"Ora
mi gode l'animo far noto ai miei conterranei che il decadimento apistico
ha fatto ovunque il suo tempo, e che solo può continuare il suo
malaugurato soggiorno, in quei luoghi ove si disprezza ciò che
sa di novità e di progresso agrario; e si accetta solo quanto
viene tradizionalmente trasmesso dagli avi loro".
Da una conferenza di A. Castriota Scander-Begh (1876)
"Crederono
molti - scrive Francesco Redi nel 1668 - che questa bella parte dell'universo
che noi comunemente chiamiamo terra, tosto che dalla mano dell'eterno
maestro uscì stabilita, o in qualsiasi altro modo, col quale
follemente farneticassero che ciò potesse essere avvenuto,
crederono, dico, che ella in quello stesso momento cominciasse a vestirsi
da se medesima d'una certa verde lanugine somigliantissima a quella
vana peluria ed a quei primo pelame, di cui, subito che nati sono,
si veggon ricoperti gli uccelli ed i quadrupedi; e che poi a poco
a poco quella verde lanugine, dalla luce del sole e dall'alimento
materno fatta più vigorosa e robusta, si cangiasse e crescesse
in erbe ed in alberi fruttiferi, abili a somministrare il nutrimento
a tutti gli animali che la terra avrebbe poscia prodotti" (1).
La terra produsse, quindi, da sé, gli esseri viventi, anche
se all'inizio in maniera confusa, creando esseri mostruosi come la
chimera, la sfinge, le sirene; poi, però, avendo considerato
che quei mostri "non erano né buoni, né durevoli"
(2), diede vita alle specie perfette. La terra, "avendo per qualche
tempo durato ad essere di così meravigliose generazioni feconda,
in breve, quasi fatta vecchia e sfruttata, diventò sterile;
e non avendo più forza da poter generare gli uomini e gli altri
grandi animali perfetti, le rimase però tanto di vigore da
poter produrre... certi altri piccioli animaletti ancora; cioè
a dire le mosche, le vespe, le cicale, i ragni, le formiche, gli scorpioni
e gli altri tutti bacherozzoli terrestri ed aerei" (3).
Redi si dà da fare, notoriamente, per porre fine alle strane
credenze, accolte ai più alti livelli del mondo scientifico,
sulla generazione spontanea degli insetti; intanto, però, tralascia
di citare, nel breve elenco di insetti sopra riportato, l'ape, di
cui parlerò, comunque, più avanti, quasi ad evitare
di collocarla assieme agli altri bacherozzoli.
La generazione delle api presenta una nota questione mitologica, e
inoltre la loro organizzazione sociale, proprio a causa della conoscenza
imperfetta e distorta che se ne è avuta fino a un periodo relativamente
recente, e che tra le popolazioni rurali è ancor oggi diffusa,
è stata oggetto fin dal lontano passato di lodi che l'hanno
decantata come il modello ideale di vita. Di questo più oltre.
Conviene iniziare dal mito della generazione. Racconta Virgilio che
Aristeo, figlio di Apollo, perdette le sue api "morboque fameque"
(Georg. IV, 318); in questo modo veniva punito da Orfeo per essere
stato la causa della morte di Euridice.
Per ottenere il perdono doveva dedicare delle offerte funebri ai due
sfortunati sposi: uccidere quattro buoi e quattro giovenche, e abbandonare
i primi in un bosco, sacrificare dopo nove giorni una pecora e una
vitella e rivisitare il bosco. Aristeo così fece, e nel bosco
assistette ad uno straordinario prodigio: "in tutto il ventre
del buoi per i visceri putrefatti stridono le api e fervono dalle
costole rotte, e si estendono nubi immense e già confluiscono
al sommo di un albero e pendono come grappoli d'uva dai rami flessibili"
(IV, 555-558) (4). C'è da osservare che le api non nascono
dalla carne in putrefazione di un animale qualsiasi, ma dai buoi (Virgilio,
in verità, in un altro luogo parla di tori) che sono animali
tradizionalmente sacri non solo in Grecia, e che sono legati alla
luna e alla rinascita della vegetazione, se non altro perché
aprono il solco, e inoltre sono forti e utili all'uomo. Le api hanno,
però, nella Bibbia, un altro padre, il leone squarciato da
Sansone, nel cui teschio egli dopo qualche tempo trovò "uno
sciame e del miele, che prese in mano e mangiò per via"
(5). Si tratta, comunque, di un ascendente regale. Platone invece
affermava che le api sono la reincarnazione delle anime delle persone
sobrie.
