§ NARRATORI PUGLIESI

Luciano De Rosa




Francesco Lala



In un paese della Calabria un antico palazzotto emana il fascino silenzioso delle vecchie cose rimaste come erano: la biblioteca con i libri ottocenteschi, i mobili e le stanze che evocano altro tempo. In questa casa ogni estate, per qualche giorno, torna il nipote del notaio che una volta l'abitò, e ne riceve insufflazioni memoriali di prima infanzia. Per tutto il resto dell'esistenza è vissuto e vive altrove, quasi sempre in Puglia, prima pochi anni a Foggia, poi definitivamente a Lecce dall'età di tredici anni, studente di terza classe ginnasiale inferiore (l'attuale terza media). è Luciano De Rosa (Rossano Cal., 1921), ormai da tempo, giustamente, entrato nel novero degli scrittori pugliesi inseriti nei testiquadro dell'attività letteraria, appunto, di tale sfera regionale, come Lirici pugliesi del Novecento di Ulivi e Accrocca (Adriatica, Bari, 1967) e Prosatori e narratori pugliesi del Novecento degli stessi curatori (Adriat., Bari, 1969). De Rosa ha scritto di avere due cuori: quello di una provincia di "memorie colte e remotissime", "patria di Ennio e di Pacuvio", il Salento, terra sua "di adozione e d'elezione", e quello "della Calabria jonica che segue subito a Taranto e Metaponto", "terra di dolci alture dorate" (1).
Alunno del liceo "Palmieri" di Lecce, traduce i frammenti degli Annali di Ennio (2) e trascorre il tempo libero tra letture classiche e d'avanguardia, auscultazioni musicali colte e di jazz. Su quest'ultimo scriverò: "Da qualche timido libro che cominciò ad uscire, e di cui fummo tra i pochi lettori, apprendemmo i nomi di Joe Venuti, di Fats Waller, di Gene Krupa, di Benny Goodman e di tanti altri, che ora occupano le prime lezioni di storia del jazz ( ... ) Che cos'era il jazz? Non un'ideologia, non uno sport e nemmeno un pervertimento del gusto ( ... ) Uno sturm. Un atteggiamento romantico, forse, se rimane così bene associato ai personaggi degli anni '20 e '30. Adesso che si scopre, qui da noi in Europa, la figura di F.S. Fitzgerald come del più vero rappresentante dell'epoca del jazz, è possibile ricostruire un clima morale e un costume nati da un profondo e indistinto bisogno di nuovi ideali, di rivolta contro le convenzioni, di evasione da una moralità divenuta inerte ..." (3).
Terminati gli studi liceali, De Rosa frequenta la facoltà di giurisprudenza di Si no, avendo, tra gli altri suoi maestri, Norberto Bobbio. Inizia l'attività letteraria collaborando a "Meridiano di Roma", settimanale letterario a grande diffusione, e a vari fogli della stampa giovanile. "Città" (1941) è la prima prosa (4), in cui il sud periferico e barocco è assunto nella forma allora dominante della prosa d'arte. Il clima, appunto, barocco di Lecce e del Salento torna in un'altra prosa pubblicata in "Gazzetta di Parma", Dove dormono gli Spagnoli nella bianca città del Sud (5), nella quale il ventisettenne autore mostra già una sua matura perizia descrittiva ed inoltre la captazione d'un essenziale elemento che forma la tipica atmosfera del Salento, ancora appena accennata dall'amico Bodini in Notte meridionale, in Tu non conosci il Sud, in Appena la conchiglia e in Una funesta mano (6).
