§ L'INEDITO - 1

I rosolacci sulla neve




Enzo Panareo



Nel crepuscolo antelucano che già si faceva strada tra le ultime, sbiadite, ombre della notte illune, Marino lasciò il suo giaciglio improvvisato e si diresse alla finestra. Fuori, il freddo di quel brumoso febbraio era intenso. Il corpo vigoroso del giovane fu percorso da un brivido. I vetri, liberati dalle imposte, s'appannarono rapidamente a causa del tenue vapore che circolava all'interno del casolare abbandonato in mezzo alla campagna. L'uomo strofinò con la manica della camicia, rattoppata in più punti, un vetro per guardare nella campagna. Era tutto un susseguirsi di sagome incerte che, a mano a mano che la luce avanzava, andavano prendendo forma. Non c'era la neve, ma si sentiva che sarebbe venuta. Era come un presagio del quale si potevano cogliere i segni. Marino, in osservazione, si toccò istintivamente la manica della camicia: era umida. Fuori, ormai illuminato da una luce livida, maligna, il sentiero di terra battuta che portava sulla provinciale si distingueva chiaramente. Un paio di passeri infreddoliti ed affamati cercavano qualche briciola.
Nella chiarità albale Marino avvertiva il peso insostenibile dell'aria gelida che la notte aveva disteso sulla campagna indifesa.
Mema dormiva di là, in un altro ambiente, nel quale c'era il focolare, a quell'ora spento.
Marino non aveva voluto seguire la sua donna in quel locale dal tepore gradevole. Aveva preferito, per non disturbare il riposo di Mema, restare a dormire nel freddo di quello che era stato una volta un deposito di granaglie. S'avvertiva, diffuso nell'aria, l'afrore sulfureo che i prodotti della terra emanavano, una volta trattati con gli antiparassitari. Era, tuttavia, un genuino odore di cose di campagna che comunicava, a chi lo respirava, come un senso di certezze tenaci. Era l'odore della fatica paziente, in effetti. E Marino di fatica viveva. Era già stato nell'emigrazione qualche anno, dopo il servizio militare. Adesso che s'era sposato, aveva scelto di restare in paese. 'La salute delicata di Mema lo teneva sempre preoccupato e non voleva, se Mema aveva bisogno d'aiuto, trovarsi lontano dai parenti.
- Mema - chiamò con voce carezzevole. Per lui Mema era sempre una bambina bisognosa di protezione.
Intanto guardava fuori. Ma la giovane donna, che s'era già levata ed aveva preparato per il caffè, gli stava alle spalle e, allungando il collo esile al di sopra della spalla robusta del marito, guardava fuori pure lei, cercando d'interpretare gli umori incerti, sinistri, del tempo.
- Ah, sei qui - disse e le sorrise. La guardò negli occhi, cercando di scorgere in quella profondità luminosa i segni di un destino che lo teneva inquieto. Ma Mema aveva circondato con il braccio destro la vita del suo uomo e, a sua volta, gli sorrideva. Accanto a lui si sentiva al sicuro. L'amava di un amore fanciullesco, intessuto d'innocente genuinità. Di Mema, invece, incantava Marino il cinguettio con il quale la ragazza, quando si sentiva bene, gli rivolgeva parole scherzose.
Intanto, fischiava un rabbioso vento di tramontana che rendeva ancora più lugubre la campagna invernale. Gli alberi, squassati impietosamente, gemevano senza tregua. Ed era anche un continuo mulinare di foglie secche e di altri detriti.
- E allora... - chiese la donna a Marino, che si dava da fare con qualche attrezzo di lavoro -, vogliamo andare? - e si preparava anche lei, indossando le vesti con le quali sì recava sul campo ad aiutare il marito. Non sempre, ché non era nelle condizioni di farlo sempre.
- Chissà che freddo sentirai... - pensò l'uomo ad alta voce ma senza rivolgersi a Mema. Poi le andò accanto e le toccò teneramente una guancia con la destra. Si sentiva pieno d'amore e di tristezza. Mema lo fissò con lo sguardo riconoscente, lievemente velato per la commozione.
