§ MEZZOGIORNO E MOVIMENTO CONTADINO

Il vento del Sud (2)




Maria Rosaria Pascali



Durante la prima metà dell'800, il Mezzogiorno resta un paese sostanzialmente agricolo. Nulla che possa far pensare ad un concreto processo di sviluppo industriale. In questo senso, il divario con il Nord è già notevole. lì anche l'agricoltura è a base capitalistica, quindi caratterizzata da moderne attrezzature e da una rapida espansione. Il Sud, invece, continua a vivere in una fase intermedia, di passaggio tra il regime feudale, chiuso e arretrato, e il nuovo sistema, con le sue leggi progressiste e liberiste. Abbiamo visto che, con il "decennio francese", la feudalità viene ufficialmente abolita. Questo e altri provvedimenti adottati dai francesi (soppressione della manomorta ecclesiastica e dei poteri giurisdizionali dei nobili, liberalizzazione delle terre) hanno permesso alla nuova classe della borghesia terriera di prendere in mano le redini del gioco. Su questo ceto emergente sono rivolte le speranze di rinnovamento. Invece, i cosiddetti "galantuomini" non fanno che ereditare il comportamento degli ex-aristocratici. loro unica preoccupazione: giungere alla direzione politica del proprio paese, in modo da assicurarsi maggiori libertà civili e costituzionali. Essi continuano così ad ignorare lo stato di immane miseria in cui versano i contadini, che nelle province costituiscono il 90% della popolazione attiva, e quello un po' meno disastrato, ma sempre al limite della sopravvivenza, in cui versa il giovane ceto operaio. All'inizio del "decennio", mentre i prezzi aumentano, il livello dei salari agricoli è ancora quello praticato a metà Settecento. le uniche eccezioni riguardano la paga giornaliera del "caporale di puta" e dello "zappatore". Solo successivamente le retribuzioni dei "giornalieri di campagna" subiscono lievi aumenti, tali, comunque, da compensare minimamente l'aumento del costo della vita. Rifacendoci ai dati forniti per le province continentali del Regno delle Due Sicilie da Domenica Demarco, nella sua opera Il crollo del Regno delle Due Sicilie, e ai dati forniti da Lorenzo Palumbo nei suoi studi sulla Terra di Bari, abbiamo potuto costruire il grafico (che compare nella pagina successiva) sull'andamento dei salari nella prima metà dell'800. L'eversione della feudalità doveva essere il primo fondamentale passo verso una più equa distribuzione delle terre. Questo nelle intenzioni del legislatore. Si riteneva, infatti, che prima dell'eversione non esistesse proprietà privata, dato che tutte le terre erano in possesso dei feudatari, degli enti ecclesiastici e delle Università. In realtà, a metà del'700, il numero dei "mendici" era molto basso, in quanto la maggior, parte dei contadini possedeva un pezzo di terra e tutti, rurali e civili, erano proprietari della casa in cui vivevano. Certo si trattava di beni aventi un valore esiguo e insufficienti ad assicurare alle masse i mezzi per sopravvivere. Ma i contadini potevano contare anche sugli "usi civici", cui erano assoggettate le proprietà dei baroni e del clero (pascolo, legnatico, semina, spigolatura, ecc.). L'abolizione della feudalità ha fatto sì che cambiassero i padroni, ma nessun contributo ha dato al miglioramento dei rapporti tra proprietario e contadino. Nella sua inchiesta sulla Sicilia del 1876, Sidney Sonnino scriverà: "Nelle relazioni tra il contadino e il proprietario molto è rimasto ancora dei contenuti feudali.