Di questa mitologia che privilegia l'ape come animale legato alla
divinità, quanto alla sua origine, non c'è traccia diretto
nella cultura tradizionale del Salento, in cui il rispetto per questo
insetto ha altre giustificazioni, di cui parleremo. Un mucchio di
false credenze accomuna gli apicoltori salentini, a quanto riferisce
Alfonso Castriota Scander-Begh in una conferenza pubblicata nel 1876:
egli racconta di aver dovuto lottare duramente con essi "per
combattere gli errori, i pregiudizi e le superstizioni, per cui nutrono
pienissima fiducia. Finché mi toccava trattare con persone
di buon senso, le questioni avevano breve durata, con mia e loro piena
soddisfazione; ma siccome il buon senso è una prerogativa molto
rara ne' nostri contadini molte questioni andavano per le lunghe,
e sudava freddo vedendo di non poter riuscire in tutto vittorioso;
e come un apostolo in barbara tribù, doveva mostrarmi prudente
e contegnoso" (6). Tanto zelo missionario non gli impedisce,
però, di compatire e irridere i poveri ignoranti apicoltori
locali: "Gli errori e i pregiudizi che ho notato in tutti i luoghi
da me visitati sono molti, e vi ha di quelli che a sentirli fanno
veramente ridere" (7). Tra i più comici c'è la
credenza sulla generazione delle api, "inquantocché non
vi ha uno solo de' nostri pratici apicoltori che voglia ammettere
aver origine la covata dalla sola ovificazione dell'ape Regina; ma
invece sostengono che provenga da una certa composizione che le api
raccolgono in ripa ai stagni in acqua. In una parola, sarebbe il fango
della terra con cui fu creato il primo uomo, secondo le Sacre Carte;
sicché le api non farebbero, con la loro covata, che ripetere
l'opera divina del Creatore" (8).
Torneremo più oltre alle credenze denunciate dal Castriota,
perché conviene adesso considerare il secondo punto delle questioni
sopra proposte, cioè l'organizzazione sociale delle api, che
diviene modello ideale di vita per gli uomini. Il mito racconta che
Demetra, la Terra Madre, venne accolta ad Eleusi da Celeo, e donò
al figlio di lui, Trittolemo, una spiga di grano, istituendo l'agricoltura
e i misteri eleusini; il dono di Demetra vale come riconoscimento
dell'ospitalità di Celeo e dell'equilibrio familiare di cui
egli è garante nella sua città (9), e nello stesso tempo
ribadisce la necessità della morte, sia nell'agricoltura, sia
su un piano simbolico, affinché vi sia una rinascita culturale,
intesa nel senso più ampio, ricca e intensa.
Ora, le sacerdotesse di Eleusi si chiamavano api. L'ape, per il fatto
di scomparire durante i mesi invernali e di riapparire in primavera,
è simbolo di rinascita. Tra i cristiani era il simbolo di Cristo
che risuscitò dopo tre giorni (le api riappaiono dopo i tre
mesi invernali). Essa è insomma legata a Demetra e al ciclo
morte-rinascita. La api sono animali per antonomasia puri e divini;
ad esse si contrappongono, per esempio, le mosche che nascono dallo
sterco e vivono nella putrefazione. "Le api - scrive P. Scarpi
- non sopportano soltanto i cattivi odori, ma neppure i profumi e
per questo si scagliano contro quanti ne fanno uso come assalgono
chi puzza di vino. Non tollerano l'effeminatezza e neppure la sensualità
e provano ripugnanza per le raffinate fanciulle di città. Poiché
amano la purezza, si scagliano contro le prostitute, né sopportano
gli adulteri" (10).