Intanto in Toscana De Rosa respira l'aria della nuova civiltà letteraria, che in quegli anni ha il suo centro a Firenze e la sua ideologia nell'ermetismo. Ma giustamente Donato Valli precisa che la sua "nota più originale" (ciò avveniva già dal '41) "è costituita dalla naturale misura con cui egli riesce a temperare l'impronta ermetica, rapportandola a una certa castità interiore e a una classica tonalità sentimentale, timida cantilena di insistenti e vincolanti memorie" (7). La guerra, cui partecipa da ufficiale d'artiglieria, lo porta in Friuli, in Sicilia e in prigionia in Egitto. A questi anni si riferisce una prosa derosiana del 1953, Le vite parallele (8): "Salii quattro o cinque gradini esterni dell'albergo e chiesi del Capitano. Un soldato scese e cominciò a far bollire il caffè sulla fornace. Una donna scopa, e trascina i rifiuti fino alla soglia ( ... ). Quando fui davanti al Capitano, egli era seduto ed era in preda ad un catarro micidiale ( ... ) Non potevo classificarlo un comune capitano di complemento. Così avvolto nei suoi vecchi indumenti di lana, mi sembrava piuttosto un irregolare ( ... ) 'La notte, con le mani nelle tasche del pastrano, tendete l'orecchio e spingete lo sguardo avanti a voi. Vi sgomenta pensare a quanti siamo con gli occhi aperti sotto il cielo stellato, tra uomini e bestie. E non ammettete che possa essere così: fucili, bidoni, vecchi camion (...) e voi in mezzo a tutti gli altri, senza uno schema classico, una idea centrale perfetta...' 'Signor Capitano', io dissi, 'sono stato allievo ( ... ) e non conosco i pezzi da venti millimetri'". Modo questo, che rivela la possibilità di inserire un accento ironico in un contesto tragico, un alleggerire non con passività ma con distacco, che è nelle caratteristiche di De Rosa.
Al rientro, nel 1946, Luciano si laurea a Bari con una tesi sostenuta con Aldo Moro. Si impiega nella Banca d'Italia e riprende il filo delle amicizie leccesi nel fervore culturale della ricostruzione che anima la provincia. In quel clima di rinnovamento e di rottura si inserisce la sua multiforme collaborazione, nel '46 e '47, a "Libera Voce": cronache locali, commenti politici e di costume, racconti, traduzioni di poeti stranieri, ecc. Dal '54 al '56 è insieme a Bodini nell'"Esperienza poetica", edita da Cressati di Bari. Entra poi nel l'amministrazione della pubblica istruzione, nella quale percorre la carriera dirigenziale. Gli impegni d'ufficio, più gravosi quando diverrà, nel 1973, provveditore agli studi di Lecce, non lo estraneano dal mondo della cultura. Collabora infatti, in vari periodi, alla terza pagina della "Gazzetta del Mezzogiorno" con elzeviri di critica o creativi. Il periodo più intenso della sua attività di critico, di narratore e di poeta è quello che intercorre dal '54 (anno di fondazione del l'"Esperienza poetica") agli anni '70. è del 1954 un succoso saggio, Quasimodo e la difficile strada del sentimento nel quale il poeta siciliano è studiato nella sua evoluzione, caratterizzata da tre fasi: "volontà di disperdersi nella natura e di ascoltarla", e sentimento "represso ( ... ) da un rifiuto mistico opposto alla parte caduca e banale del l'esistenza", nella prima; "irrefrenabile desiderio di canto, che s'affida alle risorse musicali e oratorie della metrica classica" nella seconda, e "canto largo, ispirato da una cosciente umiltà verso il genere umano" l'ultima; tutte e tre in uno sviluppo segnato da personalità e coerenza. Citeremo, fra i saggi di De Rosa, Carattere della poesia meridionale (10), del '61, Storia e cultura in vent'anni di poesia italiana: 1940-1960 e Terra aspro d'agavi e sassi (La poesia dialettale di A. Pierro) (11), entrambi del '66, oltre quelli su Scotellaro, su Cassola, su Maria Corti, ecc.