Quella che era stata fino allora potenza legale rimase come potenza, o prepotenza, di fatto; il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo e oppresso. Il latifondista restò sempre barone, e non soltanto di nome: e nel sentimento generale la posizione generale del proprietario di fronte al contadino restò quella di feudatario di fronte a vassallo. Vi è poi la classe della borghesia, non molto numerosa, e là, come dappertutto, avida di guadagno e imitatrice della classe aristocratica soltanto nelle sue stolte vanità e nella sua smania di prepotenza". Il latifondo, dunque, lungi dall'essere stato distrutto, è nelle mani degli ex-baroni e del nuovo ceto borghese, che lo amministrano secondo le tradizionali forme di gestione. Mentre le masse rurali, non potendo più usufruire degli "usi civici", sono costrette a vendere la propria terra e la propria casa a usurai senza scrupoli, e ad assoggettarsi ai nuovi padroni in condizioni di disumano sfruttamento. Questi ultimi, infatti, continuano a dare le terre in affitto o a colonìa, e a far gravare sui coltivatori tutti i rischi connessi con la produzione. Attorno alla "masseria", azienda tipica della grande e media borghesia, vi è un proliferare di forme di piccola conduzione precaria. lo scarso rendimento della terra, che da queste forme deriva, è più che compensato dai canoni altissimi che i contadini sono disposti a pagare. Grazie al lavoro di un immenso numero di piccoli e medi coloni e di fittavoli, si assiste ad una radicale trasformazione di migliaia di ettari di terreno, fino ad allora rimasti incolti ovvero adibiti a pascolo o a seminativo, in vigneti, in oliveti, in mandorleti. Con riferimento alla Puglia, e particolarmente alla Terra di Bari, il De Cesare scriverà nel 1859: "Volgete uno sguardo alla valle dell'Ofanto presso Canosa, alle pianure di Monte Carafa presso Andria, alle campagne di Minervino, Spinazzola, Corato, Ruvo, Barletta, Trani e dell'intero distretto barese, e voi vedrete milioni di viti piantate da cinque anni in qua, migliaia di ulivi e mandorli, e infinite altre piante da frutto" (De Cesare C., Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre province di Puglia, Napoli 1859). Si tratta di terre che, dopo 10-15 anni, dovranno essere restituite ai loro proprietari e nessun compenso sarà dato a coloro che le hanno rese fertili in tutto questo tempo. Ma la "smania di dissodare" e le profonde trasformazioni che ne sono seguite modificano il rapporto esistente tra agricoltura e pastorizia. Le greggi trovano sempre meno superfici su cui pascolare. Nascono nuovi soprusi da parte dei ricchi proprietari. Essi hanno bisogno di altre terre per sfamare l'accresciuto patrimonio zootecnico. E raggiungono il loro scopo appropriandosi degli appezzamenti destinati ai meno abbienti. Così, la decretata divisione del demanio comunale fra i contadini bisognosi non avrà mai luogo.
Quelle terre, grazie alla corruzione di molti amministratori comunali, saranno usurpate dai nuovi padroni e a nulla serviranno le lunghe e costose vertenze giudiziarie, con le quali le masse cercheranno di far valere i propri diritti. L'appropriazione illecita delle terre viene attuata dapprima richiedendo e ottenendo in enfiteusi o in locazione esigue parti di una data proprietà demaniale, e poi estendendo arbitrariamente il possesso sull'intero appezzamento. E poiché "possesso vale titolo" fino a prova contraria, queste terre restano chiuse anche agli "usi civici". D'altra parte, di rado il Consiglio di Intendenza, a cui spetta di decidere in proposito, si pronuncia a favore del Comune ingannato. Inoltre, senza la sentenza definitiva non può essere richiesta la restituzione di quanto è stato illecitamente sottratto. E la procedura giudiziaria è articolata in modo da protrarre senza limite la vertenza. La legge èdunque, di fatto, dalla parte dell'usurpatore, e lo protegge anche nei rari casi di decisioni definitive, consentendogli, a mezzo di cavilli, di conservare il possesso sul demanio. La reazione dei contadini è spesso violenta. Ma le rivolte vengono subito soppresse dalle forze