Sono animali saggi per eccellenza; l'ape è come la buona moglie
e la buona madre: il codice delle api raccoglie l'insieme dei valori
tradizionali della famiglia, cioè la fedeltà reciproca
dei coniugi e l'obbedienza dei figli. L'organizzazione dell'alveare,
afferma Virgilio, prevede un lavoro per tutte le api; le più
anziane badano alla costruzione e alla difesa dei favi, le più
giovani raccolgono senza posa il polline dalle erbe e dai fiori, affinché
l'inverno non le sorprenda scarse di provviste. "Certamente -inoltre
- stupirà il costume delle api secondo cui non indulgono a
congiungersi, non fiaccano i loro corpi, rendendoli pigri, al servizio
di Venere, non partoriscono i figli tra le doglie, ma da sole raccolgono
i figli dalle foglie e dalle soavi erbe con la bocca" (Georg.
IV, 197-200).
Il custode del lavori è il re (la regina, in effetti) che esse
servono e difendono in battaglia. Ci sono inoltre tra loro i fuchi
ignavi, che esse uccidono per impedire che consumino il cibo. Se una
malattia uccide tutti gli sciami allevati, l'apicoltore ricorrerà
alla piccola ecatombe iniziata da Aristeo. Lo stesso Virgilio diffonde
l'opinione, accettata per tutto il Medioevo, che le api conservino
una scheggia d'intelligenza divina; da qui la loro saggia organizzazione,
l'industriosità e la diligenza, cui si aggiunge la castità;
i Proverbi biblici (6,8) invitano espressamente a imparare da loro.
Nella Bibbia uno dei giudici d'Israele è Debora, l'Ape: "Senza
forza e coraggio erano i capi d'Israele, finché non sorsi io,
Debora, finché non sorsi io, madre del popolo di Dio"
(11).
Le api sono variamente utili all'uomo, perché gli forniscono
un buon modello di organizzazione sociale, guidato dal re (da Dio,
dal pater familias) e difeso con fedeltà e coraggio, e di comportamento
etico-morale improntato alla generosità reciproca, alla laboriosità,
alla virtù; esse forniscono agli uomini il miele, variamente
utilizzato nel passato come bevanda rinvigorente, e la cera che (oltre
ai suoi usi profani) ne garantisce a posteriori la sacralità,
in quanto con essa si fanno le candele utilizzate nella messa e nei
riti funebri.
Durante il Medioevo era viva la leggenda che sulle labbra del neonato
Platone si fossero posate delle api, instillandogli la saggezza, così
come per Sant'Ambrogio. Alcune eresie si rifacevano direttamente alle
api. "Secondo il racconto del monaco Rodolfo il Glabro, - scrive
E. Werner -un contadino del villaggio di Vertus, chiamato Liutardo,
si sentì spinto dalle punture d'uno sciame d'api entratogli
in sogno nel corpo, a compiere azioni diaboliche: allontanò
da sé la moglie, distrusse il crocifisso e predicò agli
altri contadini del villaggio il rifiuto delle decime ecclesicistiche"
(12). Questo agli inizi del nuovo millennio. In effetti le api c'entrano
poco con la distruzione del crocifisso e il rifiuto di pagare le decime
ecclesiastiche; c'entrano invece con l'avversione al matrimonio, poiché
simboleggiano la castità.
La castità è uno degli elementi caratterizzanti anche
l'eresia del nobili di Monforte, fiorita nel 1028. Essi furono arrestati
e interrogati dall'arcivescovo Ariberto. "Gerardo, il capo religioso
della comunità, dichiarò ai giudici che per sé
ed i suoi confratelli la castità valeva sopra ogni altra cosa...
