§ VITA E CULTURA TRADIZIONALE DEL SALENTO

Il mondo delle api




Eugenio Imbriani



"Ora mi gode l'animo far noto ai miei conterranei che il decadimento apistico ha fatto ovunque il suo tempo, e che solo può continuare il suo malaugurato soggiorno, in quei luoghi ove si disprezza ciò che sa di novità e di progresso agrario; e si accetta solo quanto viene tradizionalmente trasmesso dagli avi loro".
Da una conferenza di A. Castriota Scander-Begh (1876)

"Crederono molti - scrive Francesco Redi nel 1668 - che questa bella parte dell'universo che noi comunemente chiamiamo terra, tosto che dalla mano dell'eterno maestro uscì stabilita, o in qualsiasi altro modo, col quale follemente farneticassero che ciò potesse essere avvenuto, crederono, dico, che ella in quello stesso momento cominciasse a vestirsi da se medesima d'una certa verde lanugine somigliantissima a quella vana peluria ed a quei primo pelame, di cui, subito che nati sono, si veggon ricoperti gli uccelli ed i quadrupedi; e che poi a poco a poco quella verde lanugine, dalla luce del sole e dall'alimento materno fatta più vigorosa e robusta, si cangiasse e crescesse in erbe ed in alberi fruttiferi, abili a somministrare il nutrimento a tutti gli animali che la terra avrebbe poscia prodotti" (1). La terra produsse, quindi, da sé, gli esseri viventi, anche se all'inizio in maniera confusa, creando esseri mostruosi come la chimera, la sfinge, le sirene; poi, però, avendo considerato che quei mostri "non erano né buoni, né durevoli" (2), diede vita alle specie perfette. La terra, "avendo per qualche tempo durato ad essere di così meravigliose generazioni feconda, in breve, quasi fatta vecchia e sfruttata, diventò sterile; e non avendo più forza da poter generare gli uomini e gli altri grandi animali perfetti, le rimase però tanto di vigore da poter produrre... certi altri piccioli animaletti ancora; cioè a dire le mosche, le vespe, le cicale, i ragni, le formiche, gli scorpioni e gli altri tutti bacherozzoli terrestri ed aerei" (3).
Redi si dà da fare, notoriamente, per porre fine alle strane credenze, accolte ai più alti livelli del mondo scientifico, sulla generazione spontanea degli insetti; intanto, però, tralascia di citare, nel breve elenco di insetti sopra riportato, l'ape, di cui parlerò, comunque, più avanti, quasi ad evitare di collocarla assieme agli altri bacherozzoli.
La generazione delle api presenta una nota questione mitologica, e inoltre la loro organizzazione sociale, proprio a causa della conoscenza imperfetta e distorta che se ne è avuta fino a un periodo relativamente recente, e che tra le popolazioni rurali è ancor oggi diffusa, è stata oggetto fin dal lontano passato di lodi che l'hanno decantata come il modello ideale di vita. Di questo più oltre. Conviene iniziare dal mito della generazione. Racconta Virgilio che Aristeo, figlio di Apollo, perdette le sue api "morboque fameque" (Georg. IV, 318); in questo modo veniva punito da Orfeo per essere stato la causa della morte di Euridice.
Per ottenere il perdono doveva dedicare delle offerte funebri ai due sfortunati sposi: uccidere quattro buoi e quattro giovenche, e abbandonare i primi in un bosco, sacrificare dopo nove giorni una pecora e una vitella e rivisitare il bosco. Aristeo così fece, e nel bosco assistette ad uno straordinario prodigio: "in tutto il ventre del buoi per i visceri putrefatti stridono le api e fervono dalle costole rotte, e si estendono nubi immense e già confluiscono al sommo di un albero e pendono come grappoli d'uva dai rami flessibili" (IV, 555-558) (4). C'è da osservare che le api non nascono dalla carne in putrefazione di un animale qualsiasi, ma dai buoi (Virgilio, in verità, in un altro luogo parla di tori) che sono animali tradizionalmente sacri non solo in Grecia, e che sono legati alla luna e alla rinascita della vegetazione, se non altro perché aprono il solco, e inoltre sono forti e utili all'uomo. Le api hanno, però, nella Bibbia, un altro padre, il leone squarciato da Sansone, nel cui teschio egli dopo qualche tempo trovò "uno sciame e del miele, che prese in mano e mangiò per via" (5). Si tratta, comunque, di un ascendente regale. Platone invece affermava che le api sono la reincarnazione delle anime delle persone sobrie.