- Non darti pensiero. Mi coprirò bene. Stai tranquillo... -. Mema s'allontanò e andò a prendere un largo, pesante, scialle nero con il quale si sarebbe protetta la testa, il collo e le spalle. Marino sorrise. Gli piaceva Mema così infagottata, gli piaceva moltissimo. Quel visino pallido, regolare, ma dai tratti patiti, che usciva dallo scialle tenuto fermo alla gola da uno spillo, gli dava il senso di una ricchezza nascosta, ma inestimabile da proteggere con ogni cura. Quegli occhietti vividi, ricchi di semplicità, lo rendevano felice. Mema, in fondo, stava tutta in quegli occhi, sulla cui luce già il dolore aveva impresso le prime e indelebili ombre. E quel dolore lo si sentiva talvolta anche nella voce serena, che però faceva sempre di tutto per celare le emozioni, specialmente se queste scaturivano da eventi amari.
Mema era molto malata. Aveva cominciato a non star veramente bene pochi mesi dopo il matrimonio. Si pensava, nella suo famiglia, che questo avrebbe avuto il potere di cancellare qualche malessere che già s'era manifestato, anche se non in maniera preoccupante.
Adesso, da qualche settimana appena era stata dimessa dall'ospedale e sarebbe stato opportuno che restasse lontana dal lavoro almeno durante tutto l'inverno. Era stata divorata dal tabacco, delle cui foglie clorotiche aveva portato sul volto, per alcuni anni, dalla prima adolescenza, il colore maligno. Erano stati anni di fatica massacrante, ma indispensabile, date le condizioni d'indigenza della famiglia di Mema. Era stato sottratta alla condanna del tabacco da Marino quando l'aveva presa in moglie. Ma il danno, anche sé non irreversibile, era stato fatto. Adesso erano stati tre mesi di degenza: il primario, un uomo grosso dall'aria paterna, aveva detto a Mema di non esporsi troppo. Era stata curata bene, certo. Ma adesso, cercasse di andar cauta. Doveva starsene tranquilla Non affaticarsi. Il lavoro in campagna - non era la prima volta che glielo dicevano i medici - non era per lei. E se proprio ci teneva, in primavera avanzata, in estate.... chissà, poteva anche far qualcosa, Marino per la sua giovane moglie portava nel cuore una pena indescrivibile. Era come un macigno che gli gravava sul petto. Non sapeva a quale santo votarsi per vedere la sua Mema rifiorire. E meno male che avevano evitato d'aver figli: appunto per non affaticare Mema. Ed erano stati aggrediti entrambi, pensando ad un figlio, da una sorta di superstizioso terrore paventando la possibilità che un figlio potesse venir malato come Mema: perché mettere al mondo un altro disgraziato? Ed anche il medico aveva consigliato di lasciar perdere...
Il freddo di quei giorni poi...
- Sai Marino - disse la ragazza mentre il marito si preparava ad uscire e lei a seguirlo -, stanotte ho fatto un sogno strano.
- Raccontamelo - incitò Marino con voce trepidante. Sentiva sul cuore un peso insopportabile, il presagio di una minaccia oscura, chissà dove in agguato. Uomo della terra, abituato ad affrontare la realtà nelle sue più svariate manifestazioni, non era stato mai superstizioso, ma adesso, con Mema accanto, lo era diventato e, per una sorta d'inqualificabile riflesso, era diventato anche religioso.
S'era fermato sulla soglia ed aspettava il racconto della moglie.
- Ho sognato un campo di papaveri sulla neve -. Mema, raccolta nello scialle, guardava il suo uomo ed era come se lo vedesse in una fiaba. Ne vedeva lo sguardo profondo che tentava disperatamente di superare le barriere dell'inconoscibile. E lo amava così... Adesso aspettava. Marino diventò per un momento pensieroso.
- Quali papaveri? Sulla neve? Ma che vai dicendo?... - mostrò poi di spazientirsi il giovane.
