeli, pronti per l'incombente conflitto decisivo alla fine del mondo. Gli esseri umani sono anch'essi coinvolti: ogni Giudeo può scegliere tra rimanere fedele al Dio di Israele o abbandonare Dio a favore del diavolo. Gli stessi libri del Nuovo Testamento furono scritti, nel periodo che va dal 50 al 100 dopo la morte di Cristo, da Ebrei la cui visione del mondo derivava in parte dalla tradizione apocalittica. Con una notevole coerenza, Russel ritiene che la concezione di una lotta cosmica tra il regno di Dio e il regno di Satana, che eleva il diavolo quasi alla condizione di principio originale del male nel cosmo, sia una parte essenziale del Cristianesimo primitivo. I primi teologi del Cristianesimo giunsero infatti alla conclusione che, poiché i nostri progenitori avevano voltato le spalle a Dio di loro libera volontà, Satana aveva il diritto di tenerci in schiavitù finché non fossimo redenti.
Si svilupparono così diverse teorie sul significato della redenzione che concordarono nel ritenere che il potere del diavolo e delle sue coorti di attaccare, tentare e tormentare gli esseri umani sarebbe stato finalmente distrutto solo quando Cristo fosse ritornato in forma solenne per celebrare il Giudizio Universale: ma già nell'età presente quel potere sarebbe stato indebolito dal l'incarnazione e dalla passione di Cristo. le analisi di Russel sulle diverse teorie della redenzione, esposte nei primi due volumi della sua trilogia, che arrivano fino alla metà del quinto secolo d. C., costituiscono un modello di erudizione e di lucidità. Il terzo libro esamina invece il concetto del diavolo nel millennio seguente. Sia nella Chiesa, cattolica romana sia nella Chiesa orientale ortodossa, l'idea del diavolo deriva dalla concezione dei Padri della Chiesa: ma non raggiunge in entrambe la stessa importanza. Il diavolo raramente appare in primo piano nel pensiero bizantino.
Il diavolo, nel Medioevo occidentale, è una figura quanto mai complessa. Nel folclore, egli viene generalmente presentato come ridicolo o privo di potere e, curiosamente, questo è anche il caso delle rappresentazioni teatrali popolari dal XV al XVII secolo, proprio nel tempo in cui presunte streghe venivano bruciate vive per immaginarie relazioni col diavolo. Russel suggerisce una spiegazione plausibile del paradosso: più i predicatori nei loro sermoni si diffondevano sugli spaventevoli aspetti del diavolo con l'intenzione di terrorizzare i loro ascoltatori e di volgerli alla buona condotta, più le ballate popolari tendevano a rendere comico il diavolo per alleggerire la tensione della paura. in molte commedie, il diavolo viene fatto vedere in maniera assai poco dignitosa. Alla sua espulsione dal Paradiso terrestre, ad esempio, lo troviamo mentre dice in tono lamentoso: "Ora andrò all'inferno per essere gettato in tormenti senza fine. Per paura delle fiamme, io scorreggio". E il diavolo ha anche una curiosa abitudine: quella di mettere le mani sui genitali dei demoni minori, in una specie di parodia della benedizione del prete. Ma le fantasie popolari ebbero anche i loro aspetti feroci e conseguenze sinistre: sia i Musulmani che gli Ebrei furono rappresentati come adoratori ed agenti del diavolo, e questo ha avuto un peso non indifferente nella crudeltà con cui i Musulmani furono massacrati dai Crociati e gli Ebrei furono trucidati nei pogrom.
Per quanto riguarda invece i teologi di professione, le loro idee cambiarono notevolmente durante il Medioevo. Le teorie dei primi pensatori medioevali come papa Gregorio Magno nel VI secolo, Isidoro di Siviglia nel VII, Beda ed Alcuino nell'VIII e Gottschalk nel IX, furono ancora notevolmente influenzate dalle tradizioni ereditate dai primi secoli della Chiesa. Ma in seguito, dal XII al XIII secolo, eminenti teologi della Scolastica come Anselmo, Pietro Lombardo, San Tommaso, ridussero grandemente l'importanza del diavolo. Secondo il loro modo di vedere, Dio dispose che il cosmo fosse equilibrato e in armonia; ma nello stesso cosmo immise anche la libertà. Senza dubbio, fu il diavolo che, con l'esercizio della sua libera scelta, introdusse la possibilità del peccato nel mondo, ma sono gli esseri umani che, scegliendo di peccare, hanno infranto la condizione di equilibrio e di armonia. inoltre, nella tipica concezione scolastica del mondo (che deve molto al Neoplatonismo), il male non aveva un'essenza propria, ma era sostanzialmente la privazione del bene. In una tale prospettiva, il concetto del diavolo era davvero destinato a diventare molto astratto.
