§ L'INEDITO - 2

Ocra, rosso e grigio per un Giovedě Santo




Enzo Panareo



D'un tratto il cielo, da sulfureo che era, cominciò a stingersi. Adesso era d'un rosso che lentamente, ma implacabilmente, s'andava stendendo a coprire, come un'insidia sconosciuta, le case, fin dove lo sguardo poteva andare. lo stanco pomeriggio di marzo stava per cedere il posto alla sera e la morte sembrava incombere sugli uomini e sulle cose con i gesti di un delirio.
A non molta distanza, tra le coltivazioni e il mare, il vulcano spandeva lame di fiamma. Il grigioverde degli alberi si ritraeva combusto e la lava nera mista a fuoco vivo avanzava minacciosamente a valle, travolgendo le opere degli uomini. I boati si rincorrevano ininterrottamente e sembrava che l'atmosfera ululasse di rabbia. le ceneri s'allungavano nel cielo attraversato dallo scirocco, con estroflessioni fantastiche che davano il senso di una piovra che mirasse ad impossessarsi, con il suo fiato maligno, dell'intero creato.
All'inizio di una profonda fenditura della montagna, una mano empia aveva lasciato sulla roccia un segno indelebile.
Nella città rombante sotto il frenetico srotolarsi della vita, la gente guizzava come in una lucida e mortifera luce d'acquario. Nella quale sembrava che ognuno, procedendo a capo chino, raccogliesse intorno alla sua fragile sagoma tutta la tristezza delle ore in una voce sommessamente confusa.
Toni ocracei resistevano qua e là nella volta smisurata del cielo.
Il brusio indistinto delle piccole storie individuali pareva stendere un manto sonoro sulla città nella quale ignare s'agitavano le ombre al calar della sera umida di pioggia. Questa era caduta nelle prime ore del pomeriggio. Aveva depositato fanghiglia annerita sulle macchine e sulle insegne luminose, che adesso apparivano appannate, sporche di una materia nerastra e rossiccia trasformata in putrido liquame rappreso in immonde figurazioni.
Un angelo di pietra dalla facciata di una chiesa barocca ammiccava sguaiatamente lubrico ad un rapace infernale dal rostro scheggiato, aggrappato ad un palazzo, tentando d'indurlo in tentazione. l'animale spiegò con torbida lussuria prima un'ala, poi l'altra, agitò le penne corrose e si ricompose nella luce bluastra di un fanale che spandeva il suo chiarore sull'edicoletta delle anime purganti.
Da questa luce di tanto in tanto esplodeva, con una consapevolezza livida nel cui respiro era dato rinvenire i segni di un destino nefasto, l'urlo isterico di qualcuno che era riuscito ad intuire, leggendo con visibile affanno sulle crepe di una casa, l'esito del suo dramma di vivente.
Rade e polverose gocce di pioggia presero a cadere ancora dal cielo, formando un cortinaggio incandescente, oltre il quale gli uomini apparivano come lemuri trascoloranti sullo schermo di una memoria perversa. In essa, buoni e cattivi riuscirono a decifrare le stazioni di una storia millenaria, che sembrava non dovesse mai aver fine...
Un uomo sogghignando, visibilmente appagato, consultava un oroscopo. Si sentiva al riparo dal maleficio nel quale la città sembrava essere caduta. Un bambino famelico tentava di tenersi alle sottane di una donna dal volto scuro, che allungava sempre più il posso, lasciandosi indietro, come un verme, il piccolo essere piangente. Un prete con la veste scolorita, cosparsa d'unto, dopo essersi guardato intorno s'infilò in un portoncino dall'aria equivoca.
Nella vetrina di un negozio di abbigliamento, all'urlo lamentosamente prolungato di una sirena del pronto soccorso, un manichino in sgargianti abiti femminili sembrò muoversi lentamente dal suo sgabello di paglia, divaricò oscenamente le gambe, agitò le mani verdognole e si strappò di dosso gli stracci che la vetrinista gli aveva fatto indossare. Brandelli di colore si mossero. il manichino apparve in tutto la sua funerea nudità, con i segmenti delle articolazioni che parevano pietrificarsi sotto l'impulso di chi sa quali radiazioni.