- Quelli rossi: i rosolacci. Sembravano macchie di sangue sul lenzuolo. Quanti... Una distesa interminabile, a perdita d'occhio! - L'uomo ancor più si turbò. Chiese: - Ti piacevano? Ci sei andata in mezzo?-. Cercava d'andare al di la del compatto spessore onirico per rientrare in una dimensione di realtà che lo mettesse nella condizione di poter difendere la sua donna da tutte le insidie del male.
- Che paura, Marino, per tutto quei sangue. Al vento che radeva la neve, quei rosso si muoveva. Era come se scorresse sangue... Poi, quando mi sono svegliata, ho capito che era soltanto un sogno -. Mema s'era fermata, affaticata. Respirava con una certa difficoltà. Riprese soltanto per chiedere: - E' stato un brutto sogno? Dimmi, Marino, è stato un sogno che forse non dovevo fare? -. Marino, a quei pigolio lamentoso si commosse e sorrise per tenerla quieto. Repentinamente però tentava di maturare una decisione.
- Sai che puoi fare, invece, Mema? - disse affrettatamente, come per un impulso dettato da chissà quale illuminazione del pensiero - . Non vedi che tempo? Non uscire. Fallo per me. Tanto vado un po' sul campo, vedo come stanno le cose, prendo un po' di verdura se la gelata non l'ha bruciata e me ne torno. E tu non mettere fuori nemmeno il naso, va bene? - Il tono delle ultime parole era stato perentorio. Marino l'aveva fatto per evitare le recriminazioni di Mema.
- Va bene, Marino. Farò come dici tu - sorrise la donna ed ebbe un colpo di tosse. A quei rumore Marino si sentì vibrare l'anima. Uscì, ma con il proposito di tornare presto.
Dalla stalla i due buoi muggirono lamentosamente. Li avrebbe governati Marino al suo ritorno. il cane, liberato, già scorazzava sulla minuscola aia e si lanciava a perdifiato nei campi, inseguendo le ombre grigie d'un mattino d'inverno.
Mema, invece, se ne tornò sotto le coperte, al caldo. S'addormentò e sognò di nuovo, ma questa volta non stava più tra i rossi papaveri sulla neve, ma tra le braccia del suo uomo che la ninnava come si fa con i bambini quando sono inquieti. Erano, quelle di Marino, braccia forti che sollecitavano la terra e Mema sognava d'avere per un momento quelle braccia, la forza di quelle braccia con le quali ad un certo momento sconfiggere il male che l'insidiava e tentava di portarla a perdizione. E Marino, felice, al suo sguardo dubbioso, rispondeva che sì, poteva utilizzarla quella forza perché la salute, quella che le era dovuta per i giovani anni e per l'amore che portava alla vita, le tornasse e loro potessero essere felici per sempre.
Fuori il vento lacerava, con la sua inarrestabile rabbia, le cose. E il cane, accucciatosi ai piedi di un albero, sconsolatamente mugolava alla natura inquieta.
La neve scese lenta, ma costante, una notte, qualche settimana dopo. Ne aveva previsto l'arrivo anche la saggia esperienza di Cosimo. A costui bastava annusare l'aria, sollevando leggermente il capo canuto protetto da un berrettaccio, per sentire i fenomeni atmosferici. Con la moglie Addolorata, una vecchia tutta raggrinzita nelle ampie vesti nere, Cosimo era accorso al capezzale di Mema qualche ora dopo che Marino aveva fatto sapere loro che la moglie aveva ripreso a non star bene. Erano giunti al casolare di Marino e di Mema dopo avere sfangato per un paio di chilometri su sentieri che non si riconoscevano più nella campagna.
- Tra poco nevicherà - aveva detto Cosimo con tono sentenzioso, nel quale era agevole cogliere tutta la somma delle conoscenze che l'uomo aveva ricavato dalla pratica della terra.
