§ IL CORSIVO

Quanti secoli sono passati?




Aldo De Jaco



Quanti secoli sono passati? Anche i luoghi deputati della commedia sono cambiati, allora - per esempio - non era stato ancora inventato, almeno da noi, l'"open space" e Segrate era ancora fuori Milano, ci s'andava in gita (in bicicletta? anche, ed anche in '600). E non c'erano monumenti all'elefante da scoprire. Milano? Milano era la capitale. Ma la capitale di che? Del triangolo industriale, naturalmente dell'Europa industriale. Con la quale, bisogno aggiungere, un pugliese come me, un siciliano come me, un napoletano come me, insomma un meridionale, non aveva proprio niente a che spartire.
Milano era la capitale di tutte le paure dell'infanzia, città di fantasmi fra la nebbia, dal dialetto ostile e dai gesti violenti. (E Torino? Torino no. Ghiacciata e limpida, con le Alpi in fondo e un indirizzo postale al quale gli sconosciuti potevano mandare i loro racconti, Torino ci era vicina di casa).
Sia chiaro: io a Torino non c'ero mai stato allora, figuriamoci, mentre a Milano avevo passato ben due anni, due anni di giovanile sofferenza e di solitudine, dai 15 ai 17 mi pare. Comunque all'epoca che sta cercando di descrivere - almeno come la memoria me la rimanda dal fondo dei tempi, da un altro, più labile sistema gravitazionale nel quale tutti eravamo più magri ed ovviamente più giovani - io di anni ne avevo dieci di più o undici e venivo fuori da un trauma giovanile profondo datato 1947 e occasionato dalla campagna del PCUS (vi ricordate Andrei Zdanov?) contro l'arte degenerata, la scimmia Zoscenko e quella poco di buono di Anna Achmatova.
Così solo da poco avevo ripreso a scrivere, dopo un intervallo di anni nel corso del quale altri colpi non erano mancati, come la complicata vicenda del "Politecnico" e la polemica Vittorini-Togliatti su politica e cultura. Educato alla logica ferrea del 4° capitolo della storia del PC(b) dell'URSS, io non potevo che dare ragione a Togliatti come al maestro che ti ha messo al tappeto applicando con rigore le comuni regole di combattimento. Tuttavia non è mai comoda la posizione di chi sta con le spalle a terra e guarda gli altri, incombenti su di lui.
Vorrei chiarire che forse si è sopravvolutata quella polemica o, almeno, non si è valutato, come atto liberatorio, come vera e propria scoperta che il re è nudo, un altro gesto di Vittorini - magari involontario - che ha rotto più vetri e vetrini di quanti ne abbia rotto la storia del "Politecnico".
Mi riferisco a quell'elzeviro della "Stampa" nel quale Vittorini - d'inciso - raccontava il suo allontanarsi dal Partito come una mera dimenticanza, la dimenticanza d'andare in sezione a ritirare quel doppio cartoncino variamente colorato in rosso che chiamavamo (e chiamiamo) tessera. Sia chiaro, a quel tempo la regola, ferrea anche se non scritta, era che dal Partito non si poteva uscire se non con i piedi in avanti o con una corda al collo, insomma morti o condannati (all'espulsione) e a condanna eseguita.
Ma ecco che Vittorini perdeva il Partito per strada come un elenco di indirizzi un po' invecchiato e ce lo raccontava sul giornale della FIAT. Orrore e scandalo. Violenta era la reazione di "Rinascita", in effetti - io credo - non perché Vittorini se ne era andato (non rimanevano con noi gli Operai, i Braccianti, le Masse?) ma perché se ne era andato senza grida e senza lamenti, senza far tragedie insomma aveva cambiato strada semplicemente perché non gli andava più la nostra compagnia. Aveva preso la porta, e per lui la porta s'era trovata aperta. Per lui o per tutti?