Un altro manichino, con addosso cascanti abiti maschili, indolentemente appoggiato ad un finto albero, smise repentinamente il sorriso vizioso, fece il gesto di portare la mano alla tasca, come per estrarne un'arma. Alcuni capi di vestiario, volgarmente variopinti, disposti in bell'ordine sul piano della mostra, sembravano spoglie di enti evasi da altri domini della vita. All'interno del negozio, commessi e clienti si agitavano come liquefacendosi, attraverso il vetro appannato della vetrina. Poi si spense la luce d'incubo delle lampade al fluoro e fu come se a spegnerla fossero stati i manichini, con il loro gelido fascino di morte. Dei quali, nell'alone della tiepida luce proiettata dai fanali della strada, apparvero i volti volgarmente umanizzati e disfatti.
Il vecchio del giornali, all'esterno del chiosco allegramente affollato di volti e vicende variopinti, gridava con voce petulante le notizie. Avevano trovato un giovane ucciso sulla montagna. Bellissimo d'aspetto. Gli erano accanto, anch'essi uccisi, due banditi. Vecchie conoscenze della polizia, questi due. Ma del giovane si sapeva poco o nulla. Soltanto, che s'era fatto notare in giro, in un recente passato, per certi suoi atteggiamenti di rivolta. E che la polizia lo aveva ricercato a lungo, ma invano, perché non sapeva da qual parte cominciare per le indagini...
Adesso stava lì, esposto alla pioggia, tra alcuni curiosi a stento trattenuti dalle guardie che, bagnate, imprecavano contro i tre morti. S'aspettava l'uomo della legge, per gli adempimenti necessari. Dopo avrebbero rimosso i morti. All'obitorio, probabilmente qualcuno avrebbe anche cercato il giovane. Gli altri due no: erano del malviventi che ogni famiglia dabbene senza dubbio avrebbe rifiutato.
La folla, elegante e indaffarata, passava con noncuranza davanti al chiosco dei giornali, ascoltava, dava un'occhiata ai titoli luttuosi e tirava, senza emozione, per la sua strada. Qualcuno, estraendo il denaro dalla tasca, ritirava i fogli vivi, fruscianti, odorosi di piombo e di petrolio, dalla mano del giornalaio. Il quale porgeva l'altra per ritirare il denaro.
Passò, con la sirena spiegata e con il lampeggiatore acceso, una macchina della polizia. la sua velocità provocò esclamazioni, di paura e di ammirazione nello stesso tempo. La gente s'era fermata attonita. Chi stava sulla strada, districandosi con preoccupazione nel groviglio del traffico, si ritirò frettolosamente sul marciapiede. Si udì il grido roco di una donna alla quale era sfuggito dalla mano un bambino cencioso. Un'altra, strappando il collare di un cane, s'appoggiò pesantemente ad un giovane passante. Costui, prima sorpreso poi compiaciuto, la guardò, apprezzandone le forme. Poi sferrò un calcio al cane che guaì di dolore.
- Vuoi vedere che vanno a prendere qualcuno? - osservò un vecchio che aveva l'aria d'un avvinazzato. Non s'era rivolto a nessuno, in realtà. Ma accanto sentì che qualcuno sussurrava, con tono impersonale: - Stai fresco, con questa polizia!
- Chi sa dov'è colui che li ha uccisi...
- E chi ti dice che si tratta di uno soltanto? - fece un soldato che mostrava d'intendersene.
- E poi - aggiunse una donna sul cui volto scorreva un'aria furbastra e melensa -perché li hanno uccisi?
- Forse per i soldi - sembrò concludere un ragazzo con un giubbotto di viscida pelle nera.
- Ma se sono dei poveracci... Almeno, così si dice.
- Poverini! Chi sa se hanno sofferto - e su questa battuta di una donna di malaffare, sfiancata, dalla faccia mesta sporca di cattivo cosmetico, si chiuse la serie dei commenti.
Poco più che trentenne, aspetto minuto, naso affilato sotto gli occhi miti ma scintillanti, capelli biondi ricadenti sul collo, abiti dimessi ma ordinati, un vagabondo andava con passo deciso lungo il marciapiede. Stava attento ai numerosi passanti che nella ressa della sera lo urtavano. Era come se ne temesse il contatto. Si portava di tanto in tanto la destra dalle dita lunghe alla barba rado sotto la bocca regolare, carezzandosela con un certo nervosismo. Un gesto che su quel volto patito, da stilita, assumeva, più che il significato di un sentimento episodico, il senso di una pensosità profonda, sconfinata.