dell'ordine. Scrive l'ambasciatore austriaco al Metternich nel 1847: "In tutto il Regno di Napoli è un profondo malcontento derivato dal fatto che le riforme promesse sin dal 1820 non sono mai state attuate ed accresciuto dallo stato deplorevole in cui versa l'amministrazione del paese. Ovunque, dai ministeri agli uffici periferici, è arbitrio e corruzione. In questo paese, in cui le masse popolari vivono nella più nera miseria, nessun concreto tentativo per migliorarne le condizioni è stato fatto dal potere centrale, né dai ceti più elevati ... " (testo tratto da T. Pedìo, Classi e popolo nel Mezzogiorno d'Italia alla vigilia del 1848, ED. LEVANTE, Bari). Le terre invase dalle masse sono restituite agli usurpatori. I veri motivi delle proteste popolari vengono costantemente ignorati. E celati dietro una facciata di innocente equità. Nelle campagne si vive bene, perché le attività agricole sono tali da assicurare un'occupazione a quasi tutti i contadini. Se agitazioni vi sono è perché le masse sono strumentalizzate da elementi anti-liberali. Questa la verità ufficiale. Di fatto, fino alla metà dell'800, le condizioni di vita del contadini sono ancora a livello bestiale. Scrive F. Petruccelli nel 1848 su Mondo Vecchio e Mondo Nuovo:
"Sopra giacigli di paglia, senza coverture, madre, figliuoli, padre, tutti agglomerati, tutti ristretti pel freddo, i vincoli della natura negligono, il pudore non curano, si abbandonano ad istinti pervertiti e, prima di imparare a pregare, imparano a disperare ... Non temono che i tirannelli, i quali succhiano loro fin il miserrimo frutto della mercede che all'operaio si deve" ... Questi tirannelli "comprano e sviano la giustizia, la cosa pubblica a loro modo amministrano, si dividono i demani, si sgravano di balzelli e le rendite del Comune ingoiano ... e lasciano ingoiare da funzionari più alti" (T. Pedìo, op. cit. Classi e popolo nel Mezzogiorno). Ripetiamo: questo quadro economico-sociale profondamente iniquo consente il mantenimento di una società agricola di impronta patriarcale e tradizionalista, arroccata sulle antiche posizioni feudali, restìa ad aprirsi ad uno sviluppo di tipo capitalistico, e quindi tagliata fuori dal processo di rinnovamento con il quale il Nord e gran parte dell'Europa stanno cambiando pelle. Su questa situazione poco possono influire gli insediamenti industriali avviati grazie soprattutto al capitale svizzero-tedesco. Si tratta di impianti isolati, come i cantieri metalmeccanici del Napoletano e le aziende tessili del Casertano e del Salernitano, che, pur protetti da alte tariffe doganali, non riescono, da soli, a smuovere le acque della stagnante arretratezza meridionale. Il sistema di comunicazioni è addirittura inesistente. Le uniche strade sono quelle che permettono al re Borbone di raggiungere dalla capitale le varie residenze reali.
Nel 1848, un nuovo evento alimenta le speranze delle masse contadine: la promulgazione della Costituzione. Convinto che il nuovo regime sia dalla sua parte nella revindica delle terre usurpate, e che l'azione diretta sia il modo più efficace per ottenere ciò che ad esso appartiene, il popolo è ora sempre più violento nei suoi moti di protesta, che diventano magmatici movimenti di lotta contro i ceti possidenti. Si intensificano così le invasioni delle terre. In questa azione, ai contadini si aggregano spesso preti, sindaci, notai, anche molte guardie nazionali, che dovrebbero, invece, difendere gli interessi degli usurpatori, nonché numerosi elementi democratici, desiderosi di rovesciare il regime liberale. Intanto, dalla capitale, giovani provenienti dalla media e piccola borghesia tornano nei paesi natali con la speranza di poter godere delle libertà sancite dalla Costituzione. Nella provincia, però, la classe dirigente non accenna a fare concessioni, convinta che ad essa sola siano diretti i benefici derivanti dal nuovo Atto. Ciò provoca una profonda rottura all'interno del movimento liberale tra moderati neoguelfisti ed elementi radicali, di rango inferiore ai primi. A questi ultimi la Costituzione ammette l'ingresso nelle fila del movimento