Sotto coltri, strati, montagne di indignazione e anche qualche sincero, addolorato sospiro, c'era un noioso pisello: l'idea che al dunque, se proprio non andava bene, anche noi avremmo potuto prender la via dell'uscio. li "perinde ac cadaver" era sconfitto e non solo per conto di chi se ne andava ma anche per conto di chi faceva la scelta opposta, rimaneva (e questo era il suo atto di libertà).
Insomma, ecco chi era Vittorini per me, e quale somma di contraddizioni allora importanti sollevava il rapporto con lui.
C'era, sì, la mediazione di Italo Calvino (che restò con quei nostri talloncini in tasca fino al tesseramento del '57) e c'era anche quella di Natalia Ginzburg ammirata già in veste di Alessandra Torninparte, ma il rapporto restava difficile. Rapporto? Quale rapporto poi? Lui stava a Torino ed io a Napoli. Gli ho mandato tre racconti (allora i racconti avevano un mercato, scriverli significava, al caso, pubblicarli e lui mi ha chiesto il resto. L'ho raccontato in un mio vecchio libro, Vocazione agitprop: "Mandai tre racconti ai Gettoni e mi chiesero il tutto; Vittorini apprezzò, sopra ogni altro testo, "Passeggiata panoramica", racconto lungo sul patetico di fingere, in una breve gita in vaporetto lungo l'arco del golfo, la felicità di una fuga dal misero quotidiano. lo invece amavo tutto, ogni virgola e ogni accapo, e non intendevo modificar nulla; questo non solo per mio personale orgoglio, l'ho detto, ma perché ogni tassello, ogni sfumatura di colore di quel mosaico secondo me era indispensabile al disegno generale".
"Così andavano e venivano le lettere e i valori erano stravolti: la sposa giovinetta si impuntava a volere ogni cosa come se l'era immaginata; e invece di precipitarsi nel talamo traccheggiava e perdeva tempo e soprattutto precostituiva testimoni per il caso dovesse provare, figuriamoci!, che non stava concedendo nulla al futuro sposo".
"Il fatto è che Vittorini se ne era andato (gghiuto) dal partito..,.".
Il rapporto però c'era, fra me e Vittorini, e come no!, ed era dato appunto dall'epistolario, dalle lettere che allora andavano e venivano puntuali (oggi invece è pressocché impossibile ricever risposta ad una lettera: se già non è la tua ad andar perduta nel viaggio d'andata, all'80% è certo che si perde quella di ritorno dell'editore. Senza contare il tempo che ci vuole per scriverlo, quella lettera, e la massa di dubbi che si porta dietro).
Qualche tempo dopo ho saputo che non solo Vittorini rispondeva alle lettere ma aveva (lui o il suo ufficio) un archivio con le veline sue e con gli originali del suoi corrispondenti. Inaudito. E' vero che anch'io non ho mai buttato via le lettere di Vittorini, nemmeno quelle che mi beccavano in faccia, tuttavia un archivio! Le mie lettere - quelle che ho ricevuto - sono in fondo a certi cassetti insieme a fogli ingialliti di racconti o bozze di romanzi rimasti lì, con la grafia a matita che ormai è incomprensibile.
Devo mettere in guardia gli studiosi che sono andati e andranno ancora a rovistare in quell'archivio. Sì perché per buona parte si troveranno in mano del falsi e non saranno in grado di riconoscerli. Le lettere che Vittorini mi indirizzava per esempio erano scritte più a mano che a macchina, nel senso che il testo dattiloscritto era poi corretto rigo per rigo ed altre frasi vi si innestavano e crescevano sui margini del foglio, scendevano come tanti rami, che so?, di un salice piangente. E lì, nella parte scritto a mano che in archivio non si troverò, c'era il vero messaggio. Anche le mie del resto erano lettere false, sì perché le scrivevo con la mano anchilosata dalla preoccupazione di cedere qualcosa e a qualcosa, al senso di una amicizia proibita, per esempio, o di una gratitudine indecente anche se giustificata. Quanti secoli sono passati? Insomma temo proprio quest'archivio e l'immagine infelice di me che ne può venir fuori. Pazienza in ogni caso. Resta il fatto che alla fine Vittorini pubblicò i miei racconti senza nessuno dei cambiamenti che avrebbe voluto apportare, se non nel titolo che da "Città napoletana" divenne "Le domeniche di Napoli" (e ancora un po' gliene voglia).