A mano a mano che procedeva, rasentando i muri dei palazzi, la sua figura s'illuminava alla luce dei negozi che si succedevano, uno dietro l'altro, sul piano della strada. Evitava di guardare nelle vetrine, soprattutto in quelle nelle quali i manichini, con gli atteggiamenti più diversi, a seconda del gusto o del capriccio di chi li aveva allestiti, sembravano intrecciare sarabande di gesti e di luci.
Non era tardi per la gente comune che, vociando, affollava la strada. Ma per il vagabondo sì, ché sapeva di avere una meta ben precisa. Ed alle spalle una vicenda che gli pesava enormemente. Doveva andare da qualche parte, ma capitato così, nel bel mezzo della città mollemente adagiata nella penombra di una sera di festa antica, non riusciva ad orientarsi.
Fece cenno ad un vigile di fazione nei pressi del chiosco dei giornali. Costui, già stanco, più per abitudine che per disposizione alla cortesia, fece: - Dica pure -portando stancamente la destra, aperta, al casco bianco, in segno di saluto. Poi, squadrando con diffidenza il vagabondo, considerandone l'aspetto, si pentì del lei con il quale aveva risposto al cenno e bruscamente aggiunse: E allora?
Il vagabondo, sorridendo appena, avendo intuito il fulmineo processo psicologico che s'era fatto strada nel cervello intorpidito del vigile, chiese con accento mansueto: - Dove porto quel vicolo?-. Aveva disteso orizzontalmente il braccio, tendendo l'indice verso il vicolo del quale s'intravedeva l'inizio tra due quinte di povere case. la sua mano era trasparente e le venature del dorso s'intrecciavano stranamente. -- Dove vuoi andare? - chiese con malagrazia il vigile, che intanto dava un'occhiata al traffico che procedeva senza sussulti.
- Ecco - disse con una certa sicurezza il vagabondo -, io cerco un posto dove riposare. Ed anche, magari, mangiare qualcosa. Vengo da molto lontano - aggiunse - ed ho bisogno di sbrigare un certo negozio. Un affare, diciamo, in questa città. Ci starò fino a domenica. Dopo me ne tornerò al mio paese.
Parlava come se volesse chiedere scusa. il vigile ebbe una reazione di fastidio. la presenza di quel vagabondo, piuttosto che insospettirlo, lo inquietava: gli dava il senso di una remota presenza evocata da chi sa quale abissale mistero, tradotto adesso in realtà. Primo impulso fu quello di chiedergli i documenti. Ma mentre formulava il pensiero, girando intorno lo sguardo, decise che, invece, era meglio se si sbarazzava al più presto di quel vagabondo. intanto che ne fissava interrogativamente il volto, prese tempo, poi gli chiese: - Hai già un indirizzo? Il vagabondo fece di no con la testa. il vigile era ancora più perplesso. Quel volto l'aveva visto da qualche parte, ma dove? Ed anche quella voce non gli era ignota. Fece uno sforzo per ricordare: lo aveva visto al televisore quel volto, o su qualche giornale? Mah! Forse in chiesa, pensò, convinto d'aver formulato un pensiero spiritoso. Sorridendo mentalmente, scacciò le fantasticherie e messo repentinamente il fischietto tra le labbra, lo fece trillare all'indirizzo di un automobilista indisciplinato che aveva bruciato il rosso.
Poi, come invaso da una stanchezza mortale, tornò al vagabondo. Tanto, tra poco sarebbe smontato e, occorrendo, se la sarebbe vista il collega subentrato a dargli il cambio. E, infine, non era prudente correre rischi: la pistola l'aveva scarica, ché già così gli pesava sul fianco sinistro, all'altezza della tasca.