Di questa mitologia che privilegia l'ape come animale legato alla divinità, quanto alla sua origine, non c'è traccia diretto nella cultura tradizionale del Salento, in cui il rispetto per questo insetto ha altre giustificazioni, di cui parleremo. Un mucchio di false credenze accomuna gli apicoltori salentini, a quanto riferisce Alfonso Castriota Scander-Begh in una conferenza pubblicata nel 1876: egli racconta di aver dovuto lottare duramente con essi "per combattere gli errori, i pregiudizi e le superstizioni, per cui nutrono pienissima fiducia. Finché mi toccava trattare con persone di buon senso, le questioni avevano breve durata, con mia e loro piena soddisfazione; ma siccome il buon senso è una prerogativa molto rara ne' nostri contadini molte questioni andavano per le lunghe, e sudava freddo vedendo di non poter riuscire in tutto vittorioso; e come un apostolo in barbara tribù, doveva mostrarmi prudente e contegnoso" (6). Tanto zelo missionario non gli impedisce, però, di compatire e irridere i poveri ignoranti apicoltori locali: "Gli errori e i pregiudizi che ho notato in tutti i luoghi da me visitati sono molti, e vi ha di quelli che a sentirli fanno veramente ridere" (7). Tra i più comici c'è la credenza sulla generazione delle api, "inquantocché non vi ha uno solo de' nostri pratici apicoltori che voglia ammettere aver origine la covata dalla sola ovificazione dell'ape Regina; ma invece sostengono che provenga da una certa composizione che le api raccolgono in ripa ai stagni in acqua. In una parola, sarebbe il fango della terra con cui fu creato il primo uomo, secondo le Sacre Carte; sicché le api non farebbero, con la loro covata, che ripetere l'opera divina del Creatore" (8).
Torneremo più oltre alle credenze denunciate dal Castriota, perché conviene adesso considerare il secondo punto delle questioni sopra proposte, cioè l'organizzazione sociale delle api, che diviene modello ideale di vita per gli uomini. Il mito racconta che Demetra, la Terra Madre, venne accolta ad Eleusi da Celeo, e donò al figlio di lui, Trittolemo, una spiga di grano, istituendo l'agricoltura e i misteri eleusini; il dono di Demetra vale come riconoscimento dell'ospitalità di Celeo e dell'equilibrio familiare di cui egli è garante nella sua città (9), e nello stesso tempo ribadisce la necessità della morte, sia nell'agricoltura, sia su un piano simbolico, affinché vi sia una rinascita culturale, intesa nel senso più ampio, ricca e intensa.
Ora, le sacerdotesse di Eleusi si chiamavano api. L'ape, per il fatto di scomparire durante i mesi invernali e di riapparire in primavera, è simbolo di rinascita. Tra i cristiani era il simbolo di Cristo che risuscitò dopo tre giorni (le api riappaiono dopo i tre mesi invernali). Essa è insomma legata a Demetra e al ciclo morte-rinascita. La api sono animali per antonomasia puri e divini; ad esse si contrappongono, per esempio, le mosche che nascono dallo sterco e vivono nella putrefazione. "Le api - scrive P. Scarpi - non sopportano soltanto i cattivi odori, ma neppure i profumi e per questo si scagliano contro quanti ne fanno uso come assalgono chi puzza di vino. Non tollerano l'effeminatezza e neppure la sensualità e provano ripugnanza per le raffinate fanciulle di città. Poiché amano la purezza, si scagliano contro le prostitute, né sopportano gli adulteri" (10).
Sono animali saggi per eccellenza; l'ape è come la buona moglie e la buona madre: il codice delle api raccoglie l'insieme dei valori tradizionali della famiglia, cioè la fedeltà reciproca dei coniugi e l'obbedienza dei figli. L'organizzazione dell'alveare, afferma Virgilio, prevede un lavoro per tutte le api; le più anziane badano alla costruzione e alla difesa dei favi, le più giovani raccolgono senza posa il polline dalle erbe e dai fiori, affinché l'inverno non le sorprenda scarse di provviste. "Certamente -inoltre - stupirà il costume delle api secondo cui non indulgono a congiungersi, non fiaccano i loro corpi, rendendoli pigri, al servizio di Venere, non partoriscono i figli tra le doglie, ma da sole raccolgono i figli dalle foglie e dalle soavi erbe con la bocca" (Georg. IV, 197-200).