Pubblicò mettendo le mani avanti in uno dei suoi corsivi siglati del risvolta di copertina: "Non mi piace il lirismo di partito. Per qualunque emblema venga fatto è sempre la stessa solfa. E io non apprezza gli ,evviva' coi quali l'autore di questo libro ha bisogno di salutare ogni tanto la bandiera della propria fede. Tuttavia mi sembra che vi sia abbastanza novità nelle sue pagine per passar sopra all'inconveniente. Si legga "Passeggiata panoramica" . E' una nenia di stupenda freschezza che racconta di Napoli, e della sua folla più povera, come se nessuno ne ha mai parlato. E come se nessuno ne avesse mai parlato".
Sussultarono i miei amici della fiorente (allora) scuola napoletana. Che aggiungere? Il libro passò presto, ebbe un premio e qualche buona recensione - sul "Mondo", per esempio - che mi riscattò agli occhi dei politici napoletani del mio partito; fino ad un certo punto però ed infatti essi poi - per la penna di Giorgio Napolitano - fecero giustizia di me sulla rivista "Cronache meridionali". (Perché? Forse non piaceva neanche a loro il "lirismo di partito", specie se basato sul sudore e la sofferenza degli uomini. Forse non gli andava di non trovare, in quella città napoletana, né buoni né cattivi ma una confusione brulicante di gente).
L'epistolario con Vittorini continuò poi, ed io continuai a mandargli i miei racconti i quali ormai tendevano a superare le 50 pagine e si ponevano -lo confesso alfine - il problema del realismo socialista (se lo ponevano ma non lo risolvevano affatto, solo barcollavano fra lirismo e verismo - o naturalismo - napoletano). Le cure di Vittorini e la sua pazienza nei miei riguardi non diminuirono, comunque, semmai aumentarono. lo gli mandavo un racconto, lui lo leggeva e mi mandava osservazioni su osservazioni, più o meno mi spiegava come l'avrebbe scritto lui. Io... non ne seguivo le indicazioni, tuttavia quelle lettere mi si depositavano nel cervello, venivano buone per il futuro.
Intanto la collana del Gettoni aveva concluso il suo iter e lui, Vittorini, era passato alla Mondadori. Mi scrisse: "Verresti .... ". Ed io (un po' avventatamente): "Onore e piacere". Così uscì nella Medusa "Una settimana eccezionale", con un Pulcinella guttusiano in campo rosso sulla copertina, e vinsi la prima edizione del premio Settembrini-Mestre che era appunto dedicato (bei tempi) al racconto. E da Mestre, ritirato il premio, andai finalmente a Milano.
E' stata quella l'unica volta che ho incontrato Elio Vittorini, un signore magro e pallido, irto di baffetti e di capelli, burbero per timidezza, con le pupille nere che ti scrutavano inquiete.
Non si può dire che non somigliasse a se stesso mentre io, grasso e lento nei movimenti, vestito con l'abito del matrimonio per essere degno della cerimonia di Mestre (ce l'ho ancora quel vestito) scarsamente testimoniavo la crisi che mi stava facendo a brani, dentro. Era l'anno 1959, cioè 1956 + 3. Cercavamo e trovammo strade diverse. Egli si era disamorato - credo - del cliché che lui stesso m'aveva stampato addosso. Dalla non facile intuizione che l'Italia stava cambiando, era cambiata (i politici ci metteranno anni ad accorgersene), aveva dedotto che l'egemonia era di altri dialetti, di altre realtà che non quella meridionale. Storie. Rapidamente capì poi e ci disse che non era più affare di dialetti ma di un nuovo linguaggio per una nuova realtà. Lo stiamo ancora cercando quel linguaggio, mentre la realtà ci cambia ancora intorno, si deforma, si gonfia, è un mostro che ci avvolge. E l'immagine di Vittorini, pallido, grigio, intento, scompare. Quanti secoli sono passati?

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