Fu a questo punto che apparve la luna. Tonda e miracolosamente grande, occupava con il suo chiarore tutto il cielo lasciato libero dalle nubi. l'equinozio di primavera cominciava a riempire dei suoi fiati la natura. -- Fai il vicolo. Tutto: quasi alla fine, troverai una locanda. Lì forse potrai anche mangiare - il vigile volle essere accondiscendente, generoso. Però, per finire, aggiunse: - E ricordati di esibire i documenti!-. Era il tono severo di chi, avendo lasciato correre, intendeva tuttavia placare la coscienza.
- Certo - replicò il vagabondo, che ringraziò e s'incamminò. li traffico scorreva nervoso nei due sensi della vasta arteria ed il semaforo scattava ad intervalli regolari, dando all'incrocio, nodo di luci e di rumori d'ogni genere, l'aspetto di un meccanismo mostruoso immerso nella caliginosa sera primaverile.
Un'enorme macchina gialla d'un giallo assurdo macchiato di fango, svolazzò tra le altre macchine ai semaforo, imboccò, sull'indicazione fulminea d'una freccia verde, un viottolo, quello verso il quale s'era già diretto il vagabondo. Il quale vide la macchina fermarsi stridendo accanto ad un portone di legno corroso. Ne uscirono, come evocati dalle tenebre, alcuni uomini intabarrati in lunghi cappotti d'un nero lucido, che introdusse una nota di sgomento nel budello sovrastato da una esile fetta di cielo. Costoro dettero uno sguardo alla macchina, ammiccarono all'autista dal volto accaldato e salirono tutti, non senza sforzi, sul veicolo. Questo ripartì per una destinazione che s'intuiva non meno assurda del colore dal quale quegli uomini erano stati imprigionati.
Mentre la macchina s'introduceva nell'atmosfera caliginosa della città, il vagabondo si fermò sulla soglia della locanda.
Una luce funerea scendeva sui pochi gradini. Sotto l'archivolto, apparve una donna piccola, ancora giovane, con il capo coperto da uno scialle di seta azzurro. Lo sguardo le brillava nella torpida penombra. L'uomo credette di riconoscerla, poi le chiese ospitalità. la donna, sorridendo, lo invitò ad entrare. Ringraziando con volto serio, l'uomo percorse un andito buio, una sorta di vestibolo, e fu in una vasta sala modestamente arredata, con un tavolo e poche sedie, illuminata da una vecchia lanterna fissata con un gancio di ferro al muro.
Nello stanzone stagnava una luce illusoria, nella quale poche ombre di uomini si muovevano lentamente, come irrigidite. Non s'udiva una voce. Solo in un canto, un cane mugolava.
- Zitto, buono - esortò la donna, rivolta all'animale, che obbedì. Poi chiese al giovane che cosa desiderasse. Ma la domanda pareva fatto con un tono che presupponeva, da parte della donna, una conoscenza dell'uomo e della sua vicenda.
- Vorrei dormire - disse il giovane, riprendendosi da una sorta di assenza nella quale pareva essere caduto -, sono tanto stanco.
- Ci credo - la donna ammise con tenerezza, dopo aver a lungo considerato l'aspetto del giovane. Poi continuò: - Posso farvi dormire in uno stanzino. Ci starete tranquillo. Al sicuro.
Il giovane non si mostrò sorpreso dalle ultime parole della donna, della quale osservava il volto patito. Con riconoscenza.
- Forse vi cercano? - chiese la donna.
- Non mi cercano. Sono io che li cerco. Sono loro che non si fanno mai trovare.
Nemmeno la donna parve sorpresa da queste parole che alludevano ad una conoscenza abissale. Era come se i due, la donna e il giovane, nel loro breve e comune discorso condensassero il prodigioso intreccio di una storia enormemente grande, i cui termini trascendevano i secoli. 0 i millenni.
- Venite - disse la donna e prese con dolcezza la mano del giovane.
Le due mani, calde come di febbre, si strinsero con brividi che esprimevano una comunione cui nessun sentimento sarebbe mai potuto arriva re. Il volto della donna, diafano, era diventato una magica efflorescenza. L'uomo si lasciò docilmente portare verso uno stambugio, nel quale un giaciglio disfatto occupava quasi tutto lo spazio del locale.
- Potete adagiarvici. Dormire - disse la donna. Che aggiunse, come per scusarsi: - Non ho altro! -. Sul suo volto, nei suoi occhi passò l'ombra della mortificazione. L'altro se ne accorse, ed il suo animo fu colmo di lietezza.