Nella letteratura di fantasia, il diavolo è invece rappresentato con un'efficacia di gran lunga maggiore. Nella letteratura anglosassone, egli appare soprattutto come un ribelle verso il suo Signore, Dio, e verso l'ordine naturale della società. Ma i sermoni che proliferarono nel tardo Medioevo attinsero anche ad una tradizione più pittoresca. La vita di Sant'Antonio, opera scritta nel IV secolo dal vescovo di Alessandria, Atanasio, racconta come in una occasione il diavolo fosse apparso al santo sotto forma di una piacente donna e quasi lo avesse sedotto; e come, in un'altra occasione, i demoni irrompessero nella sua cella sotto forma di leoni, tori, orsi, leopardi, serpenti, aspidi, scorpioni e lupi; e ancora, come il diavolo e una masnada di demoni gli avessero teso un agguato, l'avessero percosso e frustato e poi lasciato svenuto sul terreno. Queste storie, riprese più volte nelle successive biografie di santi, ispiravano ancora i predicatori e atterrivano i fedeli un millennio più tardi. Ed è in larga misura grazie all'influsso delle biografie dei santi non solo sui sermoni, ma anche sulle opere teatrali che il diavolo mantenne ed accrebbe il suo potere nella mente dei laici. Inoltre, alcuni mistici hanno lasciato descrizioni terrificanti dei loro personali incontri con il diavolo, visto come un mostro che li aveva percossi e cercato di strangolarli.
Torniamo per un momento al presente. L'inferno, con il suo scenario di fiamme, col suo armamentario di tormenti e di pene, sembra quasi essere sparito dall'immaginario cristiano. Se il suo padrone di casa, Satana, continua di tanto in tanto a far capolino sulla scena, evocato dai discorsi del papa (l'ultima apparizione risale al ferragosto 1986), dell'inferno sembra essersi persa la memoria. Sopravvive senz'altro, forse distrattamente confinata tra i ricordi scolastici, la città infernale costruita da Dante, con la sua solida struttura architettonica. L'inferno dantesco, con la geometrica divisione degli spazi e delle profondità, con la gradualità delle pene, col contrappasso, è però solo uno dei tanti inferni progettati, nel corso della sua storia, dall'immaginario cristiano. Altri inferni, più infernali di quello dantesco, popolano ad esempio gli incubi delle plebi dall'Età di Mezzo fino a tempi recenti. Ma di questi inferni, ugualmente disegnati con puntiglio quasi maniacale dai teologi e dai predicatori, si son perse le coordinate geografiche. Solo i dotti lettori di manoscritti medioevali e di trattati teologici sanno come raggiungerli, conoscendo le loro mappe e i lugubri meccanismi di tortura che vi albergano. Piero Camporesi, da noi quasi solitario esploratore di questi mondi, ha ripercorso (in La casa dell'eternità) le strade che conducevano ai vari inferni, dal primo Medioevo alle soglie dell'età moderna, offrendoci uno spaccato estremamente affascinante di zone culturali e antropologiche scarsamente esplorate. Case dell'eternità, appunto: come aveva definito l'inferno Carl'Ambrogio Cattaneo, nel 1768. Camporesi delinea delle tipologie quanto mai "perturbanti". E vi è sempre una corrispondenza simbolica, ma alimentata da immagini quanto mai truci e realistiche, tra le caratteristiche di un'epoca ed il suo inferno.
Così, in piena età barocca, quando "non solamente si usavano gli odori con un'abbondanza di cui non abbiamo idea, a profumarne vesti, guanti, stanze, cibi e bevande", emerge dalle predicazioni un inferno-cloaca dominato da un puzzo mortalissimo, contrappasso olfattivo che angosciava la buona società seicentesca. Per consolidare questa immagine di un inferno del naso, i gesuiti, "veri signori dell'eloquenza infernale", descrivevano la casa dell'eternità come una nauseabonda discarica esalante il fetore di una mortuaria, eterna corruzione, in tutto simile alle enormi fosse comuni destinate alle vittime delle pestilenze. Ma nell'inferno barocco non era solo il naso a subire la punizione divina. Tutti i sensi venivano oltraggiati senza tregua. Nell'inferno prospettato da Paolo Segneri, vero campione di infernologia gesuitica, "gli occhi grideranno in dimandare luce, e pure saran costretti a rimirar sempre terrori, tenebre e fumo... Le orecchie grideranno per dimandare il piacere dell'armonia, e pure non udiranno se non gemiti, strida e scompigli... il gusto bramerebbe di consolare la suo sete e la sua fame, e pure non vi sarà modo di contentarlo, né anche coll'immondenza delle cloache... L'odorato chiederà profumi, e pure non potrà avere se non un fiato sì putre, un fetore sì puzzolente, che basterebbe con un alito solo ad infettare tutta la terra". E rivolgendosi al suo nobile interlocutore, padre Segneri ammoniva: "Tu che non puoi ora patire il puzzo di un povero.... potrai tu reggere a quelle fetide fogne, dalle quali dovrai sentirti appestare, soffocare ... ?".
