§ QUATTRO SPERANZE PER L'UNITA' DELL'EUROPA

Insieme, per contrastare l'età del Pacifico




Gianni Agnelli



Negli anni Cinquanta, gli uomini politici più intelligenti e sensibili potevano pensare all'Europa unita come metodo per affrettare, e soprattutto completare, il processo di ricostruzione delle macerie fisiche e morali della guerra. L'industria, le imprese, dovevano pensare all'unità europea: guardare, cioè, a mercati più vasti di quelli nazionali, per realizzare economie di scala. Il rinnovamento e il potenziamento delle maggiori unità produttive furono, così, il motore di quel grande movimento di statisti illuminati, di uomini di cultura, e di opinioni pubbliche che fecero crescere la Comunità economica europea. L'Europa divenne uno dei cuori dello sviluppo mondiale.
Lo scenario è cambiato. Negli anni Settanta, mentre altri paesi affrontavano con decisione e compattezza le contraddizioni della crisi, l'Europa subiva la "terza rivoluzione industriale". L'onda dell'innovazione tecnologica veniva accolta tra troppe diffidenze e sospetti, divisioni e chiusure in un orgoglio più provinciale che aristocratico. Al di là dei dati drammatici sulla disoccupazione, sulle difficoltà della ripresa economica, sulla pressione di un condizionamento pubblico che altrove ha imparato ad essere, invece, ricerca e collaborazione per lo sviluppo, basterà rilevare come negli anni Ottanta "l'indice di competitività tecnologica" sia sceso allo 0,88 nei paesi europei, attestandosi negli Stati Uniti sull'1,20 e salendo in Giappone all'1,41. L'Europa si guarda nelle carte geografiche e si vede ancora al centro del mondo. In realtà, la geografia dello sviluppo è cambiata, si è centrata sul Pacifico e annuncia una "pacific Age" che, in certi osservatori del nostro continente, non si capisce se generi più allarme o più sufficienza annoiata.
Comunque, il commercio estero degli Stati Uniti con i paesi del Pacifico ha superato, per la prima volta nel 1983, quello con l'Europa. America e Giappone producono il 90% dell'elettronica mondiale, l'Europa non arriva al 10%.
Sono un industriale europeo per convinzione e per mestiere. Penso che le questioni dell'innovazione tecnologica debbano essere affrontate in modo strettamente unito a quelle dell'Europa. Non vi è possibilità di sviluppo senza un'Europa rinnovata. D'altronde, ritengo che l'Europa non avrà futuro, politico ed economico, se non pone al centro del suoi programmi l'innovazione.
L'industria europea ha ancora lo slancio che le ha consentito di espandersi per due secoli: ha una forte e consolidata capacità di esportazione; un alto livello culturale complessivo del capitale umano; un talento nel recepire, trasformare e migliorare l'innovazione da dovunque essa provenga. l'Europa potrebbe contare sull'alto risparmio delle famiglie, che supera quello statunitense: se ci fossero strutture effettivamente capaci di dirigerlo verso gli investimenti. Ma le potenzialità, la voglia di cambiare, urtano contro la rigidità degli apparati politico-istituzionali. Si ingrana la marcia indietro dei sussidi alle industrie in crisi, mentre diminuiscono, almeno in percentuale, gli incentivi alle industrie in espansione. Invertire questa tendenza è, ovviamente, urgente e ora, forse, si incominciano a intravvedere i sintomi di cambiamento. Mitterrand e Kohl, con l'iniziativa di abolire le frontiere tra Francia e Germania Federale, avevano rimesso in movimento una situazione stagnante e posto sulla bilancia il peso del foro avallo politico al progetto che era stato di Altiero Spinelli, che, al di là di alcune riserve, mirava a fare dell'Europa un corpo finalmente capace di crescere. Il nuovo trattato d'Unione Europea ha previsto un Parlamento con un potere legislativo reale, almeno in quelle questioni che non riguardano la politica estera e la difesa comune. Esso può permettere di superare le trattative fra governi, quando la lentezza e la miopia di burocrazie e diplomazie tendono a fermare i disegni più coraggiosi.
Per arrivare all'Europa che auspichiamo e di cui abbiamo bisogno, servono molte "Europe". Si tratta di porre le basi per cose durature; smettendo di esaurirsi nella ricerca di un minimo comun denominatore. Dovrebbero essere rapidamente realizzate, dunque, almeno quattro "Europe". La prima è quella della moneta. La vitalità imprenditoriale ha fatto sorgere un vigoroso mercato privato dell'Ecu, di fronte all'incapacità di governi e anche di banche centrali di arrivare a un accordo. Occorre un minimo di regolamentazione, perché questo mercato possa essere efficacemente utilizzato. l'armonizzazione delle politiche economiche nazionali, che deve fare da necessario supporto, rappresenterà il segno evidente dell'unità. Un'altra Europa da costruire è quella degli "standars": unificando le normative tecniche sparse e differenziate che ciascun governo impone sulle merci in entrata; che ricordano, grottescamente, antichi pedaggi medioevali. la terza Europa è quella dell'istruzione: con l'unificazione dei programmi e degli esami, il riconoscimento reciproco dei titoli di studio. Questo anche per fermare la diaspora di talenti costretti a cercare valorizzazione oltre Atlantico. Infine, una quarta Europa: quella delle procedure. Ancora una volta, ci sono da superare differenziazioni vecchie, sedimentate e assurde, che impongono per gli stessi atti amministrativi, nei diversi paesi, procedure diverse.


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