Vivevano nella comunione dei beni, osservavano rigidamente l'astinenza
dalle carni, digiunavano e pregavano giorno e notte. Affiorano qui
nuovamente il confronto con le api e l'idea della generazione asessuata"
(13). Sulla sponda dell'ortodossia, per Bernardo di Chiaravalle l'ape
diventa il simbolo dello Spirito Santo.
Nel mondo tradizionale salentino l'organizzazione sociale delle api
trova il rispetto che si merita. "Al nostro contadino - scrive
l. Ponzi - non sfuggì la vita laboriosa di questi insetti,
rispecchiando nella loro comunità la propria attività.
Dall'alba al tramonto, sempre pei campi per mettere insieme qualcosa
da consumare durante l'inverno. Amò l'ape, stimandola insetto
utile, tenace nel lavoro, fedele alla casa" (14). Sono considerazioni
espresse in modo enfatico, ma che colgono, in definitiva, gli elementi
fondamentali che fanno apprezzare ai contadini le api: la loro utilità,
la tenacia nel lavoro, la fedeltà al proprio signore e alla
propria famiglia. Si tratta di apprezzamenti che hanno il loro fondamento
sulla cattiva conoscenza che si ha dei costumi delle api, come avevo
accennato sopra. E qui conviene riprendere le pagine quasi scandalizzate
del citato discorso del Castriota: "Ufficio della Regina vogliono
certi che sia quello di sovraneggiare e di guidare le api nel solo
tempo degli sciami, e che poi scomparisca; altri, che più Regine
possono trovarsi in un alveare ed in qualunque tempo. Che la cera
per la costruzione de' favi sia quella che trasportano le api coi
zampini, e che poi dalla bocca la caccino elaborata, come dall'ano
il miele raccolto dai fiori. Il polline, se trovato in molta quantità
ne' favi, dicono che sia il mangiare del puddu (covata); se si rinviene
solo in qualche celletta, vogliono che sia pudducieco (covata abortita);
se finalmente si trovasse su favo malandato per causa di umidità,
sarebbe ancora malattia. Che secondo alcuni non si deve dare mai cibo
alle api per non sturbarle, specialmente in tempo di dormita, e per
non renderle pigre e oziose. Questa è bella davvero!!"
(15). E inoltre si crede che la solforazione delle viti e la coltivazione
del tabacco siano nocive alle api, così come la canapa e l'odore
delle cipolle. Sugli apiari si tenevano vari amuleti, corna, santini,
croci, madonne, contro il fascino.
Le api che entrano in casa sono apportatrici di buone notizie alla
persona intorno a cui ronzano; il miele è una sorta di manna
che scende dal cielo nelle notti serene. Il La Sorso riporta la seguente
leggenda sull'ape: "Era malata la mamma di tutti gli insetti.
Per essere assistita mandò per la formica; ma questa si scusò
col dire che era occupata a riempire di grano la sua tana. Mandò
per la cicala, e questa si scusò dicendo che aveva da cantare
ai mietitori. Mandò per l'ape e questa andò lì
per lì. La mamma di tutti gli insetti vicina a morte disse:
lo maledico la formica; suderà sangue a raccogliere grano,
ma andrà la troia a fare un boccone delle sue provviste. Maledico
la cicala, che dopo sfogatasi a cantare creperò. Benedico l'ape;
questa sarà utile all'uomo vivo col miele e all'uomo morto
con la cera" (16).
Avevo già accennato al legame esistente tra le api e la fertilità,
tra le api e la morte e la rinascita: l'uso del ceri durante le esequie
ne è un chiaro esempio, per quanto riguarda epoche più
recenti. Ma anche il miele conserva quei fondamentali valori simbolici:
esso è utilizzato già nelle civiltà antiche come
panacea, come bevanda rinvigorente, solitamente mischiata al vino.