- Dormire? - fece poi soprappensiero - Ma come? Non sentite quanto rumore? La città è in subbuglio. Pare che hanno trovato tre uomini uccisi sulla montagna.
- Lo so - disse la donna. I tratti del volto le si erano fermati su un pallore cadaverico. E il suo sguardo trepidante era rivolto verso la porta. Poi aggiunse: -Volete chiudervi dietro? Ma del tre uccisi, in fondo, nessuno si dà pensiero. Magari, solo la polizia.
- Forse non ce n'è bisogno. Loro sanno tutto. Sanno dove stai. Solo, che non ti cercano - Il giovane, malgrado l'incalzare del pensieri, parlava con serenità, tenendo fissi gli occhi in quelli della donna. Che ne era come consolata.
- E' vero - finì con l'ammettere con tono rassegnato. Poi si ritirò, tirandosi dietro la porta. Il volto le si era disteso in una pace senza confini. E tuttavia, nella casa fu come se il fiore si fosse chiuso alle brezze della sera. Nello stambugio fu quasi buio.
Fuori, la macchina gialla, fatto il giro dell'isolato, s'era avvicinata, come di sorpresa, alla locanda. Gli uomini intabarrati uscirono a fatica, ma decisi, come se dovessero compiere chi sa quale missione. Qualcuno, che passando li vide, cambiò strada in fretta. Si fecero sulla soglia della locanda, sulla quale intanto s'era affacciata di nuovo la donna. Era, il loro, il volto del sospetto, dell'inganno.
- Chi cercate?-. C'era una certa apprensione nella domanda, come per una insidia intuita, ma non individuata. La domanda era fatta, comunque, con tono naturale.
- Nessuno-fu la risposta repentina. Poi, dopo essersi rapidamente e affannosamente consultati, aggiunsero: - Ci siamo fermati per caso. - Volete entrare?
- No. Non ce n'è bisogno. Dobbiamo andare. Abbiamo motto da fare! Adesso parlava quello che dalla voce rude e autoritaria sembrava un capo.
- Buona notte, allora -. La donna s'era del tutto rasserenata. Il giovane al quale aveva dato un ricovero forse dormiva tranquillamente e nessuno lo avrebbe disturbato.
- Buona notte - fecero gli uomini in coro: il saluto augurale produsse tutt'intorno uno stridore che fece rabbrividire chi lo ascoltò.
In alto, la luna splendeva, occupando tutto il cielo ormai sgombro di nubi. Sugli uomini e sulle cose era rimasta una patina di sporco che nessun lavacro sarebbe riuscito a detergere. Lo sapeva il giovane che s'era rifugiato nel cubicolo maleodorante, nel quale nel passato - anni, secoli: nessuno poteva dirlo - chi sa quante nefandezze erano state consumate.
In quella tana dalle pareti insudiciate da tutti coloro che v'erano passati egli, tornando nella città, aveva ritrovato il senso della sua presenza remota. Aveva agevolmente decifrato, su quelle pareti sulle quali una candela faceva muovere scompostamente ombre insulse, indaffarate in una giostra senza scopo, i segni di avventure straordinarie. I cui protagonisti, affacciatisi atterriti nella notte dell'equinozio, erano stati inghiottiti, una volta sopraggiunta l'alba, da quelle loro stesse avventure. Che, però, nella notte s'erano dispiegate sulle pareti, illusoriamente ingranditesi, con tutte le loro connotazioni, come animali che cercassero prede inusitate. Uomini, donne, vecchi, vecchie, ragazzi, ragazze, bambini, legioni di creature ormai senza nome erano passate su quelle pareti, sconfiggendo per una volta sola il tempo. Che tuttavia le aveva di nuovo sconfitte, portando con sé come un vento impetuoso tutta quell'umanità della quale altro non restava che i segni delle turpitudini commesse. Che s'erano srotolate come un film osceno su quelle pareti, che n'erano rimaste bruttate per un tempo brevissimo: lo svolgersi inquieto d'una notte dell'equinozio primaverile, allorché agli uomini era promessa l'alba di un nuovo giorno.