Ma qui interessa soprattutto il prosatore, e ci doliamo che così larga messe di scritti sia disseminata in giornali e riviste, sicché è difficile una bibliografia organica degli scritti derosiani. Ricorderemo Cheyennes, Un'aria nuova, Il tempo delle visite, Domeniche a Livorno, Sul lato del Nilo, Passaggio a Nord-Ovest e La stanza del podestà (12) tra i tanti pubblicati sulla "Gazzetta del Mezzogiorno". Domina in essi una visione memoriale dell'esistenza, la coscienza dell'elemento fondamentale del comparire e scomparire individuale dell'uomo, che tutto lega, che è la storia intesa come continuo divenire di costumi, di genti comuni e per lo più anonime.
E, sopra tutto ciò, la necessità per l'individuo - pur nell'ineluttabile nostalgia per affetti e cose perdute - di guardare con forte serenità e modestia il proprio essere semplice anello di congiunzione fra lo ieri e il domani. Da qui l'equilibrio artistico (compreso quello formale) di Luciano De Rosa. Particolarmente efficaci ci paiono, tra le sopraccitate prose, Il tempo delle visite, La stanza del podestà, e Cheyennes, dove il dato memoriale-regionalistico s'interpone scongiurando la tentazione giornalistica del reportage, nella quale può essere individuato il limite d'un buon elzeviro. "Scesa rapidamente la sera, nel primo freddo d'autunno, s'illuminavano i fanali di ghisa, che fino a pochi anni prima avevano funzionato a gas. Dai capannoni adattati a cinematografi veniva il ronzio secco della pellicola che girava; un suono suggestivo come il zum-zum del baraccone del burattini per Pinocchio. C'incantavamo davanti ai 'quadri' appesi alla porta ... " (il tempo delle visite); "Da ragazzi, andavamo a passare l'estate al paese, e quello che ci piaceva di più era il lungo viaggio in treno tra le macchie e le dune del litorale dello Jonio, accompagnati dai giunchi e dalle agavi che protendevano le lunghe braccia come ragazzi muti e vagabondi. Si passava anche attraverso una fitta boscaglia, che apriva a volte allo sguardo avventurosi sentieri ... " (La stanza del podestà). La centralità dell'io è qui in funzione di una storia più vasta, di una biografia generazionale, più che personale. A proposito della poesia di Luciano De Rosa, M. Dell'Aquila scrive che in essa "la riflessione ed i temi del meridionalismo si collegano, nobilitandosi in una patina di decoro antico, con una forte coscienza della tradizione storica, della nazione greca e latina, così viva nelle testimonianze monumentali e poetiche salentine e calabresi" (13). Sei liriche sue sono comprese in Lirici pugliesi del Novecento di F. Ulivi e E.F. Accrocca (14), altre nelle riviste "L'Albero", "L'Immaginazione", ecc. Estremamente rappresentative, del ritornante binomio storia-uomo, l'una, e della base estetica dell'autore, l'altra, sono due liriche di De Rosa: Il Messapo (15) "(Cammina tra noi / il Messapo e dice: // HIBRINNAXTESTARR // ed è come fosse muto / da millenni col suo cuore / secco d'abitatore italico. // ... // Con un biglietto in mano / chiede dove passano la visita / per la pensione." e Su una recensione di un libro di Sanguineti (16) ("Ma il messaggio, signori, / se non c'è o è debole / dov'è la poesia (o / la storia se volete)? / Ché se i pianti / e le private tristezze / più non servono, nemmeno / serve il niente e il linguistico / malumore che ne discende.").