Il custode del lavori è il re (la regina, in effetti) che esse servono e difendono in battaglia. Ci sono inoltre tra loro i fuchi ignavi, che esse uccidono per impedire che consumino il cibo. Se una malattia uccide tutti gli sciami allevati, l'apicoltore ricorrerà alla piccola ecatombe iniziata da Aristeo. Lo stesso Virgilio diffonde l'opinione, accettata per tutto il Medioevo, che le api conservino una scheggia d'intelligenza divina; da qui la loro saggia organizzazione, l'industriosità e la diligenza, cui si aggiunge la castità; i Proverbi biblici (6,8) invitano espressamente a imparare da loro. Nella Bibbia uno dei giudici d'Israele è Debora, l'Ape: "Senza forza e coraggio erano i capi d'Israele, finché non sorsi io, Debora, finché non sorsi io, madre del popolo di Dio" (11).
Le api sono variamente utili all'uomo, perché gli forniscono un buon modello di organizzazione sociale, guidato dal re (da Dio, dal pater familias) e difeso con fedeltà e coraggio, e di comportamento etico-morale improntato alla generosità reciproca, alla laboriosità, alla virtù; esse forniscono agli uomini il miele, variamente utilizzato nel passato come bevanda rinvigorente, e la cera che (oltre ai suoi usi profani) ne garantisce a posteriori la sacralità, in quanto con essa si fanno le candele utilizzate nella messa e nei riti funebri.
Durante il Medioevo era viva la leggenda che sulle labbra del neonato Platone si fossero posate delle api, instillandogli la saggezza, così come per Sant'Ambrogio. Alcune eresie si rifacevano direttamente alle api. "Secondo il racconto del monaco Rodolfo il Glabro, - scrive E. Werner -un contadino del villaggio di Vertus, chiamato Liutardo, si sentì spinto dalle punture d'uno sciame d'api entratogli in sogno nel corpo, a compiere azioni diaboliche: allontanò da sé la moglie, distrusse il crocifisso e predicò agli altri contadini del villaggio il rifiuto delle decime ecclesicistiche" (12). Questo agli inizi del nuovo millennio. In effetti le api c'entrano poco con la distruzione del crocifisso e il rifiuto di pagare le decime ecclesiastiche; c'entrano invece con l'avversione al matrimonio, poiché simboleggiano la castità.
La castità è uno degli elementi caratterizzanti anche l'eresia del nobili di Monforte, fiorita nel 1028. Essi furono arrestati e interrogati dall'arcivescovo Ariberto. "Gerardo, il capo religioso della comunità, dichiarò ai giudici che per sé ed i suoi confratelli la castità valeva sopra ogni altra cosa... Vivevano nella comunione dei beni, osservavano rigidamente l'astinenza dalle carni, digiunavano e pregavano giorno e notte. Affiorano qui nuovamente il confronto con le api e l'idea della generazione asessuata" (13). Sulla sponda dell'ortodossia, per Bernardo di Chiaravalle l'ape diventa il simbolo dello Spirito Santo.
Nel mondo tradizionale salentino l'organizzazione sociale delle api trova il rispetto che si merita. "Al nostro contadino - scrive l. Ponzi - non sfuggì la vita laboriosa di questi insetti, rispecchiando nella loro comunità la propria attività. Dall'alba al tramonto, sempre pei campi per mettere insieme qualcosa da consumare durante l'inverno. Amò l'ape, stimandola insetto utile, tenace nel lavoro, fedele alla casa" (14). Sono considerazioni espresse in modo enfatico, ma che colgono, in definitiva, gli elementi fondamentali che fanno apprezzare ai contadini le api: la loro utilità, la tenacia nel lavoro, la fedeltà al proprio signore e alla propria famiglia. Si tratta di apprezzamenti che hanno il loro fondamento sulla cattiva conoscenza che si ha dei costumi delle api, come avevo accennato sopra. E qui conviene riprendere le pagine quasi scandalizzate del citato discorso del Castriota: "Ufficio della Regina vogliono certi che sia quello di sovraneggiare e di guidare le api nel solo tempo degli sciami, e che poi scomparisca; altri, che più Regine possono trovarsi in un alveare ed in qualunque tempo. Che la cera per la costruzione de' favi sia quella che trasportano le api coi zampini, e che poi dalla bocca la caccino elaborata, come dall'ano il miele raccolto dai fiori. Il polline, se trovato in molta quantità ne' favi, dicono che sia il mangiare del puddu (covata); se si rinviene solo in qualche celletta, vogliono che sia pudducieco (covata abortita); se finalmente si trovasse su favo malandato per causa di umidità, sarebbe ancora malattia. Che secondo alcuni non si deve dare mai cibo alle api per non sturbarle, specialmente in tempo di dormita, e per non renderle pigre e oziose. Questa è bella davvero!!" (15). E inoltre si crede che la solforazione delle viti e la coltivazione del tabacco siano nocive alle api, così come la canapa e l'odore delle cipolle. Sugli apiari si tenevano vari amuleti, corna, santini, croci, madonne, contro il fascino.