Nel corso dei misteri eleusini il miele era dato agli iniziati. Il
miele era noto nel passato nel mondo contadino salentino anche per
le sue qualità medicinali: era d'aiuto contro la stitichezza,
per favorire l'espettorazione e la respirazione, veniva sorbito come
lassativo e digestivo. Il miele viene ancora utilizzato nella composizione
di dolci locali, e le cartiddhrate, i purciddhruzzi, che si consumano
precipuamente in occasione di festività invernali, soprattutto
quelle del ciclo natalizio, con qualche differenza di data a seconda
dei luoghi, in un periodo, cioè, di forte crisi dovuta al momento
di passaggio stagionale legata alle venture del sole che lentamente
riacquista forza e vitalità e riallunga il giorno. In Sardegna,
per fare del comparativismo spicciolo, questa connotazione simbolica
del miele trova una ulteriore conferma nel consolo così raccontato
dal La Sorsa: "In Sardegna è di prammatica il mangiare
pane spalmato di miele, e se ne lascia intatta una parte per il defunto
il quale, si crede, deve tornare alla propria casa" (17).
Il miele è rinascita, rigoglio; la terra promessa è
il luogo in cui scorre latte e miele; esso è ricchezza e fertilità,
è il dono delle api, del loro lavoro febbrile. L'allevamento
delle api ha avuto dei mentori illustri come Virgilio e Varrone, o
Aristotele, ed ha conservato nel tempo la sua struttura tradizionale
anche sul piano delle credenze; la decadenza dell'apicoltura è
stata determinata più che dall'efficacia effettiva dei sistemi
di allevamento, dalla crescita dell'agricoltura e dalla riduzione
delle terre lasciate non sfruttate. E' comunque interessante indagare
sulle modalità di allevamento delle api in Puglia e in particolare
nel Salento, dove, tra l'altro, i nomi di paesi come Melendugno e
Melissano la dicono lunga sull'antichità e sull'importanza
di questa attività, e in cui sono rimaste originalissime testimonianze
in pietra dell'apicoltura tradizionale.
In Puglia sono stati utilizzati, a seconda dei luoghi, fondamentalmente
due tipi di arnie, grosso modo fino a pochi decenni fa. la collocazione
fissa delle arnie stesse in primavera e le successive raccolte periodiche
dei favi - in che modo lo vedremo più avanti - erano gli elementi
caratterizzanti dell'apicoltura tradizionale. In seguito si sono diffusi
gli alveari con i telai che vengono estratti comodamente con i loro
favi e rimessi al loro posto al termine delle operazioni. Non era
previsto lo spostamento degli alveari in luoghi diversi a seconda
della stagione e della fioritura e dello sfruttamento dei prati. Il
primo tipo di arnia è di legno, e qui viene descritta da T.
Monticelli in un lavoro del 1800, stampato però quasi mezzo
secolo dopo. "L'arnia Pugliese è una cassa alta palmi
due e mezzo, e larga in quadro un palmo e un quarto. Ricoperta al
di sopra da un chiusino mobile, poggia su d'una tavola un poco più
ampia per base. Nell'interno dell'arnia, alla distanza di mezzo palmo
dal chiusino, veggonsi due stecconi di legno che la traversano, ed
un quarto di palmo più giù, due altri stecconi vi si
osservano che fanno croce coi primi... Guarnita di una piccola buca
verso la base è oscura, tranquilla, qual si desidera dalle
api, e con due tegole, riunite da un coppo, resta sufficientemente
difesa dalle piogge, dal freddo, dal calore solare" (18). I pugliesi,
all'inizio della primavera, radunano le loro arnie all'aperto e le
controllano perché non ci siano muffe, o la tignola. Questo
controllo viene ripetuto per due o tre volte al mese da aprile fino
a ottobre e se essi trovano dei guasti nei favi, determinati dalla
muffa o dall'attacco dei topi, o le canneddhre, larve che distruggono
le covate, tagliano le parti infette e spruzzano di vino le parti
interessate, o ricorrono a suffumigi di erbe, soprattutto di timo.