NOTE
1) L. DE ROSA, Da una lettera, in Lirici pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi e E. F. Accrocca, Adriat. editr., Bari, 1967.
2) Gli "Annali" di Q. Ennio, trad. di L.D.R., in "Rinascenza salentina", VI, 4, 1938.
3) L.D.R., L'epoca del jazz in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 20 gennaio 1962.
4) E' nella terza pagina di "Vedetta mediterranea" a. I, n. 3, del 7 aprile 1941. Gli altri scritti di De Rosa sulla stessa pagina, non allineata con gli intendimenti governativi del tempo durante la redazione Macrì-Bodini, e con fronda moderata con la redazione successiva, se si eccettuino l'intervallo dall'a. I n. 13 all'a. II n. 3 e quattro numeri gestiti direttamente dal direttore del settimanale, sono: Disegni (I, 7 e 11), Lettera ad amici (II, 26), Collegio Artusio (II, 35), Ricordo di Giorgio P. (III, 3), Piazzetta Carducci (II, 38), Libri (III, 6) e tre poesie, Largo e Andante, Città di musiche e Bianca (II, 4, 4 e 23).
5) L.D.R., Dove dormono gli Spagnoli.... in "Gazzetta di Parma", 29 febbraio 1948.
6) V. BODINI, Notte meridionale, in "La Fiera letteraria", 13 giugno 1946; Tu non conosci il Sud, in "Mercurio", 1947; Appena la conchiglia, in "Mercurio", 1947; Una funesta mano, in "Antico e nuovo", 1947; la prima fa parte di Quatro caminos e le altre di Foglie di tabacco, di La luna del Borboni, Ediz. della Meridiana, Milano, 1952.
7) D. VALLI, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Milella, Lecce, 1985, p. 91.
8) L.D.R., Le vite parallele, in "La Gazzetta di Parma", 2 apr. 1953.
9) L.D.R., Quasimodo e la difficile strada del sentimento, in "L'Esperienza poetica", n. 1, genn.-marzo 1954. Per tutti gli scritti di De Rosa su tale rivista, si rinvia alla ristampa fotomeccanica di essa a cura di A. MARASCO, contenente l'introduzione di quest'ultima, Congedo editore, Galatina, 1980.
10) L.D.R., Carattere della poesia meridionale, in "Il Critone", nn. 4-5-6 aprile-giugno 1961.
11) L.D.R., Storia e cultura in vent'anni..., in "L'Albero", n. 41-44, 1966; Terra aspra d'agavi e sassi, in "La Zagaglia", VIII, 32, dicembre 1966.
12) Tutte su "La Gazzetta del Mezzogiorno", rispettivamente, del 16 genn. 1979; 28 aprile 1962; 18 aprile 1963; 10 marzo 1964; 29 nov. 1964; 11 giugno 1965 e 10 sett. 1965.
13) M. DELL'AQUILA, Parnaso di Puglia nel '900, Adda edit., Bari, 1983, pp. 248-49.
14) V. nota n. 1.
15) L.D.R., Il Messapo, in Lirici pugliesi del Novecento, cit.
16) L.D.R., Su una recensione di un libro di Sanguineti, in "L'Immaginazione", n. 34-35, ott.nov. 1986.