Le api che entrano in casa sono apportatrici di buone notizie alla persona intorno a cui ronzano; il miele è una sorta di manna che scende dal cielo nelle notti serene. Il La Sorso riporta la seguente leggenda sull'ape: "Era malata la mamma di tutti gli insetti. Per essere assistita mandò per la formica; ma questa si scusò col dire che era occupata a riempire di grano la sua tana. Mandò per la cicala, e questa si scusò dicendo che aveva da cantare ai mietitori. Mandò per l'ape e questa andò lì per lì. La mamma di tutti gli insetti vicina a morte disse: lo maledico la formica; suderà sangue a raccogliere grano, ma andrà la troia a fare un boccone delle sue provviste. Maledico la cicala, che dopo sfogatasi a cantare creperò. Benedico l'ape; questa sarà utile all'uomo vivo col miele e all'uomo morto con la cera" (16).
Avevo già accennato al legame esistente tra le api e la fertilità, tra le api e la morte e la rinascita: l'uso del ceri durante le esequie ne è un chiaro esempio, per quanto riguarda epoche più recenti. Ma anche il miele conserva quei fondamentali valori simbolici: esso è utilizzato già nelle civiltà antiche come panacea, come bevanda rinvigorente, solitamente mischiata al vino. Nel corso dei misteri eleusini il miele era dato agli iniziati. Il miele era noto nel passato nel mondo contadino salentino anche per le sue qualità medicinali: era d'aiuto contro la stitichezza, per favorire l'espettorazione e la respirazione, veniva sorbito come lassativo e digestivo. Il miele viene ancora utilizzato nella composizione di dolci locali, e le cartiddhrate, i purciddhruzzi, che si consumano precipuamente in occasione di festività invernali, soprattutto quelle del ciclo natalizio, con qualche differenza di data a seconda dei luoghi, in un periodo, cioè, di forte crisi dovuta al momento di passaggio stagionale legata alle venture del sole che lentamente riacquista forza e vitalità e riallunga il giorno. In Sardegna, per fare del comparativismo spicciolo, questa connotazione simbolica del miele trova una ulteriore conferma nel consolo così raccontato dal La Sorsa: "In Sardegna è di prammatica il mangiare pane spalmato di miele, e se ne lascia intatta una parte per il defunto il quale, si crede, deve tornare alla propria casa" (17).
Il miele è rinascita, rigoglio; la terra promessa è il luogo in cui scorre latte e miele; esso è ricchezza e fertilità, è il dono delle api, del loro lavoro febbrile. L'allevamento delle api ha avuto dei mentori illustri come Virgilio e Varrone, o Aristotele, ed ha conservato nel tempo la sua struttura tradizionale anche sul piano delle credenze; la decadenza dell'apicoltura è stata determinata più che dall'efficacia effettiva dei sistemi di allevamento, dalla crescita dell'agricoltura e dalla riduzione delle terre lasciate non sfruttate. E' comunque interessante indagare sulle modalità di allevamento delle api in Puglia e in particolare nel Salento, dove, tra l'altro, i nomi di paesi come Melendugno e Melissano la dicono lunga sull'antichità e sull'importanza di questa attività, e in cui sono rimaste originalissime testimonianze in pietra dell'apicoltura tradizionale.