Si tratta di attenzioni che valgono, anche se si esclude la lotta
ai parassiti del legno, per l'apicoltura nell'altro tipo di arnie
utilizzate, particolarmente nella zona del Capo di Leuca, quelle di
pietra, i cosiddetti apiari. Nei campi nei pressi delle masserie e
delle case coloniche ve ne sono disseminati moltissimi ormai in disuso,
e L. Ponzi li ha osservati e studiati. L'apiario ha una struttura
rudimentale: "Questo consiste in un certo numero di arnie dette
ucche d'api, formate ciascuna da un concio di tufo cavo, dalla forma
di parallelepipedo rettangolo, della profondità di circa settantacinque
centimetri e con due aperture all'estremità, di centimetri
venticinque per trentaquattro, al limite esterno, queste ucche sono
poggiate orizzontalmente dal lato più esteso e per tutto la
sua lunghezza; le une affiancate alle altre, a volte sovrapposte in
diversi ordini, specie negli apiari di una certa importanza, formati
da più arnie. Le due aperture dell'arnia sono chiuse da lastre
della medesima pietra e mentre quella posteriore, cementata con malta,
fatta di calce e bolo, può essere rimossa ogni qualvolta occorra
operare nell'arnia, quella anteriore, che verso il basso presenta
due piccoli fori, distanti tra loro alcuni centimetri, dai quali le
pecchie possono uscire ed accedere a loro piacimento, è saldata
invece con una certa malta più resistente fissa" (19).
Gli apiari molto grandi sono chiusi da speciali recinti chiamati curtali.
Il lavoro dell'apicoltore segue delle scansioni precise, in modo che
la raccolta del miele e della cera sia abbondante e nello stesso tempo
vengano rispettati i ritmi di produzione delle api; per evitare guerre
intestine, gli apicoltori pugliesi fanno in modo che ci siano al massimo
due sciami in ogni arnia: "non permettono che ne sorga un altro
e prevengono questo caso con schiacciare nelle reali cune le regine,
di cui non fanno gran conto" (20). Inoltre distinguono i favi
dei pecchioni da quelli delle api operaie, sicché possono togliere
dalle arnie i primi e distruggerli dieci o dodici giorni dopo la comparsa
dei nuovi sciami, poiché i fuchi sono pigri e impedirebbero
l'alacrità del lavoro delle operaie; ancora, togliere i loro
favi consente di ricavare spazio per le nuove costruzioni delle api.
Il consiglio risale ad Aristotele: con queste operazioni si impedisce
il formarsi di sciami non desiderati, perché si ha anche cura
di uccidere le regine superflue (la cui funzione non si ritiene sia
riproduttiva, ma di guida e controllo dello sciame) e "sì
risveglia l'attività delle api, che vedendosi prive di abitazione
e di cera, raddoppiano l'energia, con cui sogliono provvedere a' loro
bisogni, ed in breve tempo si rifanno le cere, e spesso ancora nuove
fetazioni producono, di cui i pecchioni si distruggono, tagliando
con un coltello ben tagliente i coverchi de' loro favi in modo che
ne vengan portate via le teste di quelli" (21). Le api quindi
porteranno fuori i corpi dei fuchi e a quel punto si può raccogliere
il miele.
La raccolta del miele si fa circa tre volte l'anno, e la stessa qualità
di esso dipende dal periodo della raccolta: "miele bianco, quello
raccolto da marzo a maggio,... di cattiva qualità; miele di
stagione, quello raccolto da maggio a settembre, che è della
migliore qualità; miele rosso, quello che si raccoglie da settembre
a ottobre, che è di qualità media" (22). L'ultima
raccolta deve essere moderata perché le api non hanno il tempo
sufficiente di accumulare le provviste necessarie per l'inverno.