Il vagabondo ad un certo momento s'era andato chiedendo perché era tornato. Valeva la pena? Avrebbe forse potuto visitare - e sarebbe stato meglio -, non visto se possibile, quei tre che probabilmente ancora giacevano al freddo sulla montagna, corpi esanimi in attesa. In attesa dell'uomo della legge che con il primo sole della giornata si sarebbe deciso ad andare a vederli. Anche foro, d'altronde, avevano dovuto percorrere fino in fondo il loro sentiero. Di tribolazione. Anche il cattivo. Che, poi, del tutto cattivo non era se si teneva conto dei segni aggrovigliati, tracciati sulle pareti della tana.
Verso l'alba un pesante torpore aggredì il vagabondo, che si lasciò portare sull'onda di una quiete insperata, e dunque tanto più accarezzata. Sognò? Chi sa! Certo è che sullo schermo dei suo dormiveglia passò tutta la sua vita. Ed anche il suo destino di eterno viandante. Dove andava ormai non lo sapeva nemmeno lui. Al vigile, comunque, aveva detto la verità, per essere lasciato tranquillo. D'altronde, che male aveva fatto? Gli uomini della legge talvolta credono facilmente in ciò che si dice loro. Ma, continuò a pensare il vagabondo, sarebbe tornato volentieri là donde veniva. Era un luogo tetro solo all'apparenza. là sarebbe stato tranquillo ed avrebbe riposato su un giaciglio pulito. In una stanza senza quei segnacci sulle pareti. Non ci sarebbe stata la donna della locanda: certo avrebbe sempre potuto pensarla, con quei suo volto come un fiore appena sbocciato.
Quando il sole s'era giù levato, dopo quei dormiveglia dal quale era emerso ristorato, il vagabondo apparve nella sala. Dove penetravano, attraverso le serrande abbassate, poche lame di un sole spento dal grigiore che si stendeva uniformemente nell'ambiente. Il cane mugolò appena. Un passero rinchiuso in una vecchia gabbia mandò un suono fievole. Il vagabondo osservò i due animali, sorridendo.
In quei momento la donna si affacciò da una porta. Era ancora in disordine. Non aveva lo scialle di seta azzurra sulla testa. I capelli, a mano a mano che avanzava verso il vagabondo fermo al centro della sala, percossi dalle deboli lame di sole, le si facevano d'indaco.
- Ve ne andate?
-Sì - disse debolmente il vagabondo. Poi, come riflettendo, aggiunse con voce ferma: Quanto debbo?
- Non avevate bagaglio? Nulla: lasciate andare. Avete riposato?-. Il tono era materno e lo sguardo rassegnato.
- Sì - fu la risposta. In quei monosillabo sembrò condensarsi la storia degli evi. La stanza s'era improvvisamente illuminata.
- Tornerete?
- Chi sa! Un giorno o l'altro. A proposito - aggiunse, portandosi nervosamente la mano alla barba bionda - che ne è stato dei tre uccisi sulla montagna?
- Li hanno rimossi.
- Hanno trovato chi li ha uccisi?
- Non lo so. Penso di no. Ma chi sa se lo troveranno mai. 0 se avranno mai voglia di trovarlo.
Il giovane sorrise e, varcata la soglia della locanda, s'immerse, sotto il peso della sua smemoratezza, nel movimento frenetico della città che festosamente s'andava preparando a piangere.
All'incrocio, il vigile della sera precedente riconobbe il vagabondo, di spalle, confuso tra la folla. Tentò di raggiungerlo, ma non ci riuscì. Fu distratto da una macchina, che aveva di nuovo bruciato il rosso del semaforo.
Nei cieli intanto le costellazioni imperturbabili trascorrevano con vertiginosa rapidità da un mondo all'altro, tendendo lo sguardo al sole fermo al centro dell'universo. Ed i suoni striduli degli enti che cozzavano, disintegrandosi in minutissime particelle, sommergevano con i loro prolungati echi gli incerti vaneggiamenti degli uomini offesi. Era nell'aria il presentimento di una nuova cosmogonia.
All'obitorio, il giovane morto non era stato cercato da nessuno per il riconoscimento. Con gli occhi vitrei aperti sullo stupore della Terra minuscola, egli era diventato una pratica burocratica ingombrante, ed imbarazzante, da archiviare al più presto. Con un numero enorme e privo di significato.

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