In Puglia sono stati utilizzati, a seconda dei luoghi, fondamentalmente due tipi di arnie, grosso modo fino a pochi decenni fa. la collocazione fissa delle arnie stesse in primavera e le successive raccolte periodiche dei favi - in che modo lo vedremo più avanti - erano gli elementi caratterizzanti dell'apicoltura tradizionale. In seguito si sono diffusi gli alveari con i telai che vengono estratti comodamente con i loro favi e rimessi al loro posto al termine delle operazioni. Non era previsto lo spostamento degli alveari in luoghi diversi a seconda della stagione e della fioritura e dello sfruttamento dei prati. Il primo tipo di arnia è di legno, e qui viene descritta da T. Monticelli in un lavoro del 1800, stampato però quasi mezzo secolo dopo. "L'arnia Pugliese è una cassa alta palmi due e mezzo, e larga in quadro un palmo e un quarto. Ricoperta al di sopra da un chiusino mobile, poggia su d'una tavola un poco più ampia per base. Nell'interno dell'arnia, alla distanza di mezzo palmo dal chiusino, veggonsi due stecconi di legno che la traversano, ed un quarto di palmo più giù, due altri stecconi vi si osservano che fanno croce coi primi... Guarnita di una piccola buca verso la base è oscura, tranquilla, qual si desidera dalle api, e con due tegole, riunite da un coppo, resta sufficientemente difesa dalle piogge, dal freddo, dal calore solare" (18). I pugliesi, all'inizio della primavera, radunano le loro arnie all'aperto e le controllano perché non ci siano muffe, o la tignola. Questo controllo viene ripetuto per due o tre volte al mese da aprile fino a ottobre e se essi trovano dei guasti nei favi, determinati dalla muffa o dall'attacco dei topi, o le canneddhre, larve che distruggono le covate, tagliano le parti infette e spruzzano di vino le parti interessate, o ricorrono a suffumigi di erbe, soprattutto di timo.
Si tratta di attenzioni che valgono, anche se si esclude la lotta ai parassiti del legno, per l'apicoltura nell'altro tipo di arnie utilizzate, particolarmente nella zona del Capo di Leuca, quelle di pietra, i cosiddetti apiari. Nei campi nei pressi delle masserie e delle case coloniche ve ne sono disseminati moltissimi ormai in disuso, e L. Ponzi li ha osservati e studiati. L'apiario ha una struttura rudimentale: "Questo consiste in un certo numero di arnie dette ucche d'api, formate ciascuna da un concio di tufo cavo, dalla forma di parallelepipedo rettangolo, della profondità di circa settantacinque centimetri e con due aperture all'estremità, di centimetri venticinque per trentaquattro, al limite esterno, queste ucche sono poggiate orizzontalmente dal lato più esteso e per tutto la sua lunghezza; le une affiancate alle altre, a volte sovrapposte in diversi ordini, specie negli apiari di una certa importanza, formati da più arnie. Le due aperture dell'arnia sono chiuse da lastre della medesima pietra e mentre quella posteriore, cementata con malta, fatta di calce e bolo, può essere rimossa ogni qualvolta occorra operare nell'arnia, quella anteriore, che verso il basso presenta due piccoli fori, distanti tra loro alcuni centimetri, dai quali le pecchie possono uscire ed accedere a loro piacimento, è saldata invece con una certa malta più resistente fissa" (19). Gli apiari molto grandi sono chiusi da speciali recinti chiamati curtali.
Il lavoro dell'apicoltore segue delle scansioni precise, in modo che la raccolta del miele e della cera sia abbondante e nello stesso tempo vengano rispettati i ritmi di produzione delle api; per evitare guerre intestine, gli apicoltori pugliesi fanno in modo che ci siano al massimo due sciami in ogni arnia: "non permettono che ne sorga un altro e prevengono questo caso con schiacciare nelle reali cune le regine, di cui non fanno gran conto" (20). Inoltre distinguono i favi dei pecchioni da quelli delle api operaie, sicché possono togliere dalle arnie i primi e distruggerli dieci o dodici giorni dopo la comparsa dei nuovi sciami, poiché i fuchi sono pigri e impedirebbero l'alacrità del lavoro delle operaie; ancora, togliere i loro favi consente di ricavare spazio per le nuove costruzioni delle api. Il consiglio risale ad Aristotele: con queste operazioni si impedisce il formarsi di sciami non desiderati, perché si ha anche cura di uccidere le regine superflue (la cui funzione non si ritiene sia riproduttiva, ma di guida e controllo dello sciame) e "sì risveglia l'attività delle api, che vedendosi prive di abitazione e di cera, raddoppiano l'energia, con cui sogliono provvedere a' loro bisogni, ed in breve tempo si rifanno le cere, e spesso ancora nuove fetazioni producono, di cui i pecchioni si distruggono, tagliando con un coltello ben tagliente i coverchi de' loro favi in modo che ne vengan portate via le teste di quelli" (21). Le api quindi porteranno fuori i corpi dei fuchi e a quel punto si può raccogliere il miele.