Le attività tradizionali di allevamento delle api non erano
evidentemente prive di efficacia se per dei millenni l'apicoltura
ha costituito uno dei lavori fondamentali dei contadini; e il mondo
delle api, così ricco di suggestioni, di valori simbolici,
è stato per altrettanto tempo modello e punto di riferimento
e di confronto dei valori sociali riconosciuti dalle comunità
rurali. La crisi dell'apicoltura, l'abbandono delle arnie verificatosi
negli ultimi due secoli a vantaggio della coltivazione della terra,
può avere, forse, tra le sue motivazioni, la crisi di quel
rapporto simbolico tra la comunità degli uomini e quella delle
api. E' comunque vero che un tale rapporto è esistito, proprio
grazie alle false conoscenze che si avevano su quegli insetti, oltre
che sugli insetti in genere; questo fatto dimostra una volta di più
che è impossibile catalogare i momenti della vita tradizionale,
a seconda dei vari atti che essi comportano, in termini schematici
e separati di economia, di religione, di moralità e quant'altro,
perché una comprensione di essi non è adeguata se non
li si considera in una visione globale.
La scomparsa del mondo delle api coincide con la scomparsa della loro
virtù, esattamente nei termini inversi della Favola di Mandeville,
uno del tanti miti che la scienza ha abbattuto. Forse sopravvive ancora
in alcuni luoghi della civiltà contadina, ma tutto sommato
non può più vantare i vecchi valori se non in misura
molto attenuata.
NOTE
1) F. REDI, Esperienze intorno alla generazione degl'insetti, in Id.,
Scritti di botanica, zoologia e medicina, a cura di P. Polito, Longanesi,
Milano, 1975, p. 97.
2) Ibidem, p. 99.
3) Ib., pp. 99-100.
4) Sulla bugonia cfr. M. BETTINI, L'ape e la farfalla, "Quaderni
storici", n. 3, dicembre 1982. Secondo l'A., l'ape, animale che
ha come caratteristiche fondamentali la purezza e la laboriosità,
è simbolo, negli autori latini, della rinascita tout court.
Per un più immediato riferimento bibliografico sulle questioni
di simbologia qui toccate cfr., tra gli altri, J. Chevalier, A. Gheerbrant,
Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1986.
5) Giudici, 14, 8-9.
6) A. CASTRIOTA SCANDER-BEGH, La superiorità del metodo razionale
d'apicoltura in confronto del vecchio sistema esposta ai possidenti
di Terra d'Otranto, Milano, 1876, p. 3.
7) Ib., p. 4.
8) Ib., pp. 5-6.
9) P. SCARPI, Il picchio e il codice delle api. Itinerari mitici e
orizzonte storico-culturale della famiglia nell'antica Grecia. Tra
i Misteri di Eleusi e la città di Atene, Ed. Bloom, Padova,1984.
10) Ib., p. 72.
11) Giudici, 5,7.
12) E. WERNER, Alla ricerca del Dio nascosto: eretici e riformatori
radicali nel secolo XI, "Quaderni storici", n. 1, aprile
1987, p. 61.
13) Ib., p. 66.
14) L. PONZI, Monumenti della civiltà contadina nel Capo di
Leuca, Congedo, Galatina, 1981, p. 77.
15) A. CASTRIOTA, cit., p. 6.
16) S. LA SORSA, Folklore zoologico, "Rivista Folklore",
fasc. I-IV, 1959, p. 17.
17) S. LA SORSA, Pregiudizi riguardanti la vita familiare, "Rassegna
e Bollettino di Statistica del Comune di Taranto", n. 7-8, luglio-agosto
1959, p. 53. M. Bettini, cit., scrive che melissa era il nome che
gli antichi davano alle anime giuste che si avviavano alla nascita.
18) T. MONTICELLI, Del trattamento delle api in Favignana isoletta
all'ovest della Sicilia, Tip. Silvestri, Milano, 1845, pp. 178-179.
Il libro è completato da un'appendice da cui sono tratte queste
citazioni, in cui si discute l'opera di Padre Tannoja, Trattato delle
Api, 1801.
19 ) L. PONZI, cit., pp. 77-78.
20) T. MONTICELLI, cit., p. 196.
21) lb., p, 198.
22) L. PONZI, cit., p. 79.