- Quando? avevano fatto eco la voce spaurita di Marino e quella tremula di Addolorata. Mema, a letto, dapprima aveva taciuto, poi, da parte sua, aveva chiesto: - Nevicherà a lungo, zio Cosimo?-. Costui era stato un po' soprappensiero e poi aveva risposto a Mema, sempre con quel suo tono sentenzioso, che pareva, talvolta, quello di un oracolo: - Almeno due o tre giorni. Poi verrà il sole... Ma la campagna avrò patito e tutta la nostra povera fatica sarà andata al diavolo! E chi la considererò mai la fatica del contadino? - Alle parole di Cosimo Addolorata s'era segnata frettolosamente, biascicando una giaculatoria e Mema s'era incupita: il suo sguardo, da innocente che era, s'era fatto torvo e fissava con innaturale insistenza, al di là dei vetri della finestra, la sera che s'andava distendendo con le sue ombre, sulle cose.
Per quella notte i due vecchi dormirono lì, dopo la cena consumata in silenzio nella stanza nella quale Mema riposava. Marino, dal canto suo, si sentiva più tranquillo. Dopo qualche giorno cominciò ad attendere con una certo serenità ai lavori e, intanto, pensava, tutt'altro che impressionato dal cattivo tempo, che tra non molto sarebbe venuta la primavera. Questa poi avrebbe portato un clima più tollerabile e Mema sarebbe stata bene.
Ma sarebbe stata veramente bene Mema? Marino confidava nella giovane età della moglie, cioè nella capacità di recupero che del giovani, dopo qualche malattia, è tipica. Non si nascondeva, tuttavia, che il male di Mema non era di quelli che si potevano sconfiggere, o quanto meno arginare, con il recupero che la gioventù consente.
Comunque - finì col concludere Marino, anche per mettere fine ai pensieri angosciosi che gli si accavallavano nella coscienza - sarebbe stato fatto tutto quel che era necessario affinché Mema tornasse sana com'era prima. Anche se, tutto sommato, a Marino non era stato mai dato di veder Mema in buona salute!
Qualche giorno dopo Cosimo se ne tornò a casa solo. Addolorata, pregata anche da Marino, aveva preferito restare accanto a Mema. Alla quale la febbriciattola, inaspettatamente sopraggiunta, era durata appena tre o quattro giorni, tanto che Addolorata stava pensando di tornarsene a casa.
- Ci vuoi lasciare, zia Addolorata? - aveva chiesto alla vecchia Marino con una certa inquietudine. Stavano sull'aia. Marino spaccava legna da bruciare nel caminetto e Addolorata sciorinava la biancheria bagnata che aveva lavata, non senza affaticarsi, in una tinozza.
- Mah!... - aveva replicato la vecchia lentamente -, mi pare che Mema stia meglio. Tu puoi uscirtene e lasciarla sola senza essere preoccupato. E poi, tu sai fare tutto in casa. Adesso vediamo che bisogna fare. Vuoi dire che deciderò domani mattina. Vediamo un po' come si mette il tempo. E poi bisogna che tu avverta Cosimo perché mi venga a prendere. Non voglio che venga tu ad accompagnarmi.
Mema, quando la vecchia Addolorata le disse che probabilmente se ne sarebbe tornata a casa, si mostrò dispiaciuta, ma nell'intimo si sentì felice: questo voleva dire che Marino non nutriva più tante preoccupazioni per la sua salute. Allora, cominciava a star bene. Ma era poi vero? Tuttavia, faceva freddo, un freddo che toglieva il respiro. Addosso a Mema, che stava a letto, avevano messo altre coperte. Sotto le coperte, al caldo, la ragazza sorrideva e rispondeva con franchezza alle domande di Marino e di Addolorata. Anche se, in fondo, i due facevano di tutto per non farla parlare troppo, per non affaticarla. Così, Mema talvolta indugiava nella lettura di un vecchio libro di preghiere che Marino aveva trovato in un ripostiglio del casolare.
Ma al mattino, quando si levò e, come sempre, andò alla finestra, Marino trovò, a dargli il buon giorno, la candida distesa.
Nei giorni precedenti qualche avvisaglia c'era stata: lievi spruzzate, a intervalli irregolari, di un nevischio che aveva volteggiato in un'atmosfera resa ostile dalle ombre lunghe che la nuvolaglia distendeva sulle cose. Da quella massa grigia che assumeva forme fantastiche veniva la minaccia.