liberale; ma, di fatto, essi vengono rifiutati dalla vecchia classe dirigente, che li vede come individui subalterni, perché, appunto, di estrazione medio-piccolo borghese. Questo rifiuto spinge tali soggetti ad appoggiare i loro oppositori nella lotta contro i massimi esponenti liberali. Al contrario di questi ultimi, infatti, non avendo usurpato terre, essi non hanno alcun interesse a porsi contro i contadini. Anzi. Con il loro sostegno possono sperare di prendere il posto degli attuali dirigenti. Va osservato che anche fra gli stessi moderati non mancano motivi di contrasto. Questo perché non tutti hanno defraudato i contadini. E, in effetti, solo questi ultimi li temono e non intendono muovere un dito in loro favore. Gli altri comprendono che schierarsi contro le masse vuoi dire lasciare che esse siano manovrate dalle forze conservatrici, che aspirano a restaurare l'assolutismo borbonico. Ma il fatto che anche elementi moderati simpatizzino per i moti popolari suscita preoccupazioni da parte del potere costituito. Non sono in ballo solo le sorti della ricca borghesia; è l'intero sistema che rischia di crollare. Con l'inasprirsi delle agitazioni, i dirigenti moderati riescono a convincere quei liberali simpatizzanti per le lotte contadine che le richieste popolari certo avrebbero avuto gravi ripercussioni anche sulla situazione della piccola e media borghesia. In questo modo, i contadini restano isolati, mentre nuove promesse vengono fatte al popolo dal potere centrale. Il 22 aprile del '48, il ministro Conforti emana una circolare con la quale condanna la violenza delle classi rurali, ma, al tempo stesso, sollecita la quotizzazione delle terre del demanio. Tuttavia, il popolo non desiste dalla sua azione. Si sente solo e defraudato. L'esperienza gli ha insegnato che la legge non è mai dalla sua parte e che le promesse restano tali se le acque tornano ad essere tranquille.
Il regime politico instauratosi con l'Unità d'Italia si dimostra altamente oligarchico. A seguito della legge elettorale del 17 dicembre 1860, il numero dei deputati eleggibili scende da settecento a quattrocento. In questo modo, il Mezzogiorno rimane poco rappresentato, in linea con le intenzioni del Cavour, che ora può contare su una larga maggioranza. Infatti, dei 443 deputati nominati nella prima elezione, solo 80 sono garibaldini. Con il nuovo Stato, non muta l'atteggiamento profondamente discriminatorio assunto dal potere centrale nei confronti del Sud, il quale sconta pure le conseguenze derivanti dall'estensione a tutte le regioni della legislazione piemontese. Effetti particolarmente negativi si hanno sul piano della politica doganale e del sistema fiscale. Il crollo dei dazi protettivi, che fino ad allora hanno sostenuto la pur sporadica attività industriale, lascia l'industria meridionale impotente rispetto alla concorrenza delle aree più sviluppate. Inoltre, l'adozione del "free trade" trova nel Sud un'agricoltura ancora incatenata nella morsa di rapporti agrari e sociali altamente arretrati. E' un vincolo troppo saldo, che rende minimi i vantaggi connessi con la liberalizzazione degli scambi. Nello stesso tempo, aumenta a dismisura la pressione tributaria sulle campagne, sia perché il nuovo Stato si accolla le spese belliche del Piemonte sia perché servono enormi stanziamenti per finanziare la costruzione di una ricca rete di ferrovie. è la cosiddetta "follia ferroviaria", appoggiata vivamente dalla borghesia industriale.
Intanto, l'esasperazione delle masse, venute meno le speranze che l'avanzata garibaldina aveva acceso in loro e sconfortate di fronte alla miope politica del moderati, che funzionalizzano tutto alla conservazione della proprietà, esplode nel "brigantaggio": una forma di protesta sociale che, come abbiamo visto, ha origini antiche. Intriso di un fanatismo religioso che affonda le sue radici nella superstizione e strumentalizzato dai propositi restauratori del sovrano spodestato, il brigantaggio si delinea come un fenomeno ambiguo e pieno di ferocia folle e omicida. Ma una cosa è certa: la follia nasce spesso dalla disperazione.