La raccolta del miele si fa circa tre volte l'anno, e la stessa qualità di esso dipende dal periodo della raccolta: "miele bianco, quello raccolto da marzo a maggio,... di cattiva qualità; miele di stagione, quello raccolto da maggio a settembre, che è della migliore qualità; miele rosso, quello che si raccoglie da settembre a ottobre, che è di qualità media" (22). L'ultima raccolta deve essere moderata perché le api non hanno il tempo sufficiente di accumulare le provviste necessarie per l'inverno.
Le attività tradizionali di allevamento delle api non erano evidentemente prive di efficacia se per dei millenni l'apicoltura ha costituito uno dei lavori fondamentali dei contadini; e il mondo delle api, così ricco di suggestioni, di valori simbolici, è stato per altrettanto tempo modello e punto di riferimento e di confronto dei valori sociali riconosciuti dalle comunità rurali. La crisi dell'apicoltura, l'abbandono delle arnie verificatosi negli ultimi due secoli a vantaggio della coltivazione della terra, può avere, forse, tra le sue motivazioni, la crisi di quel rapporto simbolico tra la comunità degli uomini e quella delle api. E' comunque vero che un tale rapporto è esistito, proprio grazie alle false conoscenze che si avevano su quegli insetti, oltre che sugli insetti in genere; questo fatto dimostra una volta di più che è impossibile catalogare i momenti della vita tradizionale, a seconda dei vari atti che essi comportano, in termini schematici e separati di economia, di religione, di moralità e quant'altro, perché una comprensione di essi non è adeguata se non li si considera in una visione globale.
La scomparsa del mondo delle api coincide con la scomparsa della loro virtù, esattamente nei termini inversi della Favola di Mandeville, uno del tanti miti che la scienza ha abbattuto. Forse sopravvive ancora in alcuni luoghi della civiltà contadina, ma tutto sommato non può più vantare i vecchi valori se non in misura molto attenuata.


NOTE
1) F. REDI, Esperienze intorno alla generazione degl'insetti, in Id., Scritti di botanica, zoologia e medicina, a cura di P. Polito, Longanesi, Milano, 1975, p. 97.
2) Ibidem, p. 99.
3) Ib., pp. 99-100.
4) Sulla bugonia cfr. M. BETTINI, L'ape e la farfalla, "Quaderni storici", n. 3, dicembre 1982. Secondo l'A., l'ape, animale che ha come caratteristiche fondamentali la purezza e la laboriosità, è simbolo, negli autori latini, della rinascita tout court. Per un più immediato riferimento bibliografico sulle questioni di simbologia qui toccate cfr., tra gli altri, J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1986.
5) Giudici, 14, 8-9.
6) A. CASTRIOTA SCANDER-BEGH, La superiorità del metodo razionale d'apicoltura in confronto del vecchio sistema esposta ai possidenti di Terra d'Otranto, Milano, 1876, p. 3.
7) Ib., p. 4.
8) Ib., pp. 5-6.
9) P. SCARPI, Il picchio e il codice delle api. Itinerari mitici e orizzonte storico-culturale della famiglia nell'antica Grecia. Tra i Misteri di Eleusi e la città di Atene, Ed. Bloom, Padova,1984.
10) Ib., p. 72.
11) Giudici, 5,7.
12) E. WERNER, Alla ricerca del Dio nascosto: eretici e riformatori radicali nel secolo XI, "Quaderni storici", n. 1, aprile 1987, p. 61.
13) Ib., p. 66.
14) L. PONZI, Monumenti della civiltà contadina nel Capo di Leuca, Congedo, Galatina, 1981, p. 77.
15) A. CASTRIOTA, cit., p. 6.
16) S. LA SORSA, Folklore zoologico, "Rivista Folklore", fasc. I-IV, 1959, p. 17.
17) S. LA SORSA, Pregiudizi riguardanti la vita familiare, "Rassegna e Bollettino di Statistica del Comune di Taranto", n. 7-8, luglio-agosto 1959, p. 53. M. Bettini, cit., scrive che melissa era il nome che gli antichi davano alle anime giuste che si avviavano alla nascita.
18) T. MONTICELLI, Del trattamento delle api in Favignana isoletta all'ovest della Sicilia, Tip. Silvestri, Milano, 1845, pp. 178-179. Il libro è completato da un'appendice da cui sono tratte queste citazioni, in cui si discute l'opera di Padre Tannoja, Trattato delle Api, 1801.
19 ) L. PONZI, cit., pp. 77-78.
20) T. MONTICELLI, cit., p. 196.
21) lb., p, 198.
22) L. PONZI, cit., p. 79.


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