Adesso, l'acqua, nel vascone accanto al pozzo, era ghiacciata. Quella delle pozzanghere, sporca, ai confini dell'aia, sembrava di vetro sudicio. Sul sedile di pietra, accanto alla porta d'ingresso, quello che Marino aveva ricavato da un monolite poggiato su due pietre squadrate uguali, c'erano almeno due palmi di neve fresca, farinosa, incontaminata. Minacciosa, peraltro, la si sentiva sugli embrici macchiati dai licheni con efflorescenze tenere. Marino si sarebbe dovuto arrampicare sulla scala a pioli e avrebbe dovuto cercare di liberare il tetto della casa dalla neve: spingendo con lunghe pertiche o lanciando secchi d'acqua.
Era una grossa fatica da affrontare.
Il cane non s'era elettrizzato allo spettacolo della neve, anzi, se ne stava immusonito, in silenzio, nella cuccia. Solo, di tanto in tanto, mandava qualche mugolio. Temendo che avesse troppo freddo, Marino lo chiamò in casa e gli ordinò, portando l'indice della mano destra alle labbra, di starsene zitto accanto alla porta.
Il paesaggio intorno era irreale. Qua e là ciuffi d'erba, e siepi, alberi, muri a secco, costruzioni rurali, tutto era sepolto sotto il bianco silenzio della neve.
In cucina Addolorata s'affaccendava con i tegami d'argilla scurita dal fuoco.
- Mema - disse, piuttosto amareggiato Marino, adagiandosi sulle coperte, accanto alla ragazza che s'era sollevata sul cuscino coprendosi le spalle con una mantellina di lana -, fuori c'è la neve... -. E circondò con un braccio le spalle esili di Mema, che sorrise e disse: - Me ne sono accorta stanotte. C'era un silenzio così strano: come di morte...
Mema tacque per un po', poi chiese: bello fuori? - il cielo era grigio e le nuvole pesanti d'altra neve.
- Ti dico io se è bello! - mormorò l'uomo che si preoccupava anche per le colture alle quali la neve avrebbe arrecato altro, e irreparabile, danno rispetto a quello che già avevano subito per il freddo intenso dei giorni precedenti. Un'annata in malora!
Ma soprattutto si preoccupava, Marino, per Mema alla quale quel freddo non avrebbe certo giovato.
Addolorata portando il caffè a Mema, li trovò così e sorrise allo spettacolo di quella tenerezza. Marino invece si levò e si diresse verso la porta.
Stai a letto - disse -; adesso ti accendo il fuoco - e guardava con occhi tremebondi la ragazza il cui volto pallido risaltava sul cuscino spiegazzato. Marino si dette da fare, intorno al camino fuligginoso, e poco dopo la fiamma si levò allegra e scoppiettante insinuandosi nella canna nera, dalla quale di tanto in tanto cadevano grumi di fuliggine. -Resta a letto, Mema. Vado un po' nel campo a raccogliere, se la neve me lo permette, un po' di verdura e torno - disse di nuovo, d'un fiato. Gli fece eco Addolorata: - Non tardare, Marino: fuori fa molto freddo.
- Vai pure, Marino - disse rassegnatamente Mema. E lo seguì con lo sguardo, conservando nelle pupille terse l'immagine di quelle spalle vigorose, di quel torso robusto, di quelle mani forti nelle quali aveva tranquillamente posto il proprio destino di donna bisognosa d'amore e di salute.
Fuori continuava a nevicare. Quando le falde di neve si posavano sui vetri, subito si scioglievano lasciando una gocciolina d'acqua che rigava il vetro scendendo.
Come Marino uscì, Mema si levò con impazienza. Si vestì lestamente sotto lo sguardo esterrefatto di Addolorata. Che si premurò di chiedere, visibilmente sorpresa: - Ma che fai, Mema?
Mema non volle rispondere. Voleva vedere la neve, come se non l'avesse mai vista. Che cosa cercasse era ignoto ad Addolorata, che non capiva la fretta dalla quale sembrava dominata, adesso, la ragazza. Mema, invece, voleva rendersi conto se la neve era come quella del sogno che tanto l'aveva affascinata.