Qui si presentano tre brevi prose, che ci paiono rientrare nelle caratteristiche sopra notate a proposito degli elzeviri di De Rosa, sicché sembra che siano state create proprio per una particolare conferma critica. Esse sono riunite in un comune titolo Imperfezione della memoria e si articolano in tre parti; senz'altro ognuna autonoma, ma riconducibili ad un comune filo conduttore, l'importanza e l'inadeguatezza della memoria. Anche la terza, che pare in qualche modo eludere la tesi, vi rientra con lo svanire della signora: "Nel celeste, il sole s'è diffuso in una polvere calda e dorata e le cose non hanno quasi più senso".

IMPERFEZIONE DELLA MEMORIA

Luciano De Rosa

Signora al pianoforte
I primi decenni (specie il terzo, nel quale sono nato) furono occupati, insieme con gli eventi politici e militari, dal contrasto tra il moderno e l'antico. Di ogni cosa ci si domandava: è moderno? Automobile o cavallo, gas o elettricità, capelli corti o lunghi, telegrafo col filo, o senza. E al fondo: America o vecchio continente?
Con questa lieto contesa nel cuore, libro e quaderni nella cartella di fibra, me ne andavo da solo alla prima elementare, con l'unica raccomandazione: attento alle carrozze. Le automobili, invece, si annunciavano da lontano con fragore di motori e suoni di clacson o di tromba. Abitavamo in fondo a una lunga via, che poi proseguiva in direzione della campagna. Vi passavano, la domenica, tra gridi festosi e stridori di ruote sovraccariche, quelli che andavano al fubbal: e questo faceva parte della modernità.
Notizie del dinamico novecento le apprendevo dall'avvocato Achille, nostro vicino di casa, alto e elegante signore che aveva studiato a Napoli e in quell'antica metropoli capitava per ragioni professionali. Ne riportava impressioni di un selvaggio caos di veicoli d'ogni specie, in mezzo ai quali, con rischio personale, egli attraversava la città sussultando nella barchetta di un side-car. Tra le novità, descriveva anche rumorose orchestrine chiamate jazz band. Quei racconti ci riempivano di allegria e di fede nel progresso.
Ma la sera scendendo sulle case diffondeva un senso di eterno, che raccoglieva la famiglia come nel quieto rifugio della caverna. Passava il gassista e accendeva i lumi della strada, ci disponevamo intorno al fuoco d'un braciere e le donne dicevano il rosario.
L'avvocato, lasciato lo studio, veniva anche lui a sedersi con noi, e per allontanare le amarezze della giornata iniziava a descrivere le delizie del modesto pranzo, che "la ragazza", come chiamava la moglie Ida, aveva preparato a mezzogiorno.
Quelle descrizioni e l'apologia, che egli faceva apposta per me, dell'uova arrostito nella cenere del braciere, mi persuasero a poco a poco, bambino magro e inappetente, ad aprire la bocca al cibo. Niente di più parco, del resto, della mensa del nostri vicini, regolato dalle scarse entrate forensi, poiché don Achille, che dalla prima guerra mondiale aveva riportato un tic al labbro, non aveva voluto piegarsi al regime politico imperante. Ma erano le impareggiabili mani della signora Ida che d'un semplice ragù sapevano fare un'opera d'arte.
E quelle stesse mani furono felici quando, dopo un lungo tempo senza esercizio, poterono di nuovo posarsi su un pianoforte. Perché mio padre, con moglie e quattro figli, non esitò ad acquistare un piano tedesco "Steinent"; un obbligo per chi avesse ragazze da educare. Il nobile strumento, nero e lucente, stentava ad adattarsi in una casa con i pavimenti di coccio e dove ancora una giara di creta faceva da serbatoio per l'acqua. Ma, non si sa come, vennero fuori gli spartiti, che "la ragazza" aveva conservato dai giovanili anni di studio. Dapprima furono le romanze di Tosti e le canzoni napoletane, poi i frivoli motivi d'operetta e i gravi "pezzi d'opera". Me ne stavo seduto alla sinistra della tastiera, intento, più che alla melodia, all'intreccio armonico dei bassi toccati a volo dalle bianche dita femminili, dimentiche ormai della domestica fatica.
Imparai, così, a distinguere i tormentati accordi di Donizetti da quelli romantici di Verdi e da quelli più moderni e dissonanti di Puccini. Non era raro che tutti, grandi e piccoli, intonassimo a gran voce: "l'ora èfuggita". E l'audizione, a mia richiesta, si concludeva con la teutonica "marcia Aquila".
La bruna signora al pianoforte fu il primo modello femminile - dopo quello materno - su cui si posò il mio sguardo, e la sua bellezza, un po' sciupato dalle difficoltà e dalle ristrettezze, ma ugualmente altera, anima nel ricordo una immateriale figura snella e vestita di nero.
Cambiammo casa, poi città. I nostri amici rimasero là, soli, e forse sentirono la mancanza di noi ragazzi, loro che non ne avevano. La signora perdette di nuovo il piano, per qualche tempo riacquistato. L'avvocato non poté più consolarsi con noi dei suoi clienti petulanti e poco solvibili. Passarono più di dieci anni, un turbine di giorni tutti nuovi e pieni d'avvenimenti. Eravamo già grandi, la fanciullezza svanita senza quasi lasciar traccia. Venne la guerra, ed ero in divisa quando mi sentii cercare da un anziano maggiore dell'esercito, richiamato per la censura postale. Alto, i capelli tutti bianchi, il bel viso sempre mosso dal tic. Era don Achille, in circostanze e in un'aria così diverse da sembrare, lui ed io, personaggi che avessero solo sognato cose accadute tanto tempo prima. Sembrava uscito dalle trincee risorgimentali del Corso e, per anacronismo, capitato da estraneo in una moderna guerra di movimento e di confusione. Chiesi della signora Ida. L'aveva lasciata a casa, accennò qualcosa di lei con l'intatta tenerezza per una fidanzata lontana.
Gli incontri, nel tempo di guerra, avevano un senso di provvisorietà e di addio, nulla era più certo e fermo, né luoghi né persone. Il caso regnava nel mondo, ogni pensiero era alterato dalla precarietà e dal rimescolamento di tutto.
La guerra finì e la gente prese a ritrovarsi e a riabbracciarsi come dopo il diluvio. Seppi che i nostri antichi vicini erano ancora nella loro città, mille volte desiderai di tornarvi. Immaginavo che fossero invecchiati, forse più poveri, non in buona salute. Ma "chi" sarei stato io a bussare alla loro porta, se non un nome?
Perché, per il resto, il tempo ci rende sconosciuti a noi stessi e a quelli che pur hanno avuto una parte nella nostra piccola storia.
(1987)