E' proprio questo "puzzo del povero" che terrorizzava, più d'ogni altro tormento diavolesco, i signori arroccati nei loro sontuosi palazzi, nel tentativo di evitare gli aliti putenti, quelli dei poveri, appunto, facendo ricorso a misture odorose di spezie orientali. Era esattamente "questa ventilata promiscuità democratica post-mortem - osserva Camporesi - ad essere più temuta della morte stessa", perché essa rendeva "insopportabile il pensiero d'un simile soggiorno, la minaccia d'una lercia coabitazione protratta per l'eternità". Siamo lontani, infatti, dall'ordinato cosmo infernale immaginato pochi secoli prima da Dante. Dell'inferno dantesco rimangono solo la sua collocazione nel cuore della terra e le fiamme che lambiscono una massa eterogenea di dannati.
Ma già agli inizi del Settecento, rispondendo alle esigenze scientifiche dell'epoca, la sede dell'inferno conosce uno straordinario ribaltamento: dalla terra al cielo. Tobias Swinden, infatti, nel 1714 pubblica a Londra un curioso studio sulla natura e sulla sede dell'inferno, sostenendo, con rigorosa logica, che la quantità di fiamme necessaria per tormentare milioni di dannati non può trovarsi al centro della terra. L'inferno trasloca, allora, nel sole, l'unico luogo nel quale è presente in abbondanza la "materia prima infernale". Del resto, quasi contemporaneamente, un altro inglese, l'astronomo William Whiston, aveva ipotizzato l'esistenza di inferni mobili, individuandoli nelle comete, considerate come delle gigantesche "corriere" che trasportavano i dannati in una regione infuocata, situata nei pressi del sole. Da allora in poi, l'inferno conosce un lento e inesorabile oblio, smantellato dallo scetticismo dell'età dei Lumi. Ma prima di giungere a quella che definisce l'epoca del post-inferno, Camporesi si sofferma sulle dolorosissime pratiche rituali scatenate dalla paura dell'inferno: fustigazioni e flagellazioni, digiuni e penitenze, tutti improntati ad una sistematica mortificazione dei sensi. E' una vera e propria malattia dello scrupolo religioso che contagia migliaia di cattolici, sempre più ossessionati dalle pene che li aspettano nella casa dell'eternità se si abbandoneranno ai piaceri della carne. Si scopre, leggendo le testimonianze raccolte, che persino i "creatori dell'inferno" non erano immuni dalle ansie da loro stessi provocate.
Padre Segneri, per citare l'inventore dell'inferno dei sensi, escogitava ingegnose macchine di tortura, che forse potrebbero figurare in un libro del marchese De Sade. Il pio gesuita aveva conficcato in un pezzo di sughero delle acuminate punte di ferro: con questo marchingegno si dilaniava quotidianamente le carni. E ritenendo insufficiente la propria potenza muscolare, si avvaleva della collaborazione di un compagno di pene, facendosi colpire violentemente alle spalle. Accanto a questi rituali, l'importanza attribuita ai Sacramenti. Quasi inseguendo una meta ideale, Camporesi dedica la seconda parte del libro alle prodigiose virtù attribuite all'Ostia. Intorno al pane degli angeli - secondo la definizione data dal beato Gerardo Maiella - fiorivano numerose leggende, che ne facevano un alimento sotto ogni aspetto miracoloso. Decine di santi e di fedeli riuscivano a sopravvivere (San Nicolao da Flue per ben vent'anni) nutrendosi solo del Corpo di Cristo. E si narrava di straordinarie guarigioni operate appoggiando l'Ostia sulla parte malata. Aspetti deteriori, che nulla avevano a che fare con riti sacrali e con credenze religiose, i furti di Ostie perpetrati per confezionare filtri d'amore e pozioni magiche, o per apportare fertilità e fecondità. Non stupisce, dunque, se in epoca barocca, per evitare una dannazione tutta corporale e non volendo sottoporsi a digiuni o a flagellazioni, si consumassero più Ostie, perché ci si comunicava più volte al giorno. E non mancarono nobili, i quali, sommando la quantità alla qualità, pretesero - e ottennero - Ostie di dimensioni maggiori di quelle destinate al volgo. Illudendosi, in questo modo, di salvare l'anima, soddisfacendo i sensi alla mensa divina.

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