Arrivata alla finestra, guardò fuori. Era bella, candida, forse più bella di quella del sogno, dove la neve a tratti dava l'impressione d'una cosa imprecisabile offuscata, ingrigita. Si sa, d'altronde, che nei sogni, anche i più verosimili, le cose appaiono come deformate, obbedienti ad una realtà che non è assolutamente quella di tutti i giorni. Forse Mema di questo voleva rendersi conto!
- Che bella ! - esclamò Mema come una bambina sperduta in un bosco incantato. E Addolorata intanto le stava dietro trepidante. Poi questa esclamò con voce risentita: - Mema, vuoi tornare a letto? Se torna improvvisamente Marino è capace di fare una scenata!
Il fuoco mandava gloriosamente in alto la sua fiamma e spandeva intorno scintille che, spegnendosi in ogni dove, lasciavano un granellino di cenere.
Mema prese a tossire. Era la sua, dalla bocca che s'apriva, faticosamente, dalle guance arrossate per il caldo, una tosse secca, insistente, maligna, che faceva sudare e non finiva mai.
Ad un certo momento Mema si sentì soffocare. Fu un attimo angoscioso. Sedutasi sul letto, si comprimeva il petto con la mano destra, cercando di sostenere tutta se stessa nello sforzo che la tosse le provocava. La fronte le s'imperlò di sudore. Poi si sollevò, fece qualche passo, ma non si diresse verso la porta. Andò di nuovo alla finestra, come incredula: la neve scendeva copiosamente: la guardava incantata. Poi andò alla porta.
Seduta su uno sgabello, accanto al focolare, Addolorata piangeva silenziosamente mordendosi le labbra. Mema stava per uscire. Sulla soglia si fermò un attimo soprappensiero. Lestamente, tornò nella stanza, si buttò sulle spalle lo scialle nero e superata finalmente la soglia, dove la neve si sfaceva in sporca poltiglia, s'incamminò nella campagna. Nel vano della porta s'era fatta Addolorata terrorizzata.
Mema avanzando affondava in quel bianco impalpabile, in quell'elemento incorporeo, e si sentiva felice. Ed ancor più felice fu quando cercò, con la memoria, di ricostruire le diverse fasi del sogno nel quale s'era vista in un campo di rosolacci fioriti sulla neve. Si guardava intorno e dappertutto vedeva i rosolacci fiorire con quel rosso che urlava sulla bianca distesa. Poi scorse venire da lontano la torreggiante sagoma scura di Marino. In tutto quel bianco costui si levava come un gigante e, avendola individuata, s'affrettava, per quanto glielo consentiva la neve nella quale scendeva fino al ginocchio, agitando allarmato le mani.
Fu a questo punto che al colpo di tosse seguì il sangue. Mema, che si spingeva avanti nella neve incontaminata, ne ebbe la bocca piena. Ne sentì il caldo malsano nella bocca. Non riuscì a trattenerlo e non fece nemmeno in tempo a portarsi alla bocca uno straccio qualsiasi.
Poi guardò sulla neve e s'accorse, senza stupore, che la bianca distesa era diventata un campo di rosolacci che lentamente erano assorbiti dalla neve, lasciando tuttavia un rosso contorno schiumoso che anch'esso sbiadiva.
Mema guardava come incredula un sogno diventato tragica realtà. il sangue adesso non le faceva più paura, anzi le infondeva coraggio. le faceva compagnia. Rappresentava il suo destino, tutto spiegato sull'innocente candore della neve.
Ma già Marino sopraggiunto, l'aveva presa in braccio e, leggera com'era, la portava senza fatica dentro casa. La depose delicatamente sul letto e la coprì. Poi la baciò e non le disse alcuna parola di rimprovero.
- Che bello, Marino - diceva, intanto, Mema estasiata -, era come nel sogno... il sangue sulla neve, com'era rosso... sembrava una interminabile fioritura di rosolacci.
Infine, Mema pianse, a lungo, silenziosamente, ed allora si quietò quando si trovò nel lettino del sanatorio.

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