E disperate sono queste decine di migliaia di reietti, cui tutto è stato tolto e tanto è stato promesso. A dirla con il Fortunato, il brigantaggio rappresenta "l'ultimo atto del dramma", l'ultimo atto, cioè, della questione agraria, "lugubre storia, che soltanto nei suoi primi venti mesi ... numera mille fucilati, duemila cinquecento morti in conflitto, poco meno che tremila condannati al carcere o alle galere!". D'accordo pure Pasquale Villari quando dice: "Il brigantaggio può dirsi la conseguenza di una questione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali". Così anche il Racioppi, che nel 1860-61 dirige la repressione del brigantaggio lucano. Egli, pur considerando il movimento come "un'associazione di ladri, malandrini e di contumaci alle leve, consociati e speranzati dai partiti vinti dinastici", allo stesso tempo vede in esso la voce di un "perturbamento profondo nelle intime viscere della società", "gli umori guasti del corpo sociale". Ma nonostante gli ammonimenti di pochi illuminati, l'incomprensione storica del brigantaggio da parte del governo unitario non accenna a diminuire. Del complesso di cause che hanno scatenato il fenomeno, la più sottovalutata, eppure la più importante, è proprio la crisi sociale. Al governo, infatti, fa comodo porre l'accento sulla vasta opera di strumentalizzazione delle masse svolta dal re borbone e dal clero, quale unico veromotivo del dilagare violento delle guerriglie.
Non possiamo negare che, accanto al brigantaggio nostrano, spontaneo e di portata limitata, esiste un vero e proprio movimento controrivoluzionario, il cosiddetto "brigantaggio politico": il partito legittimista, che dopo il crollo dei Borboni sopravvive a Roma grazie alla protezione del Vaticano e della Francia, spera, attraverso l'azione di queste milizie popolari, di giungere ad una restaurazione del vecchio regime con a capo Francesco li. A questo scopo, fa giungere ai rivoltosi aiuti in armi e in denaro e addirittura invia da Marsiglia dirigenti militari con l'incarico di guidare i vari movimenti rivoluzionari. Nella loro opera, le forze borboniche trovano l'appoggio di un popolo meridionale traumatizzato dall'esperienza unitaria, il quale dimostra di preferire di gran lunga le poche certezze che ad esso assicurava il vecchio regime. Un ruolo primario nell'opera di persuasione delle masse esercita la Chiesa, rimasta fedele ai Borboni, e che molta influenza ha sugli strati più miseri della società. Nonostante ciò, il brigantaggio non sarà mai completamente imbrigliato nelle mire del partito restauratore, non diverrà mai il suo "braccio armato". Il miraggio delle terre in mano al popolo travalica ogni forma di calcolo politico. la belva umana si scatena. Quale organizzazione in questa follia omicida, in questa voglia di distruzione fine a se stessa? Poco può la Guardia Nazionale di fronte a tanta ferocia. Solo l'Esercito riesce a fronteggiare il brigantaggio, attraverso un duro sistema di repressione che arriva a colpire tutti coloro che sono sospettati di proteggere le bande. Viene dichiarato lo stato d'assedio e vengono sospese le libertà civili e politiche. All'inizio i risultati sono scarsi. Nelle guerriglie i briganti riescono a tener testa all'Esercito. Ma, purtroppo essi cominciano a colpire indiscriminatamente chiunque abbia la sventura di capitare sul loro cammino. I contadini sono terrorizzati sia dalle persecuzioni delle forze armate, che spesso fanno strage di innocenti sia dalla cieca azione di questi rivoltosi, che certo non agiscono più nell'interesse della povera gente, trasformati ormai come sono in criminali senza meta, dediti solo al furto e al saccheggio. Anche i borbonici li abbandonano, non potendo trarre da essi più alcun vantaggio. Nel 1870, il brigantaggio viene definitivamente soppresso. Una guerra che allo Stato unitario è venuta a costare più di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme. Sulle ceneri delle rivolte migliaia di voci gridano giustizia. Sono le voci di un popolo per il quale nulla è cambiato, e che nella fame e nella miseria ritrova il suo eterno tormento.