Il quadro
Il primo dicembre sono andato a ritirare il quadro e a salutare Franco, che, chiusa la mostra, se ne riparte. Sono tre figure nere su uno sfondo colar grigio perla: una bottiglia, una scatola di latta scoperchiata e una lanterna. E il giallo di due limoni e d'un popone.
Niente toni sfumati, colori uno accanto all'altro, forme ritagliate su fondi assoluti, senza concessioni.
Lo guardo mentre se ne va sotto la pioggia, nella piazza domenicale deserta, con un amico che l'ho invitato a pranzo. Il posso è quello suo antico, solo più legnoso e marcato, come accade diventando maturi. Sere prima, sulla soglia della mostra, guardavamo la gente passare nel vecchio corso stretto; ogni tanto qualcuno salutava dall'interno di un'auto, e lui rispondeva: "Carissimo!" e rideva, "ma chi sarà?". Mancava da tanti anni; è stato paracadutista, avvocato, ha girato il mondo. Giornalista in Brasile, ha esposto dipinti a Montevideo, a Recife, a San Paolo. Ha fatto l'arredatore, ora il restauratore a Roma.
In fondo, mi diceva, è il lungo viaggio di ritorno da ogni guerra, il mito di Odisseo che si rinnova. Anche questa mostra, pensavo, è il ritorno al punto di partenza, ma brevissimo, provvisorio, col proposito di ripartire subito e di rimettersi in giro.
Non gli ho ricordato la strana esplorazione che, terminata la scuola, facemmo con altri ragazzi in fondo alle antiche, grandi cave che si aprivano appena fuori della città. Vedevamo su di noi il cielo e ascoltavamo le nostre voci rimbalzare sulle pareti di tufo. Dal vuoto negativo di quel girone dantesco la città ci appariva capovolta, sospesa nell'aria. i gridi e le risate, ingranditi negli echi, davano l'inconsapevole addio a un tempo concluso e il saluto all'altro che giungeva.
Non gliel'ho ricordato, dubitando che un fatto accaduto potesse essere ancora vero, o almeno vero allo stesso modo per tutti.
Così, mi porto via il quadro. Cercherò, dandogli ogni tanto un'occhiata, qualche segno che resista all'impassibilità del tempo.
(1963)

Una ricompensa
Mi capita non di rado, per ragione del mio ufficio, di dover assistere a cerimonie e riti, nei quali la retorica è tanto forte da vanificare anche il significato di ciò che si vuoi onorare.
Ma una domenica mattina, a maggio, mi trovavo su un palco di legno, alla celebrazione di una ricorrenza patriottica. Di fronte erano schierati allievi ufficiali. Davanti al palco, sul prato, tra alcune persone, spiccavano il leggero abito colorato e i capelli biondi di una donna ancora giovane. Seguivo i movimenti del vento tra i rami degli alberi, sull'erba e tra quei capelli.
Forse, come accade in tali occasioni, invadeva tutti la lieve tristezza che nasce dall'indifferenza della natura per le cose umane. Il comandante salì su una pedana e al microfono pronunciò l'allocuzione. A un certo punto disse: "Io vi auguro, ragazzi, che non dobbiate sopportare le dure prove che sono toccate alla generazione che vi ha preceduto". Lo disse con il tono amaro e tranquillo di ciò che comunque si è dovuto fare.
Alla fine ci fu la consegna delle ricompense, mentre qualcuno leggeva i nomi e le motivazioni. Gli occhi di tutti si appuntarono su quei biondo che il vento continuava a muovere: il comandante porse alla signora un diploma e una medaglia. Era vedova di un pilota, caduto anni prima durante il volo. La donna sorrise e in tutti ci fu gratitudine per quei sorriso.
Il sole è alto, è quasi mezzogiorno ed è vacanza. Ognuno se ne va, l'animo leggero nel tempo primaverile. Con un allegro calpestio di ghiaia ci si affretta verso l'uscita. Ogni cosa è in ordine, ben disposta, gradevole: aiuole, cartelli, vecchie armi sistemate come ornamenti nei vialetti.
La signora sta andando via anche lei, tenendo in mano il cartoncino legato con un nostro. Accanto a lei cammina un ragazzo. Nel celeste, il sole s'è diffuso in una polvere calda e dorato e le cose non hanno quasi più senso.
(1967)


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