Il nuovo Stato si rivela impotente nella sua opera di egemonizzazione del Mezzogiorno. le forze oligarchiche delle Luogotenenze rendono questa terra impenetrabile. Si succedono le inchieste. Illuminate appaiono quelle di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino. Nell'Inchiesta in Sicilia del 1876, Sonnino scrive: "L'abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perché i feudi furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l'altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggiore schiavitù di prima, per effetto della propria miseria". Sonnino conclude il suo pensiero ritenendo che solo con una modifica dei rapporti agrari si può giungere ad una soluzione della questione contadina e meridionale. Purtroppo, la linea d'azione concreta proposta dall'intellettuale, ponendo attenzione solo sulle clausole più inique che legano i contadini ai proprietari, appare incompleta, non bastevole a creare un nuovo modello di vita. Né il Sonnino nella sua azione parlamentare si impegnerà mai per giungere ad una concreta incriminazione del regime vessatorio meridionale. Di lui ci resta una viva denuncia contro l'arbitrio che si perpetua nel Sud, e un aperto rimprovero verso l'impotenza dell'autorità statale. Egli scrive infatti: "Colle nostre istituzioni modellate spesso sopra un formalismo liberale anziché informate a un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione di fatto che già prima esisteva, col l'accaparrarsi tutti i poteri mediante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla che a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poiché la legalità l'ha in mano la classe che domina". lo stesso Villari, guardando alle esperienze che in quegli anni le grandi potenze europee stanno vivendo, lancia un ammonimento, ritenendo "necessaria una cosa: che la classe la quale ha adesso in mano la forza si persuada che essa deve governare a vantaggio non solo proprio, ma anche degli altri, assai più che non ha fatto finora. Se vuole conservarsi i mezzi di dirigere e moderare il movimento, cui non potrà opporsi alla lunga, è necessario che si preoccupi degli interessi diversi dai suoi ... ". Pur con le sue limitazioni, l'inchiesta di Sonnino viene fortemente contrastata dai grandi proprietari, e l'ammonimento di Villari viene ignorato. l'attuale struttura sociale nelle campagne deve rimanere un punto fermo. I problemi dell'agricoltura meridionale sono da ricercarsi altrove, e soprattutto nello scarso afflusso di capitali nel Sud.
Gli anni '80 sono scossi da una profonda crisi agraria, che si manifesta a livello europeo in corrispondenza della "grande depressione" del periodo 1873-96. In Italia, dal '77 all'87, l'indice dei prezzi agricoli cade da 122 a 98. Lo sviluppo del sistema ferroviario e della navigazione ha aperto il mercato nazionale alla concorrenza straniera. Il grano nostrano viene sostituito da quello prodotto in America a costi bassissimi. La crisi provoca una deviazione dei capitali prima investiti in agricoltura verso operazioni speculative e verso l'industria. Lo spostamento della centralità su quest'ultimo settore porta l'Italia ad allinearsi al modello di sviluppo delle altre potenze mondiali. Favorisce questo processo l'adozione di una politica altamente protezionistica. Naturalmente, la crescente industrializzazione si concentra nelle aree settentrionali che hanno seguito già da tempo una politica di sviluppo in senso capitalistico e che maggiori contatti hanno con i mercati esteri. Mentre l'adozione del dazio sul grano è volta a risollevare dalla crisi solo un certo settore del l'agricoltura: quello cerealicolo, molto diffuso al Nord e fonte primaria di reddito dei grandi proprietari meridionali; scontano gli effetti negativi del protezionismo le colture di esportazione, in particolare la viticoltura, estesa soprattutto nelle Puglie. Ma non meno gravi sono le condizioni dell'olivicoltura. Scriverà Francesco Barbagaglio in Mezzogiorno e Questione Meridionale (1860-1980): "La tariffa protezionistica si definiva ... come stimolo a I l'industrializzazione settentrionale e come estrema difesa dell'ordinamento prevalentemente latifondistico e della conduzione prevalentemente assenteista dell'agricoltura meridionale. Così lo sviluppo industriale del Nord si fondava sulla persistente arretratezza del Sud ... Il rafforzamento della proprietà terriera e la stasi del tradizionale assetto nelle campagne era dunque il corrispettivo nel Sud dell'accelerata espansione capitalistica nell'industria e nell'agricoltura settentrionale". E ancora, alle "forze del capitalismo agrario e industriale del Nord ... andava la direzione politica dello Stato e la guida economica dello sviluppo capitalistico; ... alle rappresentanze meridionali della proprietà terriera rimaneva la garanzia della sopravvivenza negli arretrati equilibri di una società... congelata nelle precise regole del dominio, sociale e politico". Questa sorta di alleanza tra Nord e Sud, attuata dai rispettivi detentori del potere, e che si fonda sull'interdipendenza tra i due differenti tipi di economia, allontana definitivamente la possibilità di uno sviluppo uniforme del paese e rende il dualismo in atto una condizione essenziale per la sopravvivenza delle forze in gioco.

(fine seconda parte)


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